Rivista Anarchica Online


dossier agricoltura

Dal controllo del mercato al controllo della società
di Adriano Paolella e Zelinda Carloni

 

Il modello produttivo agricolo e la destrutturazione della comunità e dell’ambiente.

 

attuale modello produttivo concentra la produzione agricola in pochi soggetti ed in ambiti geografici limitati.
Gli operatori che gestiscono la produzione agricola hanno un esclusivo interesse nell’aumento del profitto
Per ottenere questo risultato i produttori:
1. aumentano le quantità di produzione per ettaro, aumentando l’artificializzazione dei sistemi produttivi anche inquinando e mettendo a rischio gli equilibri complessivi e la salute delle popolazioni;
2. ampliano il mercato delle loro merci, imponendo prodotti da loro gestiti;
3. sfruttano le comunità rendendole dipendenti dalle loro politiche aziendali, togliendo l’autonomia produttiva e gestionale, costringendo i lavoratori alla miseria e a rischi per la salute derivanti dall’uso di fitofarmaci e concimi chimici;
4. occupano terreni collettivi naturali eliminando le coperture forestali e distruggendo le comunità locali; spingono i contadini alla colonizzazione agricola di nuovi ambiti o ad inurbarsi (non vi sarebbero i fenomeni di urbanizzazione mondiali se la vita agricola fosse più decente e quindi meno spadroneggiata dalle bande degli operatori).
Gli organismi di finanziamento internazionale supportano le azioni di tali operatori attuando attraverso finanziamenti condizionati la destrutturazione delle politiche agricole dei paesi e aprendo così la strada ai grandi produttori.
Il maggiore connubio tra interesse dei grandi produttori e stato si riscontra negli Stati Uniti che fondano appunto sugli interessi dei produttori le politiche interne ed esterne, con il controllo degli organismi internazionali, con il controllo militare dei territori, e sostenendo la diffusione di un modello che conviene quasi esclusivamente al loro assetto politico e produttivo.
Questa condizione comporta la destrutturazione delle comunità locali che:
non controllano più l’ambiente in cui sono insediati, in quanto trasformato per consentire le produzioni richieste dagli imprenditori e dal mercato da essi controllato; dipendono dalla vendita di un prodotto di cui non gestiscono nè le modalità produttive nè il mercato; diventano succubi della vendita delle monoproduzioni avendo abbandonato l’agricoltura tradizionale e dunque non avendo alcuna possibilità di alimentarsi se non con l’acquisto degli alimenti attuato con i ricavi della monocoltura; si alienano in sistemi produttivi di tipo industriale che sono quelli che garantiscono la maggiore quantità di prodotto.
Le comunità locali divengono dipendenti, si destrutturano, perdono l’autonomia; l’ambiente alterato si trasforma, si degrada; le scelte sociali e ambientali dipendono sempre più dalle scelte operate dagli imprenditori e dal mercato da essi governato.

 

