Rivista Anarchica Online


 

Anarchia a Florianapolis

La chiamano Floripa, ed è la capitale dello stato di Santa Catarina. Città balneare, meta del turismo di élite del meridione brasiliano, ha sviluppato in pochi anni il proprio bosco di grattacieli e seconde e terze case. "Qui non ci sono poveri né vagabondi", ci spiegano "perché la polizia non ce li lascia stare". Alcuni anni fa, un sindaco intraprendente promosse una versione locale della "tolleranza zero" del più celebre collega newyorkese. Floripa possiede una piazza opulenta, da poco inaugurata, illuminata a giorno e sorvegliata non stop da zelanti funzionari, che con un sorriso di gesso ti redarguiscono al solo posare un piede sulle impeccabili panchine.
Anche questo, ma non sembra, è Brasile. E in questa terra di stravaganti sperimentazioni micro totalitarie, tra il 4 e il 7 settembre, si è svolto l’incontro internazionale dei libertari. In realtà le delegazioni straniere rappresentavano una piccola componente, ma si deve pur cominciare. "Solo pochi anni fa" puntualizza uno degli organizzatori, "per accogliere i partecipanti sarebbe stato sufficiente un pulmino; oggi due autobus non sono bastati".
Giorno dell’inaugurazione: aula magna dell’università gremita. Colpiscono l’eterogenità e la giovane età dei presenti. Provengono in gran parte dal sud del Brasile e da San Paolo, ma non mancano contributi dal nordest. Eterogeneità: professorini alternativamente azzimati, anarcopunk, ecologisti, indigenisti, zapatisti, Sem terra, vecchi militanti e accademici. Ognuno portatore di un proprio linguaggio, di una identità esibita. L’attacco è diretto e forse un poco presuntuoso: "Prospettive del movimento anarchico per il secolo XXI". Gli anarchici usciti dall’ombra vogliono intervenire. E qui si evidenzia la prima difficoltà: "come trovare una linea comune tra tanta varietà?". Dilemma epocale, la questione dell’organizzazione sembra spaccare la sala ancor prima che si sviluppi il dibattito. Si delinea la proposta di costituire una federazione anarchica brasiliana - ma non era un convegno internazionale e libertario? L’impressione è che il movimento stia uscendo solo ora dagli anni della clandestinità e necessiti, bruciando le tappe, di riorganizzarsi.
Tra i partecipanti si respira ancora paura, frequenti gli accenni alle azioni delle milizie private contro i militanti di base, alla repressione poliziesca. Le manifestazioni per i 500 anni della "scoperta" hanno registrato la presenza attiva dei libertari, quanto un livello di scontro inquietante. In Brasile la seconda metà degli anni ‘80 sono stati l’epoca della riemersione delle rappresentanze democratiche. Riemersione concessa, pilotata dalle caste militari, ora orientate alla normalizzazione. Come negli altri paesi latinoamericani colpiti dalla peste, il ritorno al potere dei partiti ha comportato una relativa rimozione del passato e degli orrori recenti. Le strutture repressive sono rimaste intatte; i responsabili impuniti. Contesto in cui si situa la tarda rinascita di un movimento che, per sua natura, sfugge alle logiche dei poteri, quanto del sistema detto "democratico".
