dossier essico
Mexico racconto a tappe
di Franca Bellini
Due anarchiche italiane per la prima volta
a Città del Messico e nel Chiapas. Appunti di un'esperienza
coinvolgente.
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Oventic
Siamo state, io e la mia compagna di
viaggio, un mese e mezzo in Messico tra dicembre 99 e gennaio
2000. Poche tappe e lunghi spostamenti in pullmann, Città del
messico, Oaxaca, Mazunte e Chiapas. Quelle che seguono sono
alcune note di viaggio e il racconto più dettagliato della nostra
permanenza in Chiapas.
D.F.I.
L'impatto con la megalopoli, el de-efe come familiarmente
la chiamano i messicani, è tremendo: una morsa di smog che prende
gli occhi e la gola, auto a sciami, un sacco di persone armate
a guardia di negozi, banche, alberghi, mezzi pubblici. I suoi
24, 26, 30 milioni di abitanti (impossibile ormai censirli)
si fanno vedere: nell'arrivo in aereo di notte che vola su un
mare di luci per un quarto d'ora prima di atterrare, nel traffico
in metrò nelle ore di punta dove donne e bambini hanno corsie
riservate, nelle umane fiumane impossibili da attraversare.
Ai turisti si sconsiglia di prendere i taxi maggiolini verdi,
d'accordo, ma in giro si vedono solo questi. Città del Messico
è l'apoteosi del pieno, del caos organizzato, del frastuono
vitale che poi si ritrova nel resto del paese. Insomma una città
stupenda.

Oaxaca
Sei ore di pullmann più a sud, in una conca coronata da montagne,
si sviluppa in larghezza la città di Oaxaca, capitale dell'omonimo
stato. Anche qui ci sono movimenti di indios guerriglieri che
rivendicano la terra e quindi posti di blocco dell'esercito
federale: i militari salgono sul pullmann, guardano distrattamente
i bagagli, chiedono i documenti a chi non ha la faccia da gringo.
La città è un mosaico di colori, dalle case ai mercati ai cibi
venduti per strada dove i fumi che sanno di carne asada
o pannocchie al vapore si mescolano a quelli dei motori diesel.
Al mercato del sabato centinaia di bancarelle con mucchi ordinati
di frutta e verdura, svariati tipi di banane, rapanelli, cactus,
pezzi non identificati, fagioli e soprattutto peperoncini, carne
e frattaglie appesi come tende, due serpenti nella gabbia per
vendere il veleno terapeutico.
Mont Alban è l'antica capitale zapoteca, su una collina a mezzo'ora
da Oaxaca, e ancora domina l'intorno a perdita d'occhio, dall'alto
delle piramidi e sulla sua piazza con l'osservatorio astronomico
e il campo di pelota. La strada che porta alla collina archeologica
costeggia la periferia della città: una baraccopoli variopinta
con negozi, terrazze, panni stesi, sentieri di terra rossa e
cespugli rigogliosi, bambini e cani randagi a zonzo, il caos
babelico della povertà, e la Coca Cola non manca mai.

Due bambine ci chiedono una foto
Mazunte
Sulla costa dello stato di Oaxaca, la stessa di Puerto Escondido,
siamo nel pieno della rotta turistica "alternativa". Ovvero
un posto apparentemente senza tempo, dove si ciondola tra l'oceano,
le cabanas e le amache sulla spiaggia, mangiando pesce
e frutta e drogandosi quanto si vuole. Dopo un giorno è chiaro
che questo paradiso si regge di molto sul turismo giovanile
che cerca lo sballo e si liquefa nella bellezza senza altro
pensare. I rapporti con la comunità (500 di cui metà bambini)
sono tangenti e rilassati, di minima interferenza e poca confidenza:
scambi commerciali e saluti, costumi diversi, curiosità un po'
celata. La piazza del paese, che è un campo da basket, al tramonto
si riempie di bambini e ragazzi e pure di uccelli che cantano
a squarciagola e coprono le voci umane. Prima Mazunte aveva
un mattatoio di tartarughe come attività principale, poi gli
ambientalisti inglesi e canadesi, con il governo messicano,
hanno cercato di convertire lo scempio nell'ecoturismo, escursioni
e cosmetici. L'impressione è che qualcosa sia rimasto a metà
e che la nuova attività non decolli e forse non interessi più
di tanto ai locali.
Viaggio notturno fino in Chiapas, con l'ultima enorme luna piena
del millennio e una luce che fa vedere tutto.