La fame nel mondo:
l’aumento demografico
sostanza del mercato

Cifre eloquenti: secondo le stime più accreditate la popolazione mondiale aumenta di circa 90 milioni di individui ogni anno, numero che può essere considerato grosso modo equivalente ad un incremento pari alla popolazione dell’Italia e della Spagna insieme.
Le variabili che intervengono a definire l’andamento demografico sono molteplici, tuttavia tra esse alcune permettono una visione leggibile di una crescita, che sebbene sempre presente nella storia dell’umanità, è nelle sue dimensioni caso assolutamente nuovo e preoccupante e la cui osservazione è indispensabile per capire la dinamica di molte circostanze non solo legate agli ambiti sociali, ma anche economici, politici e ambientali.
È di fatto molto difficile separare il problema della produzione agricola mondiale dal problema dell’alimentazione, problema che viene appunto utilizzato come stimolo per una sempre maggiore produttività agricola e per una industrializzazione dei sistemi di coltivazione.
Il primo luogo è opportuno porre attenzione su questa apparentemente stretta relazione di necessità evidenziando tutte le mistificazioni che sono state organizzate sul tema.
Alcuni dei fattori che hanno determinato l’esponenziale sviluppo demografico degli ultimi secoli sono attribuibili all’aumento della speranza di vita media (derivante dalla maggiore diffusione di medicine e terapie), dalla diminuzione della mortalità infantile, dall’aumento delle risorse alimentari. Tutti questi fattori sono stati sviluppati e sostenuti dai paesi coloniali e sono stati imposti ai paesi “in via di sviluppo” sostituendo forzatamente al modello sociale esiente un modello da esso lontano e apparentemente più efficiente.
Questa diffusione di “civiltà” ha destrutturato il benessere esistente nelle società locali in ragione di un benessere maggiore, sostenuto dall’imposizione delle armi e dell’usura, che ha messo in condizioni le popolazioni locali di non potere scegliere ma di dovere necessariamente assoggettarsi ad esso onde evitare una marginalizzazione ancora superiore a quella in cui erano costretti a vivere.
Ma il modello imposto, oltre a manifestare una arroganza sconvolgente nei confronti delle comunità, nascondeva un inganno profondo: quello dell’interesse commerciale.
E negli ultimi anni lo spettro dell’altruismo che si aggirava per il mondo ha mostrato quanto fosse limitato: il numero di persone sotto la soglia della povertà è tragicamente aumentato, le società sono sempre più scosse da guerre alla cui base vi è il predominio delle risorse, la corruzione permea gli stati fittiziamente costruiti su organizzazioni di comunità preesistenti.
Il “sud del mondo” è sempre più il luogo di prelievo delle risorse, siano esse ambientali e umane, e nel mondo si muore sempre più di malattie che in occidente non prevedono nemmeno l’ospedalizzazione.
Ma principalmente grazie a questo modello non vi è più nessuna relazione tra territorio delle comunità e comunità stessa e dunque tra comunità e risorse disponibili, e quindi non vi è più nessuna forma di gestione nè naturale nè culturale dell’incremento demografico.
Su questo hanno inciso inoltre le religioni che fondano il loro potere principalmente sul numero degli adepti, e quindi cattolici e mussulmani stimolano una continua crescita nella ricerca di una colonizzazione planetaria.
L’enorme aumento di individui produce uno scompenso costante tra necessità alimentari e risorse disponibili e, sempre nell’ipocrisia che sostiene il modello, gli alimenti necessari a sfamare l’intera popolazione mondiale divengono di interesse degli stati ricchi. Con il costante aumento degli individui il problema alimentare, nonostante anche la produzione mondiale aumenti costantemente, è prioritario di anno in anno, in un continuo inseguimento dell’aumento della produzione all’aumento del numero degli individui.
A livello internazionale la soluzione al problema della fame nel mondo viene posta con un criterio riassumibile in una frase: diamogli da mangiare.
E questo viene dichiarato anche quando sono noti o immaginabili dei limiti per la produzione stessa, limiti di spazio fisico per garantire la presenza di un così alto numero di individui, limiti propri del sistema planetario.
Non solo, a questo si aggiunge un continuo aumento dei consumi alimentari da parte dei paesi del “nord del mondo” e della proposizione di un modello di spreco anche per i ricchi e i benestanti dei paesi poveri.
Dunque sembrerebbe che il principale problema sia la riduzione della domanda di alimenti e quindi in primo luogo la riduzione del numero della popolazione e di una più equa distribuzione perché il contemporaneo aumento di domanda e offerta non può essere praticato all’infinito.
Eppure, tra le soluzioni che si prospettano a riguardo non si fa mai cenno alla necessità di introdurre un drastico sistema generalizzato di controllo delle nascite, nè di riduzione dei consumi.
Tutte le soluzioni che si prospettano non pongono in relazione questi fattori nè si interrogano sul modo di ridurre questa evidente abnormità anche attraverso l’uso di una agricoltura diversa da quella imposta dal modello commerciale, ma al contrario sembra di rileggere nelle proposte formulate una specie di compiacimento, come uno sfregarsi le mani prima di tuffarle in un forziere.
In realtà il problema demografico è tutt’altro che un problema per chi, su questo fenomeno, fonda i propri profitti e sostiene il proprio privilegio.
Il problema dell’alimentazione è dunque di fatto una necessità del mercato come lo sono i disoccupati per la produzione industriale, esso rappresenta la domanda di prodotti alimentari, e il mantenimento di una quota di domanda insoddisfatta è funzionale al sistema del mercato e garantisce una maggiore controllabilità in termini sociali e politici delle comunità.

 

L’Agricoltura soddisfa il consumo
ma non l’alimentazione.
Non è solo un problema di disponibilità