Un aspetto importante del convegno riguarda la presenza, o meglio l’assenza, di altri movimenti politici. E’ come se per la sinistra, l’anarchismo quale espressione di progettualità sociale non esistesse. E questo isolamento, questo abbandono da parte di ciò che fu il più ampio fronte socialista, costituisce un elemento per la comprensione delle dinamiche in atto. Gli anarchici rappresentano un soggetto scomodo nel percorso di riappropriazione di spazi e poteri da parte della sinistra legittimata. E qui si ripropone il dilemma dell’anarchismo contemporaneo tra necessità organizzative e rifiuto delle istituzioni. Dilemma esacerbato nel processo di transizione democratica, dal confronto con le strutture e gli appoggi su cui i partiti hanno potuto contare. Si crea una zona d’ombra dove l’anarchismo, pur non riconosciuto, viene collocato in attesa -per fortuna vana- della sua definitiva estinzione.
Un atteggiamento rilevato in più gruppi di lavoro, e speculare al vissuto di rimozione, riguarda la legittimità dell’utilizzo delle strutture pubbliche da parte degli anarchici. L’università non viene percepita nella funzione di elaborazione culturale e scientifica che gli è propria, quanto come articolazione del sistema di potere. Dinamica che se radicalizzata potrebbe mettere in discussione il diritto dei libertari -tra l’altro costretti a pagare le tasse- di fruire di ospedali, scuole, addirittura piazze e strade. Ma dinamica che nello stesso tempo testimonia la difficoltà di percepirsi come soggetto legittimo e propositivo della comune vita sociale e culturale.
L’eterogeneità di fondo rischia di provocare incrinature e alimentare polemiche, ma rispecchia anche la vitalità del movimento. Vitalità che colpisce l’osservatore europeo, abituato ai noti contesti crepuscolari. Se una definizione di questo convegno è possibile, riguarda la presenza giovanile, l’ampiezza e il livello del dibattito. I gruppi di lavoro e le tavole rotonde rivelano spessore e preparazione teorica. L’incontro propone più momenti di riflessione, sviluppando in particolare alcuni aspetti dell’opera proudhoniana. Il fuoco, in funzione della proposta federativa, tende a concentrarsi sulle forme organizzative, quanto sulla storiografia del movimento. A lato si profila la prospettiva di utilizzare le nuove tecnologie, vedi internet, per dar vita a una rete libertaria. Gli interventi esprimono l’esigenza di incrementare lo scambio tra esperienze, metodologie, superando l’attuale frammentazione.
Il percorso favorisce l’emergere di alcuni punti critici. In primo luogo la relazione tra movimento libertario e movimento, o proto federazione, anarchica. Difficile conciliare l’esigenza di convogliare le energie verso obiettivi comuni e quella di considerare la differenza quale valore. Frequenti gli interventi mirati a definire il campo, e destinati a innescare polemiche: le società indigene rappresentano realtà libertarie o forme ancestrali di organizzazione economica? Movimenti di base come i Sem terra, aventi una matrice marxista e legati al cattolicesimo, possono essere considerati libertari?
Più che ai criteri di definizione e analisi, il problema conduce a due concezioni alternative. Da un lato l’anarchismo viene inteso come orientamento del pensiero politico moderno, scaturito dal più ampio contesto degli ideali della Rivoluzione dell’89. Orientamento connaturato alla questione sociale e in particolare alle lotte operaie del mondo occidentale. Dall’altro l’anarchismo rappresenta un anelito alla libertà e alla eguaglianza peculiare alla specie umana. Una caratteristica indipendente dal tempo e dal luogo, che accomunerebbe contesti lontani ed eterogenei. La concezione degli uni rispetto ai movimenti libertari rivendica la necessità di una matrice teorica postilluminista, quella dei movimentisti una comune visione della vita sociale e dell’intervento. Esisterebbero una pratica d’azione diretta e organizzativa caratterizzanti. I movimenti, in quanto tali e fintanto non involvano in istituzioni, sarebbero da considerarsi realtà libertarie.