San
Cristobal
Capitale culturale del Chiapas, 2300 metri di altezza, San
Cristobal è una cittadina dove ci si potrebbe trasferire. Donne
e bambini indios vivono tutto il giorno per strada a vendere,
poi la sera coi collectivos tornano nei villaggi sulle
montagne circostanti, o nelle baracche della periferia. Vendono
prodotti di artigianato, pupazzetti col passamontagna, cibo,
sigarette e dolciumi, giornali, pulizia delle scarpe. Due bambine
chiedono una foto e poi dieci pesos, altri una firma
su un quaderno per la scuola e poi cinque pesos. Se li
inviti a mangiare al tuo tavolo vanno a chiamare anche gli amici,
perché i turisti conoscono l'abbondanza e qualcosa avanza sempre.
Nella piazza centrale e per le strade militari in nero annoiati
pattugliano e ricordano che la guerra è anche psicologica, qui
più che mai. Allo stesso modo tutte le strade del Chiapas sono
piene di retain dell'esercito, per i locali, o della
polizia migratoria, per gli stranieri, che devono limitarsi
a fare i turisti e non immischiarsi nelle questioni politiche.
Questo lo sapevamo e abbiamo avuto modo di approfondirlo in
un incontro ravvicinato con fermi, interrogatorio, espulsione
speriamo temporanea e un mare di palle dette da inquisiti e
inquisitori, un gioco delle parti che all'inizio può intrigare
ma alla fine è estenuante. Il tutto in un clima di laccata cordialità
e nella completa inconsistenza dei diritti (legali?), perché
la migracion è lì per ricordarti che loro hanno il potere
e tu no.

Oventic
A pochi chilometri dal posto di blocco la strada asfaltata
passa accanto a un recinto che racchiude case di legno e cemento,
la più grande illuminata da murales con le facce di Zapata,
Che Guevara e la comandante Ramona. E' la clinica "la Guadalupana"
dentro la comunità di Oventic, Aguascaliente II, come dice il
cartello all'ingresso, dove una guardia col volto coperto chiede
le credenziali politiche a chi vuole entrare. Aguascalientes
sono luoghi in cui si sono tenuti incontri zapatisti, poi diventati
centri di servizi e basi di organizzazione gestiti dagli
insurgentes, uomini e donne in perenne mobilitazione per
la causa zapatista. Fanno i turni per tenere aperto l'ospedale
giorno e notte, per la guardia, per la cucina e le pulizie,
per quasi tutto. Vivono nella paura e lo dicono, anche se il
clima umano è piacevole e la solidarietà senza fronzoli, come
in tutte le situazioni estreme. Fanno lunghe riunioni e organizzano
una quantità di corsi di formazione per i promotores de salud,
volontari che scelgono di occuparsi di salute non istituzionale
perché gli indios nelle strutture governative non ci vanno a
farsi curare. Così alla clinica del territorio liberato arrivano
persone con le tipiche malattie dei poveri: denutrizione, parassiti
intestinali, problemi ai denti, ai polmoni, ai reni, freddo
e gastriti. Non è difficile collegare questo repertorio di mali
con certe condizioni di vita quotidiana: dieta fissa di fagioli,
tortillas e caffè, fatica e tensione costanti, il fatto che
non hanno vestiti per coprirsi quando di sera viene freddo,
l'acqua dei torrenti che bevono ma non sarebbe potabile. Arrivano
a volte dopo ore di cammino, coi bambini piccoli appesi allo
scialle, aspettano per il consulto del dottore compa§ero
affiancato da qualcuno che traduce dalla lingua indigena, pagano
niente, o poco se il medicamento è costoso. Noi lì abbiamo portato
le terapie della medicina tradizionale cinese, strane sì ma
non tanto dissimili dalla medicina tradizionale maya.
Il 31 dicembre Oventic si è riempita di gente, circa 4000 persone,
giunta dalle montagne vicine per festeggiare il sesto anniversario
dell'insurrezione zapatista, e allora la comunità sembrava una
piazza nell'ora di punta. Molti ne hanno approfittato per farsi
curare, alcuni hanno allestito banchetti di cibarie, di sottofondo
la musica e la voce del microfono commentava il torneo di basket
e presentava i balli, canti e discorsi preparati per l'occasione.