La misura che più si caldeggia per la risoluzione del problema alimentare è apparentemente ovvia e semplice: aumentare la produzione di cereali. I cereali sono la base prima dell’alimentazione, e per gran parte del terzo mondo costituiscono la fonte pressoché esclusiva di nutrizione: mais, soia, grano sono la materia di sopravvivenza per miliardi di persone.
Ma l’aumento della produzione cerealicola può derivare solo da due circostanze: l’aumento della superficie coltivata e l’intensificazione della produttività specifica.
Nel mondo, le risorse di terra coltivabile non sono illimitate: già nell’ultimo secolo l’utilizzo di terre per la produzione agricola si è esteso a comprendere la quasi totalità delle aree disponibili.
In questo momento, inoltre, buona parte delle aree produttive è oggetto di interesse da parte dell’allargamento degli insediamenti e delle infrastrutture (sono stimati circa 5 milioni gli ettari ogni anno consumati per urbanizzazione e infrastrutture), e altre sono soggette a fenomeni erosivi e di perdita dei suoli fertili che ne precludono l’utilizzo per l’agricoltura. Altra parte delle terre disponibili è assegnata al pascolo e all’allevamento animale in genere.
Quindi in realtà non è possibile ipotizzare una grande espansione delle superfici agricole produttive a meno di interessare con esse terreni che in qualche forma attualmente possiedono elevati caratteri di naturalità (foreste, aree umide etc.) anch’esse comunque in forte riduzione proprio per il continuo prelievo di risorse e l’uso agricolo.
Alla necessità di reperire sempre nuove superfici produttive nel corso del tempo si è infatti risposto con misure devastanti, come, per esempio, il disboscamento di vaste aree di foreste, il non rispetto dei cicli di riposo del terreno. Oltre ai danni all’ambiente queste misure non assicurano affatto un raccolto soddisfacente: nel primo caso infatti, non si verificano le potenzialità effettive dei suoli e non si rispetta il periodo di ristabilizzazione del terreno convertito (periodo che può arrivare fino a cinquant’anni); nel secondo caso, non rispettando il criterio della rotazione delle colture, si forzano i suoli con prevedibili collassi in termini anche produttivi.
In realtà il problema delle superfici agricole disponibili non è correttamente trattato: quella che è sicuramente ridotta nel pianeta è la presenza di superfici utili all’attuale sistema produttivo ovvero la presenza di superfici utili controllabili dagli attuali produttori e che garantiscano uguali o superiori profitti.
Ai produttori di banane non interessa che vi siano dei banani a conduzione familiare o locale, anche se sfamano un gruppo di persone, anzi questa disponibilità riduce il mercato potenziale della stessa azienda produttrice. Il suo interesse è avere superfici produttive prossime a quelle già controllate o di tali dimensioni da essere funzionali ai sistemi produttivi e di commercializzazione. Di fatto, se è vero che si continuano a cercare nuovi terreni per la coltivazione estensiva, è altrettanto vero che il criterio dell’industrializzazione nell’agricoltura comporta la necessità di vaste aree da trattare, scartando i piccoli appezzamenti e i terreni impervi (da sempre ostinatamente coltivati dall’uomo) sui quali non è possibile applicare tecniche di coltivazione estensiva, tant’è che la superficie agri cola utilizzata dagli anni ‘50 ad oggi è diminuita.
Questa circostanza produce un fenomeno aberrante e socialmente devastante: da una parte si assiste all’abbandono delle piccole e medie aree da parte di coltivatori diretti che vanno ad ingrossare le fila della disoccupazione urbana, dall’altra i nuovi metodi di coltivazione si inseriscono in modo sconsiderato nell’ambiente, producendo guasti naturali e sociali di pesante impatto.
Quindi quando si parla di disponibilità assoluta di superfici agricole si trattano i grandi numeri come se non potesse sussistere una distribuzione più equa delle produzione e come se tutti i sistemi di produzione locale dovessero essere destrutturati per fare posto alle grandi produzioni.
Partendo sempre dall’obiettivo categorico, e mai discusso, dell’aumento della produzione e dalla considerazione della impossibilità di aumentare significativamente le superfici agricole la ricerca si è concentrata sulle soluzioni atte ad aumentare la quantità di prodotto per ettaro.
L’aumento delle aree irrigue, l’introduzione massiccia dell’uso dei fertilizzanti chimici e dei fitofarmaci ha dagli anni ‘60 portato ad un’impennata della produzione cerealicola ed in generale della produttività per ettaro di tutte le colture.
Ma, al momento attuale, dopo un progressivo lieve decremento di produzione registrato dagli anni ‘80, si è praticamente giunti al limite della possibilità di spingere la produzione ai massimi livelli attraverso i metodi di fertilizzazione artificiali. Anzi l’abuso dei concimi dei fitofarmaci e dell’irrigazione ha reso meno produttivi i suoli portando a collasso interi sistemi agricoli in diverse aree del pianeta.
E proprio partendo dalla falsante considerazione di non esservi più superfici disponibili si rilancia quella battaglia dell’aumento della produttività che fa di nuovo aumentare i profitti dei grandi produttori, che crea ulteriori differenze tra le diverse modalità di fare agricoltura e che, di nuovo, impone un modello basato sulla sudditanza locale ad un interesse lontano quanto potente.
Ed è così che oggi, giustificandola con le necessità alimentari della popolazione mondiale, si prospetta come inderogabile l’introduzione delle tecniche transgeniche, che consentirebbero un ulteriore incremento della produzione a parità di superficie coltivata.
Si sostanzia così l’ipotesi che il problema non sia la quantità di prodotto ma che sia il sistema di produzione e commercializzazione.
Sovrapproduzione, spreco, consumo e abuso delle merci sono tutti caratteri funzionali alla ottimizzazione dei profitti, ineliminabili nell’attuale conduzione senza ipotizzare l’annullamento o la drastica riduzione e ridistribuzione degli stessi.
La produzione agricola dovrebbe essere mirata a soddisfare le necessità e i piaceri delle comunità prima di soddisfare il profitto delle aziende (l’ananas è migliore mangiata sui tavoli delle famiglie europee che nei luoghi di produzione dove le monocolture, i fitofarmaci, i concimi, l’organizzazione degli impianti e del lavoro, lo sfruttamento dei lavoranti, le angherie la rendono piuttosto indigesta).
Di fatto il nodo sostanziale dell’agricoltura è che essa deve avere come obiettivo il benessere e non il consumo del prodotto e i profitti che ne scaturiscono.