Dai gruppi emerge frequente l’appello alla valorizzazione delle istanze sociali dinamiche, alla loro interpretazione in senso di processo e potenzialità. Rinuncia al "purismo anarchico", assunzione di una visione dialettica capace di gestire le contraddizioni del presente. Le modalità dell’agire dei Sem terra divengono carattere fondamentale, sul quale si innestano variabili ideologiche e prassi istituzionalizzanti. Il movimento, quale espressione di bisogni collettivi, è un frutto della creatività popolare cui approcciarsi in termini di complessità. Sforzo d’interpretazione e intervento nel vivo tessuto sociale che riporta a ciò che Luis Mercier Vega definiva "pratica dell’utopia".
Il convegno registra una significativa presenza di associazioni ambientaliste. La tematica ecologica non appare tuttavia, come in Europa, circoscritta. Frequente il caso di collettivi impegnati nell’organizzazione di lotte di quartiere o di favela. Negli ultimi anni in America latina si è registrata una reazione all’intervento "paternalista" delle Ong, con conseguente ripresa di prassi autogestionarie. Il collegamento con i movimenti indigenisti assume significato di proporre modalità di vita in armonia con il mondo naturale. L’approccio catechizzante del razionalismo occidentale al "primitivismo" della selva appare capovolgersi. Una dinamica che ricorda la parabola degli zapatisti, convertiti alla cultura india dall’esperienza di vita nella selva lacandona. Argomento, l’afflato libertario, particolarmente dibattuto. Si enfatizza la contraddizione, comune alla maggioranza dei movimenti di massa, tra prassi d’azione diretta e tentativo di acquistare credibilità inserendosi nel gioco politico. Interessante da questo punto di vista, la riflessione del Elnz e le relative dichiarazioni: "non vogliamo il potere".
La difficoltà ad acquisire una comune identità, oltre che nel confronto con i movimentisti, emerge nella divergenza di obiettivi. La prassi dei Sem terra viene accusata da alcuni di focalizzarsi sulla conquista del campo a detrimento delle tematiche ambientaliste. Polemica che si è fatta scontro a proposito delle invasioni in aree appartenenti alle riserve. I partigiani della riforma agraria, da parte loro, accusano gli indigeni di usufruire di spazi enormi e di lasciare le terre improduttive. Una concezione, la "produttività", antitetica allo spiritualismo naturalista degli ultimi abitanti delle foreste. Una insperata composizione, è avvenuta durante le celebrazioni dello scorso aprile. Indigeni e Sem terra hanno marciato insieme contro una polizia legittima erede della dittatura, determinata a impedire qualsiasi turbamento alla grande festa.
Una presenza numerosa, bizzarra e poco loquace riguarda gli anarcopunk. Si tratta di un movimento parallelo a quello europeo, nato, per evidenti condizionamenti, con un decennio di ritardo. Il contrasto con gli indigenisti appare profondo, quanto quello tra realtà metropolitane e regioni interne di questo enorme paese. Il Brasile ha sviluppato città e megalopoli su di un modello più vicino all’efficientismo statunitense che alle disastrate realtà latinoamericane. La povertà e il dolore tendono ed essere negati; emblema di tale rimozione, gli impeccabili centri cittadini. Gli anarcopunk, la loro simbologia apocalittica, le carni trafitte, rappresentano una reazione estrema alla cultura del benessere unilaterale.

