Rivista Anarchica Online


Libertà e terra delle Comunarde di Urupia
delle comunarde di Urupia

 

Dalla campagna, al sud, le non più tanto giovani ma sempre estreme comunarde di Urupia, rispondono all’appello di Luigi Veronelli

 

La convinzione che tutto parte dalla terra è la spinta che, più o meno consapevolmente, ha mosso tutte noi verso la scelta di vivere in campagna: pensiamo non ci sia possibilità più grande di riappropriarsi del proprio quotidiano che il partire da dove tutto ha origine.
… vero che: “ogni uomo (e ogni donna) in ogni paese del mondo, anche il più difficile per condizioni climatiche, se è in grado di conoscere le qualità della terra in cui è nato e su cui vive, ed ha i mezzi adatti per coltivarla, si rende libero. … libero”.
Così Urupia si è procurata i mezzi adatti per coltivare la terra e per vivere dei suoi frutti, e, anche grazie al sostegno di ormai centinaia di uomini e donne, in termini di soldi, lavoro, energia, competenze, consigli - vede crescere oggi giorno per giorno questa libertà, come il risultato più importante che intendeva raggiungere e offrire.
Per questo ci troviamo generalmente d’accordo con l’analisi ed il conseguente appello lanciati da Veronelli su “A” 261 (aprile 2000), ma vogliamo aggiungere qualcosa.
Conosciamo sufficientemente il mondo contadino locale per dire che una normativa più chiara - che nei fatti in parte già esiste ed è tale da poter essere facilmente aggirata - non serve a valorizzare i prodotti agricoli del sud, come ad esempio l’olio extravergine d’oliva, e il lavoro di chi li produce: l’olio in particolare, non gode di tanti estimatori come ad esempio il vino e questo per motivazioni socio-culturali che non vogliamo analizzare in questa sede. Gran parte degli uliveti pugliesi e salentini, che da soli rappresentano circa il 40% della produzione nazionale, sono inoltre frammentati in piccoli appezzamenti per lo più a gestione familiare che difficilmente potrebbero garantire un’occupazione diversa da quella stagionale di raccolta e potatura.
Dal canto loro i grandi proprietari non brillano certo per generosità offrendo spesso lavoro nero, soprattutto alle donne, retribuite ancora più miseramente dei loro colleghi uomini, i quali godono almeno del riconoscimento di una specializzazione nel loro settore, soprattutto per quel che riguarda le potature o l’organizzazione del lavoro, altrimenti detto “caporalato”.
Molto di simile vale anche per altri prodotti della terra, per lo più soggetti alle imprevedibili (per chi produce) condizioni del mercato globale, che spesso li rendono competitivi solo al prezzo di una scarsissima qualità, o per l’effetto di una sempre più spinta meccanizzazione delle pratiche agricole che butta fuori dalle campagne molta della già limitata manodopera.
Laddove invece si ha a che fare con produzioni limitate e di qualità, le difficoltà sono spesso legate all’assenza di un adeguato canale di vendita o all’impossibilità pratica, soprattutto per il piccolo contadino, di collocare le sue produzioni in un mercato diverso da quello locale, spesso già saturo e quindi estremamente penalizzante dal punto di vista dei prezzi.
L’invito è quindi a scegliere la qualità di ciò che consumiamo, e per qualità non intendiamo semplicemente quella nutrizionale o organolettica dei prodotti ma anche, e soprattutto, quella politica: nel citato Friuli esiste, ad esempio, un circuito di collegamento diretto tra produttori e consumatori e tra produttori stessi in cui viene limitato all’indispensabile l’utilizzo di denaro favorendo, per quanto possibile, le occasioni di scambio e di baratto anche con realtà geograficamente lontane come la nostra per ciò che riguarda le competenze tecniche e per i prodotti non reperibili a livello locale come l’olio extravergine d’oliva. Lo stesso esperimento si sta contemporaneamente diffondendo in più parti d’Italia con la nascita di numerose reti che faticosamente allargano e mantengono contatti a livello locale e nazionale nel tentativo di scardinare i noti meccanismi del mercato globale. Sostenere i pochi progetti che si muovono in questa direzione significa non solo dare loro la possibilità di continuare ad esistere ma anche stimolarne di nuovi: la dimostrazione di un interesse diffuso e di sostegno concreto è forte stimolo per chi deve fare i conti con la propria sopravvivenza e favorisce la possibilità di una rete capace di mettere profondamente in discussione l’esistente con un cambiamento sociale profondo e radicale.
Si può cominciare a riappropriarsi della terra non solo lavorandola e vivendola direttamente ma anche godendone i frutti liberati, che in quanto a qualità non temono il confronto con il mercato dominante e, anzi, possono offrire più garanzie degli ormai innumerevoli marchi, anche i cosiddetti alternativi a che cosa, poi, non è così chiaro - per competenze, professionalità, organizzazione.
Per questo, oltre che ai giovani estremi, vogliamo estendere il nostro appello ai consumatori estremi, per ricordare che non sono solo le scelte di chi produce a cambiare il mondo ma anche, e forse soprattutto, quelle di chi consuma.