 

Il monopolio dell’agricoltura
e il peso del mondo industrializzato

Le aziende degli Stati Uniti controllano il 40% del mercato mondiale dei cereali, molto di più di quanto non facciano i paesi arabi con il petrolio.
Per queste macro-aziende il problema demografico si tramuta non solo in un proficuo affare, ma anche in un terreno favorevole alla legittimazione di pratiche aberranti ai danni degli uomini, della società, della natura.
Quella in atto è una massiccia concentrazione della produzione agricola in immense piantagioni, che consentono l’uso esteso di tecniche e materiali, per una superproduzione condotta da alcune aziende divenute di fatto i gestori della alimentazione mondiale.
Questo monopolio alimentare fa sì che queste stesse mega-aziende abbiano un notevolissimo potere di contrattazione con gli Stati e i governi, ai quali possono imporre anche l’uso di tecniche non giustificate e fortemente nocive per l’ambiente e per le società.
L’introduzione della transgenetica nell’agricoltura che, come si è visto, è totalmente ingiustificata dalla necessità di alimentare la popolazione, è invece ulteriore consolidamento del sistema agricolo esistente e di rafforzamento dei monopoli.
Essa comporta, oltre ad oggettivi problemi di tipo biologico, la possibilità per una azienda di detenere l’esclusiva sulla produzione di un determinato tipo di coltivazione, possedendo essa il brevetto dei semi. Molti nuovi cultivar sono frutto di semi che producono piante sterili, di cui non si può utilizzare il seme per la piantagione successiva. Questa circostanza rende completamente dipendenti dall’acquisto di sementi vincolate al brevetto, e che quindi possono avere un prezzo esclusivamente deciso dai possessori del brevetto medesimo.
È evidente quindi come la preoccupazione di aumentare la produzione agricola per sfamare il mondo mostri la sua vera faccia: il problema alimentare si è tramutato in un immenso affare.
In realtà i criteri di superspecializzione dell’industria agricola messi in atto implicano che le forme agricole tradizionali, praticate e praticabili dalle popolazioni locali, siano del tutto inadeguate a competere con questi elefantiaci concorrenti; il risultato è l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli e medi produttori e la concentrazione della popolazione nelle aree urbane.
Inoltre questa pratica rende fatalmente dipendenti interi territori e i paesi più deboli dalle importazioni: dipendenza economica che si tramuta in dipendenza politica e crea danni incalcolabili sul tessuto sociale e naturale di un paese.
Il già potente “nord del mondo” utilizza organismi internazionali, quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, per supportare i propri fini di ristrutturazione di economie nazionali. Attraverso di essi pongono condizioni radicali alle scelte dei paesi che contraggono accordi di prestito o convenzioni commerciali tutti tendenti alla riduzione delle autonomie attraverso un controllo politico e sociale richiesto per assicurare il buon adempimento degli interventi.
Ma la richiesta smisurata di cereali non è tutta attribuibile alla necessità di provvedere a sfamare la popolazione mondiale: una consistente fetta di questa produzione (circa un terzo) viene assorbita dall’alimentazione per il bestiame, in modo particolare per l’allevamento di bovini, suini, pollame. Se però per un americano medio la richiesta è di 800 kg di cereali l’anno, tanti ne richiede la sua alimentazione basata principalmente sul consumo di carni e derivati del latte, per un indiano la richiesta è di 200 kg di cereali, quasi esclusivamente consumati direttamente. Si valuta che una giusta quantità, calcolata su una dieta equilibrata di tipo mediterraneo, sarebbe di 400 kg di cereali a persona.
Questa macroscopica condizione di disparità di consumi fa apparire chiaro come il problema alimentare sia anche un problema di distribuzione della ricchezza: se si producessero, per esempio, 2 miliardi di tonnellate di cereali l’anno, questi basterebbero a sfamare un mondo ipotetico fatto di 2,5 miliardi di americani, oppure di 10 miliardi di indiani.
È evidente quindi come, sulle esigenze alimentari, pesino i modelli di vita praticati nella società occidentale, modelli che però non vengono mai messi in discussione quando si tratta di trovare soluzioni al problema della fame nel mondo.