Massimo Annibale Rossi

 

Argentina: il commercio dell’insicurezza

"Hai paura di dio e del diavolo, del prete e del vicino, del tuo datore di lavoro e del capo, del politico e del poliziotto, del giudice e del carceriere, della legge e del governo. Tutta la tua vita è una lunga catena di paure..."
- Alexander Berkman (da Che cos’è il comunismo anarchico?, 1929).

"Senza l’uso della violenza, non esisterebbe nessuno stato" - Max Weber (Saggi sulla sociologia, 1958).

Sono violenti questi tempi in cui viviamo. E stanno peggiorando. é vero questo, o è solo una nostra percezione? Qualunque cosa sia, non è un fenomeno unico a questo paese o a questo continente. Al contrario, la percezione del rischio della violenza è più forte dov’è più grande il bisogno del capitale di crearla e sostenerla: nei "paesi emergenti" del mondo, dove la vera fame allo stomaco rischia di minare le gioie molteplici del nuovo circo virtuale di capitalismo.
Uno di quei paesi è l’Argentina. Il nuovo governo dell’Alleanza di Fernando De la Rúa è ‘virtualmente’ indistinguibile da quello precedente di Carlos Menem, in quanto rispetta umilmente i dettami del FMI e delle multinazionali straniere, come faceva il suo predecessore. Seguendo le formule standard dei programmi di aggiustamento strutturale, sta alzando le tasse per pagare il debito estero, mentre taglia i posti di lavoro, taglia le pensioni, svende tutto tranne l’aria stessa, provocando la disperazione.
Il divario tra ricchi e poveri sta crescendo ad una velocità allarmante, e la gente ha paura; come l’aveva ai tempi della campagna elettorale l’anno scorso, quando De la Rœa si presentò in uno dei suoi spot televisivi sgambettando fiduciosamente verso il futuro, circondato da una banda misteriosa di accoliti con mitra in mano e vestiti di pelle nera. Era l’uomo che avrebbe pulito il paese! In America Latina oggi, i politici devono essere machos, come possono testimoniare Chavez con la sua tenuta di corvé e Fujimori il killer di sequestratori.
Per quanto lo riguarda, Menem, quando presidente, lanciò due grandi offensive all’insegna della "durezza contro i delittuosi". Prima accusò gli immigranti (qui quale politico civilizzato mai farebbe una tal cosa?) e poi una "onda della violenza" di origine misteriosa gli ha permesso di affermare che solamente applicando "la tolleranza zero" e dando più poteri alla polizia viene eliminato il crimine. Come Rudolf Giuliani testimonierà, non c’è niente di nuovo nel mondo della polizia moderna.
De la Rúa si è installato, sano e salvo; e ora il periodo della luna di miele è finito, e ancora una volta, come prima, la paura mangia l’anima. La paura è quella di essere vittime del crimine. Le statistiche ufficiali differiscono per quanto riguarda l’estensione del problema: secondo il Ministero dell’Interno, nel 1998 - l’anno più recente per il quale gli archivi sono disponibili - furono registrati 960.000 crimini (1 al minuto) in Buenos Aires e i suoi sobborghi. Il governo di Buenos Aires indica la cifra di  138.200 (1 ogni 4 minuti). Per la Polizia Federale - dipendente dal Ministero dell’Interno - il numero di crimini per quel anno fu 199.148 (1 ogni 2,5 minuti). Non possono mettersi d’accordo sulla quantità di crimine commesso, ma non negano che ce n’è tanto in giro.
Secondo Marcelo Ciafardini, direttore della Politica contro la Criminalità durante il governo di Menem, comunque, "la sensazione generale dell’insicurezza è sempre più alta della percentuale effettiva della criminalità. Ciò che accade ad altri ha un effetto di rimbalzo, e si arriva così al punto dove 90% della popolazione ha paura di essere attaccato, sebbene questo non voglia dire che davvero lo sarà".

Nonostante la sua indubbia conoscenza delle tecniche repressive, la polizia sembra essere molto meno efficace quando si tratta di trovare i ‘colpevoli’. Come dice Ciafardini stesso, "c’è stato un aumento dei crimini contro la proprietà e la polizia trova i responsabili in solo 5% dei casi". Inoltre, e stranamente, i sondaggi d’opinione indicano che tra 68% e 73% della popolazione ha paura di quelli in divisa. Che cosa mai avranno fatto per meritare questo?
Il risultato di tutto questo è la privatizzazione della sicurezza. Ci sono 1.286 imprese di sorveglianza in Argentina, pressocché tutte gestite da ex-soldati e capi di polizia, i quali servirono l’ultima dittatura; si avvalgono di un esercito di 90.100 uomini, tutti armati, e l’anno scorso avevano un giro d’affari di US$ 986 milioni. I muscoli e le armi vengono seguiti a poca distanza dalle televisioni a circuito chiuso; ci sono 63 imprese dedicate solamente alla sorveglianza elettronica e via satellite.
I settori più ricchi della popolazione, quelli che hanno più motivo per temere la scontentezza popolare, si permettono il lusso di nascondersi lontani dalla pazza folla nelle loro enclavi: quartieri chiusi con perimetri recintati, televisioni a circuito chiuso e guardie di sicurezza private ed armate. In totale, ci sono 412 di queste enclavi nei sobborghi di Buenos Aires, con altre 87 sotto costruzione, e nella capitale stessa ce ne sono 68.
Tutto questo è fuori dalla portata dei meno ricchi, ma loro possono accontentarsi di tutta una serie di prodotti tranquillizzanti offerta dall’industria di sicurezza: sistemi di allarme ad un costo di $1.500, finestre di vetro temprato o laminato ($120 al metro quadrato), porte blindate ($2.500), serrature speciali ($220), griglie di ferro ($50 al metro quadrato), fulminatori ($65) e aerosol di gas paralizzante ($9).