Tra le facce scure, quasi tutte coperte dal fazzoletto rosso
per questioni di appartenenza e di sicurezza visto che è pieno
di giornalisti, ogni tanto qualche faccia bianca imbacuccata,
degli accampamentisti o zapaturisti più o meno coinvolti e comunque
utili perché la loro presenza dovrebbe dissuadere da azioni
violente militari. Sono questi gli stranieri indesiderati dalle
autorità statali e che infatti verranno fermati in massa due
giorni dopo. Tutti si assiste al discorso del comandante Pablo,
mentre più in là sulla terra si sono accese decine di fuochi
per aggredire in qualche modo il freddo. Il discorso è seguito
con attenzione, in spagnolo e in tzotzil, e parla della
ragione che hanno e della repressione che subiscono, "la guerra
a bassa intensità", del Messico come territorio di cui fanno
parte anche loro, ed eccola lì infatti la bandiera, delle risorse
e della loro miseria, ma stiamo uniti o perderemo, poi l'inno
e tutti cantano. Resta sospeso col fiato bianco un misto di
calore, tristezza e rabbia che prontamente la marimba scioglie
in un ballo gigante fino all'alba. Il giorno dopo ci svegliamo
e sono partiti quasi tutti, c'è il torpore del dopo festa e
il sole accecante dell'inverno tra il tropico e l'equatore.
S. Cristobal mercato
S.
Isidro
La camionetta ci accompagna in un'altra clinica, ancora più
in alto e sperduta, dove per arrivarci si percorre uno sterrato
di mezz'ora tra pini e campi di mais che macchiano di giallo
il verde fitto delle montagne. Poco prima della meta c'è una
sbarra di legno col lucchetto, per limitare il flusso di auto
e per impedire l'accesso ai mezzi dell'esercito, regolarmente
appostato a mezzo chilometro in linea d'area, con gli elicotteri
che escono mattina e sera per controllare i movimenti dei villaggi.
_ una zona zapatista da subito, ora anche priista per le continue
lusinghe e manovre che il partito rivoluzionario istituzionale
(PRI), al governo con brogli da circa 70 anni, continua a mettere
in atto per farsi votare e per erodere terreno alla volontà
di autonomia indigena. Girando per il Chiapas si vedono, oltre
che la tricolore propaganda elettorale ovunque, cartelli e trovate
autopromozionali del governo tipo nuovi tetti di lamiera, programmi
per la salute e il controllo delle nascite, gran pubblicità
delle opere infrastrutturali (luce, acqua, strade) fatte passare
come un'elargizione straordinaria.
La clinica di S. Isidro sta in un piazzale di terra rossa e
serve diversi villaggi della zona, anche a varie ore di cammino.
E' una costruzione di cemento circondata da casette di legno
col tetto di paglia, locali accessori per la gestione del servizio.
Non c'è luce se non quando si accende il generatore e il fuoco
in cucina è l'unica fonte di calore. I volontari che ci lavorano
tengono aperto l'ambulatorio e un piccolo negozio, cucinano,
fanno l'orto e le pulizie, studiano medicina. Per la maggior
parte sono ragazzi dai 15 ai 22 anni, ma l'età anagrafica non
conta perché lì si cresce molto più in fretta (e si muore prima).
La sera attorno al fuoco prendiamo il caffè col pan dulce che
vale come cena; le due ragazze di turno mi dicono che al matrimonio
non ci tengono, "le donne sposate soffrono e lavorano troppo"
, poi vogliono imparare l'inglese "perché serve" e mi chiedono
di tradurre una trentina di parole correnti. Che la clinica
sia un servizio comunitario lo testimoniano non solo il lavoro
e la motivazione dei volontari ma anche le modalità decisionali.
Il giorno dopo il piazzale si riempie di persone, quasi tutti
uomini, arrivate per una riunione in cui si dice come sta funzionando
la clinica come ci dividiamo i prossimi lavori di ampliamento.
Circa cento persone dedicano quasi otto ore a parlare e confrontarsi,
insieme e in gruppi a seconda del villaggio di provenienza,
per giungere a un impegno scritto della loro disponibilità.
Mi sento rinfrancata, come chi ha assistito a qualcosa di prezioso.
Questa forma comunitaria è quella che ha permesso agli indios
di conservarsi dalla conquista a oggi, che si è congiunta con
l'EZLN per pretendere un bene maggiore, e una vita più dignitosa,
senza trascurare la questione dei mezzi e la tentazione del
potere.
Franca Bellini

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