 

Conclusioni

Da quanto detto risulta chiaro quanto la produzione agricola non serva ad alimentare ma a fare commercio.
Il disinteresse verso i problemi sociali connessi alla produzione e il concentrarsi solo sui termini quantitativi dei prodotti sono la chiara testimonianza di come l’argomento dell’agricoltura e della nutrizione sia trattato in termini funzionali all’aumento del mercato delle merci.
Il commercio del prodotto agricolo impone i tipi delle colture, i luoghi in cui produrre e definisce gli ambiti di commercio: il commerciante sceglie di acquisire le merci nei luoghi dove ottiene il maggiore profitto indipendentemente dagli effetti ambientali e sociali che il realizzarsi del suo profitto comporta.
Lo scenario che si sta configurando tende al continuo avvicinamento della produzione agricola a quella industriale.
Ad una riduzione complessiva del numero dei cultivar corrisponde una riduzione della sostanziale diversità di tipi di alimenti presenti sul mercato: ad esempio l’enorme incremento di tipi di merendine non corrisponde ad una reale diversità in quanto esse hanno le stesse componenti, cereali e creme.
La questione del controllo della qualità dei processi produttivi e dei prodotti può ulteriormente contribuire alla riduzione del numero dei produttori; le specifiche tecniche di qualità dei prodotti sia a livello igienico sanitario, sia dei processi sono fatte a misura delle grandi aziende e difficilmente attuabili da quel diffuso artigianato che in passato attuava la trasformazione dei raccolti.
Queste misure, adeguatamente pilotate dalle grandi aziende, possono ridurre significativamente la concorrenza imponendo limiti alla produzione tali da porre in difficoltà la piccola produzione.
In sintesi, in uno scenario incredibile quanto probabile, si può ipotizzare che si verifichi sempre una maggiore concentrazione delle produzioni e un sempre maggior controllo del mercato degli alimenti; è possibile che il coltivatore diretto possa essere limitato nelle sue attività in quanto esse non corrispondono alle specifiche di qualità della produzione e delle merci definite a misura delle grandi aziende, tanto che l’autoproduzione e distribuzione diretta diventi perseguibile legalmente o impraticabile oggetivamente.
Il fenomeno perverso dell’industrializzazione dell’agricoltura ha comportato e comporta un’altra conseguenza di pesante riscontro sociale: la disoccupazione di grandi masse di coltivatori che si sono trovate estromesse dai nuovi criteri produttivi. Per rendersi conto della situazione basta pensare che nel 1850, negli Stati Uniti, il 60% della popolazione attiva era impiegata in agricoltura: oggi, nello stesso paese, meno del 2,7% della forza lavoro è direttamente occupata nel settore agricolo. A fronte di questo si è creata una sacca di disoccupazione che ha comportato, ai giorni nostri, circa 9 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà nelle aree rurali depresse. Evidentemente qualcuno ha pagato e paga ancora il prezzo di quella tecnologia agraria che ha reso gli Stati Uniti una potenza del settore, perché è evidente, da quanto detto finora, che se così pesa in America, molto più drasticamente risulta micidiale per quei paesi che hanno ancora l’agricoltura come strumento principe di produzione di ricchezza.
Infine una delle maggiori alterazioni che la nostra contemporaneità sta vivendo è la perdita della conoscenza dei sistemi di produzione.
Fino a non molto tempo fa anche nelle società “sviluppate” gran parte della popolazione era collegata alla agricoltura. I discorsi delle persone erano quasi tutti incentrati su elementi che avevano a che vedere con l’agricoltura e con le condizioni che ne determinavano la produttività. Era un sistema di comunicazione, attraverso cui si costituiva la comunicazione e il contatto tra le persone, ma era anche un mezzo di informazione e conoscenza: la comunità continuava ad affinare la propria cultura e a definire sistemi che maggiormente si adattassero ai propri caratteri e ai caratteri dell’ambiente.
Oggi i discorsi più diffusi attengono allo sport, alla telefonia mobile, agli autoveicoli, etc.: la conoscenza scambiata afferisce il funzionamento di un oggetto che non produce, e che non si controlla nè nella sua fase di fabbricazione, nè di manutenzione ma solo, e parzialmente, di uso. Gli utilizzatori infatti non posseggono alcuna cognizione di come realmente funzioni l’oggetto, nè di come sia gestito nè tantomeno di come si ripari.
Di fatto la comunicazione è fatta su passatempi mentre la organizzazione del lavoro e la gestione delle produzioni è ignorata e totalmente delegata ad altri.
Ma proprio relativamente al tema dell’agricoltura si assiste ad una riduzione della conoscenza: attualmente l’agricoltore possiede una conoscenza degli effetti della chimica o dell’uso dei macchinari ma non possiede una coscienza del sistema. Egli di fatto sempre più ignora l’agricoltura e la sua complessità sociale e ambientale, ignora come essa interagisca con le componenti naturali, come i cicli naturali e il leggero modificarsi delle stagioni possa influire sul sistema. Egli utilizza strumentazioni che sovrastano la conoscenza della morfologia, dei vantaggi del posizionamento dei siti, dell’importanza del susseguirsi delle colture, del variare delle stagioni.
Egli conosce gli strumenti produttivi, forse, ma non conosce il contesto in cui essi si applicano, nè gli effetti e dunque non li controlla ma anche in questo caso li consuma.