Le comunarde di Urupia

 

Storia di una Comune nel Salento

Il progetto Urupia nasce nel maggio 1995 dopo tre anni di incontri, discussioni e ricerche tra i comunardi fondatori del gruppo.
Attualmente ad Urupia vivono tredici persone di origine italiana e tedesca, cinque donne, sei uomini, una bimba e una comunarda in prova, tutte provenienti da movimenti ecologisti, femministi, antimilitaristi, antiautoritari.
I presupposti del progetto sono l’autogestione, il principio del consenso, l’assenza di proprietà privata.
La profonda insoddisfazione nei confronti dell’esistente ha determinato la scelta di vivere in campagna; la decisione di acquistare i terreni sui quali sorge il progetto è dovuta alla forte chiusura del sostrato culturale locale, completamente estraneo a radicali pratiche di riappropriazione di situazioni in disuso o terre abbandonate: il bisogno collettivo di dare continuità a un progetto politico, sociale e agricolo ci ha spinti a scartare l’idea di occupare il nostro spazio, nonostante il grande valore che riconosciamo a questa pratica.
Le risorse economiche collettivizzate dai comunardi non erano, però, tali da permettere l’acquisto della struttura, reso possibile solo grazie al sostegno di gruppi e singoli individui finanziatori del progetto tramite iniziative, donazioni e prestiti senza interessi; non essendo però sufficiente la cifra raggiunta si è ricorsi ad un prestito alla MAG6 di Reggio Emilia, una realtà fra le più incisive in Italia nell’ambito della finanza alternativa, e ad un altro finanziamento della banca GLS, una banca alternativa in Germania.
Urupia parte quindi con un buon deficit economico che, nel corso di questi anni, si è solo incominciato a recuperare; nuovi crediti hanno permesso di rimborsare i precedenti: non abbiamo, infatti, ancora raggiunto l’autosufficienza e, nonostante i piccoli passi in avanti, molta strada resta ancora da fare.
Questo ci porta a vivere contraddizioni quotidiane, la più evidente delle quali è stata, soprattutto nei primi anni di vita di Urupia, la nostra assoluta necessità di destinare alla vendita i nostri prodotti per acquistare gli stessi, di minore qualità e costo, per il nostro consumo interno - come nel caso del vino - o, nella migliore delle ipotesi, a tenere per noi il prodotto di qualità inferiore - come per l’olio - : a volte, paradossalmente non possiamo permetterci i prezzi che proponiamo.
Questo, pensiamo, dia ancora più valore al nostro lavoro e ai nostri prodotti, per i quali cerchiamo di proporre una cifra equa tanto per noi quanto per chi li acquista; la scelta dell’autogestione significa anche rifiutare qualsiasi sfruttamento dell’uomo sull’uomo: non cerchiamo dipendenti da spremere per pagarci lucrosi profitti.
Lo stesso rifiuto verso qualsiasi forma di sfruttamento ci ha naturalmente portati a gestire i nostri 23 ettari di terreno seguendo pratiche esclusivamente biologiche, spinti dalla consapevolezza dell’insostenibilità dello stile di vita proposto dalla società dei consumi - e in cui rientra pienamente l’ormai biologico “di tendenza” che si offre solo come alternativa salutista senza mettere minimamente in discussione la “salute” di un sistema malato di ingiustizia fin dalle radici; lontana da noi è l’illusione comune di avere sempre a disposizione possibilità illimitate di approvvigionamento e questo anche per quel che riguarda la produzione di energia e l’utilizzo delle acque: per questo abbiamo scelto, con non pochi sforzi economici, di installare pannelli solari per autoprodurre almeno l’acqua calda e di riciclare l’acqua da noi utilizzata tramite un impianto di fitodepurazione che non la rende potabile - possibile questo eventualmente con l’utilizzo di un semplice filtro ma la rende ottima per l’irrigazione.
Questi piccoli esempi possono chiarire bene quali sono le priorità che ci diamo nell’utilizzare le nostre energie monetarie e lavorative: non è solo il semplice criterio economico a guidarci - anche se nel caso di fitodepurazione e pannelli solari il rientro è, alla lunga, nettamente in positivo ma anche il valore sociale di un prodotto per noi poco conveniente, come ad esempio il pane, che ci permette però di avere costanti contatti a livello locale.
Inoltre viene ampiamente riconosciuta la necessità della soddisfazione personale che, compatibilmente con le nostre possibilità, rimane uno dei criteri fondamentali nella valutazione del valore di un settore lavorativo, senza differenza tra quelli prodotti, o di cura e accompagnamento come la cucina, la burocrazia, le pulizie, l’assistenza personale, la cultura.
Le nostre aspettative sono quindi molto ambiziose: dimostrare la possibilità concreta di riappropriarci della nostra esistenza uscendo dalle dinamiche e dalle gerarchie di valori che antichi, ma sempre più sottili, retaggi propongono come i soli validi e possibili, senza dare spazio ad alternative capaci di mettere completamente in discussione l’organizzazione sociale così come ci viene offerta.
Anche in questo, indispensabile continua ad essere il contributo degli ormai innumerevoli compagni che ci sono accanto con il nostro stesso entusiasmo e impegno, il numero dei quali ci auguriamo continui a crescere così com’è cresciuto in questi anni, e che hanno permesso la realizzazione di Urupia come “comune aperta” che non è il progetto solo di chi ci vive ma di tutti coloro che vogliono sentirlo proprio.

URUPIA
Fermo Posta
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