Adriano Paolella
e Zelinda Carloni

Alcuni riferimenti
bibliografici

Fonte dei dati
Renner M. (Worldwatch Institute), State of the War. I dati economici e ambientali del fenomeno guerra nel mondo, Edizioni Ambiente, Milano, 1999
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Biotecnologie
Ministero dell’Ambiente, Le biotecnologie, Atti del seminario del 24 settembre 1999, Roma, 1999
Rifkin J., Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano, 1998
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Nomisma, VII Rapporto Nomisma sull’agricoltura italiana 1999. La frontiera biotecnologica, Ed. Il sole 24 ore, Milano, 1999

Globalizzazione
Chomsky N., Sulla nostra pelle, Marco Tropea Editore, Milano, 1999
George S., Sabelli F., Crediti senza frontiere, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994
Chossudovsky M., La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998
Gesualdi F., Manuale per un consumo responsabile, Feltrinelli, Milano,1999

Varie
Faggi P., La desertificazione, Etaslibri, Milano, 1991
Indice internazionale, La ricerca infinita, Internazionale 2/97, Roma 1997
Rifkin J., La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano, 1997
Vallin J., La popolazione mondiale, Il mulino, Bologna, 1992
Myers N., Simon J., Scarsità o Abbondanza. Un dibattito tra ambiente ed economia, Franco Muzzio Editore, Padova, 1995

Nel 1950 la popolazione mondiale era di 2.556 milioni di persone con un incremento annuale di 38 milioni; nel 1998 la popolazione mondiale era di 5.190 (3,3 miliardi in più in 38 anni) con un incremento annuale di 78 milioni di persone. La progressione demografica più consistente si registra il Africa e in alcuni paesi del sud e sud-est asiatico, la più bassa nei paesi del nord del mondo. In Africa il numero medio di figli per donna è di 6,3, a fronte di un livello di mortalità infantile del 10%; negli Stati Uniti ogni donna ha, in media, 1,9 figli, a fronte di una mortalità infantile del 1% (Brown L.R. et al. 1999).

12 erano i conflitti armati nel 1950, 31 sono stati quelli del 1998; tra il 1989 e il 1997 sono scoppiati 103 conflitti armati; nel 1998 i rifugiati assistiti dall’ONU erano 22,4 milioni; il numero
di morti per guerra dopo la seconda guerra mondiale è superiore a quello delle vittime di quel conflitto; tra il 1984 e il 1995 sono stati venduti ai “paesi in via di sviluppo” circa 15.000 carri armati, 34.000 pezzi di artiglieria, 27.000 veicoli blindati, 1.000 navi da guerra e sommergibili, 4.200 aerei da combattimento, 3.000 elicotteri, 48.000 missili, milioni di armi di piccolo calibro (Renner, 1999)

Quasi un miliardo di persone nel pianeta è malnutrito; circa 828 milioni di persone soffre la fame ogni giorno; circa 600 milioni di persone (soprattutto in nord-America e in Europa) sono sovranutrite e sovrappeso (Brown L.R. et al. 1999).

Circa settanta paesi hanno più del 10% della popolazione sotto il livello di povertà (meno di un dollaro al giorno)(UNDP, 1998).

L’area coltivata a cereali nel 1950 era di 587 milioni di ettari, nel 1998 di 687 milioni di ettari, nel 1981 aveva raggiunto il massimo dell’espansione con 732 milioni di ettari (Brown L.R. et al. 1997)..

L’area mondiale irrigata nel 1961 era di 139 milioni di ettari, nel 1996 di 263 milioni di ettari (Brown L.R. et al. 1999).

La produzione di cereali era nel 1950 di 631 milioni di tonnellate, nel 1990 di 1780 milioni di tonnellate con una crescita dal 1950 al 1990 del 182%. Dal 1990 al 1996 la crescita è stata del 3%; questa è una ragione della ricerca sugli OGM (Brown L.R. et al. 1997).

Nel 1950 l’impiego di fertilizzanti è stato di 14 milioni di tonnellate, nel 1989 è stato di 146 milioni di tonnellate; nel 1996 di circa 120 milioni di tonnellate (Brown L.R. et al. 1997).

Continua a crescere il numero delle specie resistenti ai pesticidi; attualmente circa 1.000 tra i maggiori flagelli per l’agricoltura (comprendenti grosso modo 550 fra insetti e piccoli parassiti, 230 agenti infettivi e 230 erbe infestanti) sono immuni ai pesticidi. È questa un’altra ragione delle ricerche sugli OGM (Brown L.R. et al. 1999).

12,7 milioni di tonnellate, ovvero l’1% della produzione di granaglie, viene perso ogni anno a causa dell’impoverimento del suolo e dei danni derivati dall’inquinamento (fonte FAO 1998).

Nel 1998 l’area agricola mondiale dedicata ai raccolti transgenici è di 28 milioni di ettari, quasi il triplo dell’anno precedente(Brown L.R. et al. 1999).

La quantità delle superfici interessate dal degrado dei suoli è in costante aumento: negli anni novanta sono stati riconosciute le seguenti quantità di superficie con suoli degradati (in milioni di ettari): America del Nord 158, Europa 219, America Latina 243, Africa 494, Asia 747 (UNDP,1998).

Negli anni ottanta sono stati consumati più di 15 milioni di ettari di foresta (America latina 7,4, Africa 4,1) (UNDP,1998).


Gli Stati Uniti, tra grano e granaglie, producono 329.700.000 tonnellate e consumano 242.000.000 tonnellate, hanno così una differenza esportabile di 87.700.000 tonnellate di cereali (quantità superiore al consumo annuale dell’intera Unione Europea a 15 stati). Questa è una condizione unica nel pianeta che influenza significativamente l’autonomia dei paesi e le politiche alimentari planetarie. La Cina, ad esempio,che è uno dei maggiori produttori di cereali, produce 252.200.000 tonnellate annue di granaglie ma ne utilizza per consumi interni 245.000.000 avendo così una disponibilità di esportazione quasi nulla, 7.200.000 tonnellate, senza considerare la necessità di creare delle scorte (The Economist, 1999).
Gli Stati Uniti, nonostante siano tra i tre maggiori produttori mondiali di cereali, carne e ortaggi e quarti nella produzione di frutta non hanno che meno del 4% della popolazione addetta all’agricoltura (con meno del quattro per cento della popolazione di un solo paese si produce quasi il 30% della produzione agricola e zootecnica mondiale) (The Economist, 1999).
Nel modello attuato e spesso imposto l’incidenza dell’agricoltura sul PIL è bassissima: 2% negli Stati Uniti, mentre molto significativo è il PIL connesso alla trasformazione dei prodotti alimentari e alla sua commercializzazione.

 

IL DANNO CULTURALE DELLA SPECIALIZZAZIONE E CONCENTRAZIONE DELLA PRODUZIONE AGRICOLA

L'agricoltura, come qualunque altra attività produttiva umana prima dell'industrializzazione, era non solo l’oggettivazione di un lavoro relativo al soddisfacimento dei bisogni primari, ma anche, e non di meno, un'attività culturale.
La memoria dell’arte agricola, tramandata di generazione in generazione, è stata per millenni ricchezza e patrimonio del genere umano, dalla quale è scaturita un’immensa ricchezza di conoscenza e di osservazione del mondo. L'osservazione del movimento degli astri può aver avuto origine o incremento dall'importanza che questi elementi avevano sulla fertilità della terra; la chimica, la biologia, la botanica, e in generale, tutte le scienze che hanno come oggetto la terra e i suoi frutti, possono aver avuto impulso dalla necessità di conoscere le caratteristiche della natura agricola.
L'agricoltura, in sintesi, è stata per l'uomo non solo fonte di alimentazione, ma di conoscenza. La memoria storica della pratica agricola ha rappresentato per centinaia di anni un serbatoio di cultura e di ricchezza.
Di fronte a queste osservazioni appare evidente come l'applicazione alla realtà agricola di criteri simili a quelli che hanno condotto la rivoluzione industriale non può che depauperare l'umanità intera non solo del diritto inalienabile alla terra (e quindi al suo uso) ma anche del patrimonio culturale che questo possesso e quest’uso sottendono.
La concentrazione della produzione agricola, l'uso di tecniche di coltivazione con elementi di forzatura biologica, l'introduzione dei brevetti per la pratica della coltivazione transgenica, la drastica riduzione della manodopera, e, comunque, l'utilizzo di una manodopera che compie parziali operazioni dell'intero processo, fa sì che l'attività agricola perda completamente quei connotati storici che l'hanno fatta essere motore propulsore di costruzione dell'identità umana.

 

IPOTESI PERSEGUIBILI

È indispensabile sottrarre il mondo di sotto questo taglione, contrastando in modo netto la politica alimentare proposta/imposta dal criterio monopolistico occidentale. Questo è possibile se si considera come inalienabile il diritto alla terra, e quindi alla gestione diretta delle risorse del suolo da parte di chi su quelle terre vive.

È indispensabile che si modifichi il criterio produttivo basato sulla quantità e lo si sostituisca con la coltivazione di qualità direttamente gestita. Utilizzare i reali terreni disponibili (e non quelli sottratti agli ambiti naturali) con le tecniche, le produzioni e le quantità appropriate al loro uso, riappropriandosi delle tecniche agricole direttamente gestibili dai coltivatori. Questo obiettivo è ovviamente destinato a scontrarsi con gli enormi interessi in campo, ma qualunque altra soluzione che prescinda da questo appare un palliativo che consentirebbe un’ulteriore concentrazione della produzione e della distribuzione nelle mani di pochi.

Nonostante questo sussistono alcune condizioni che possono rendere plausibile un cambiamento di rotta, facilitato dalla presenza dei seguenti caratteri:

La presenza capillare, di un numero ancora elevato di piccole, medie aziende e la connessione in sede locale dell’agricoltura con le abitudini alimentari e, in genere, con la domanda locale
La presenza di azioni che tendono a favorire un recupero di sistemi produttivi integrati e la consapevolezza abbastanza diffusa tra la popolazione del nord del mondo della potenzialità di inquinamento, e di corrispondente rischio per la salute umana, che l’abuso di fitofarmaci e concimi produce
La presenza di una, ancora strisciante, reazione alle forme alimentari imposte dal mercato e quindi dei sistemi produttivi da cui derivano e conseguentemente la tendenza di una nicchia di mercato a recuperare la qualità dei prodotti a fronte della quantità

È evidente che i problemi sono di ordine diverso se osservati a scala nazionale piuttosto che a scala mondiale, e le misure che possono essere intraprese per i paesi del nord del mondo dovrebbero essere integrate da misure adottate globalmente.
Per permettere una effettiva modificazione dell’assetto agricolo e rendere possibile una inversione di tendenza a livello globale del pianeta e di comunità locali è necessario:
1. interrompere l’uso di superficie agricola utilizzata per insediamenti e infrastrutture così da rendere possibile la conservazione di superfici produttive qualificate nelle aree di pianura prossime agli insediamenti;
2. ridurre le superfici irrigue; riportando la produzione agricola ad adattarsi alle condizioni specifiche dei luoghi. La riduzione della quantità di acqua porta alla necessità di abbandonare colture esogene rispondenti a mercati globali e dunque gestite da soggetti estranei alla comunità;
3. ridurre la mobilità delle merce riorganizzando la produzione agricola in ambiti territoriali semi autonomi; si ridurrebbe l’inquinamento prodotto dal trasporto delle merci e si ridurrebbe la concentrazione della produzione in aree specifiche e quindi il loro controllo da parte di soggetti numericamente limitati;
4. promuovere la produzione di qualita superando la considerazione quantitativa-commerciale del prodotto;
5. annullare il consumo dei fitofarmaci e dei concimi chimici (già un abbattimento del 20-30% metterebbe in difficoltà i produttori industrializzati);
6. facilitare il mantenimento di aziende di piccola, media dimensione attraverso la riorganizzazione dei circuiti distributivi e commerciali locali (commercio equo e solidale, circuiti alternativi di produzione e consumo, etc.);
7. non permettere la produzione transgenica e la sua commercializzazione;
8. sostenere le comunità agricole;
9. aumentare il numero degli addetti nell’agricoltura ripristinando alcune pratiche manuali; etc.

Per ottenere questi obiettivi si può agire sulle amministrazioni che possono regolamentare già all’interno del quadro normativo esistente il settore. Vi è la possibilità, a parità di assetto sociale, di indirizzare un percorso a minor danno sociale e ambientale; in questo senso vanno le attività delle numerose associazioni di agricoltori, ambientali e sociali che richiedono un modello maggiormente sostenibile.
Ma vi è un grande spazio per l’azione diretta da parte di tutte le comunità e degli individui a diversi livelli di impegno e di coinvolgimento.
Da un’azione minima, quale quella di non mangiare prodotti fuori stagione, di non mangiare prodotti esotici di importazione (solitamente controllati dalle grandi imprese), di partecipare ai boicottaggi sulle singole merci (dall’ananas alle banane), di utilizzare le merci che sono prodotte da comunità autogestite e le merci che sono distribuite direttamente da comunità (in subordine privilegiare le merci distribuite anche da grandi catene che hanno però preso impegni di qualità complessiva dei prodotti), di non consumare prodotti transgenici, di ridurre l’alimentazione con carni; passando all’organizzazione dei contatti diretti con produttori di alimenti fino alle attività di maggiore impegno quale la costituzione di insediamenti alimentarmente autonomi e all’impegno diretto nella produzione del proprio cibo.