(statistiche e quotazioni da Noticias Aliadas, il 24 luglio 2000)

Leslie Ray

 

Albenga: quattro giorni di pane, more e fisica

Nei giorni 7-8-9-10 settembre, ad Albenga, si è tenuto l’incontro "L’Autogestione". L’iniziativa, promossa dal C.I.R. (Corrispondenze e Informazioni Rurali), dall’ "Elicriso" e dal sindacato Arti e Mestieri dell’USI-AIT, si è svolta in modo piuttosto caotico, con aspetti contraddittori, anche se rispettando, a grandi linee, il programma che riporto a parte. é difficile fare, come mi è stato chiesto, un resoconto di quello che è successo, anche perché molte cose accadevano contemporaneamente e, spesso, in assenza di un discorso veramente unificante. Mi limiterò a raccontare l’incontro come lo ho vissuto, scrivendo una sorta di diario. Altri, probabilmente, lo avranno vissuto in modo diverso.
7 settembre: arrivo ad Albenga insieme a Francois e a Paolo, due compagni dei Gruppi Anarchici Imolesi. Ci dirigiamo subito verso Martinetto. Il programma prevede una serie di incontri sulla salute e siamo curiosi di conoscere il punto di vista di Stephan Lanke sull’AIDS. Nel campo, situato in una località notevole dal punto di vista paesaggistico, ci sono già più di duecento persone, in parte intente ad ascoltare la conferenza.
Lanke è decisamente controcorrente. Non si limita a mettere in dubbio l’attendibilità dei test sul virus HIV, non si limita a mettere in dubbio la strettezza della relazione tra AIDS e virus HIV, o l’efficacia delle chemioterapie utilizzate in tutto il mondo. A suo parere il virus HIV non esiste e le chemioterapie utilizzate sono gravemente dannose. É davvero difficile credergli. Non si può tuttavia fare a meno di riconoscere che il suo discorso è basato su dati scientifici, collegati tra loro in un quadro coerente da articolate argomentazioni. Niente metafisica, dunque, e molti spunti per la riflessione.
Al termine della conferenza ci trasferiamo nella vicina Ceriale per piantare la tenda in un campeggio convenzionato che ci ospita a prezzi molto convenienti. Sono un po’ preoccupato per la grande affluenza di compagni. é soltanto il primo giorno; se continua così finiremo per essere troppi. Sarà bene indirizzare più persone possibile al campeggio convenzionato.
Mentre a Martinetto, per la cena, funziona una cucina autogestita, con tanto di forno, a Ceriale siamo ospiti del circolo presso il quale ha sede la locale sezione dell’USI-AIT.
8 settembre: alle 10 del mattino, alla sala Siccardi, messa a disposizione dal comune di Albenga, arriva Libereso Guglielmi per il seminario sulle erbe spontanee di uso alimentare. Guglielmi, noto ai compagni per il suo impegno nel movimento anarchico sanremese, e al grande pubblico per essere stato il giardiniere di Italo Calvino, è un botanico formidabile. Chi, come me, ha studiato scienze naturali riconosce subito in lui quella competenza che può avere soltanto un uomo che la botanica non la ha imparata solo sui libri: un genere di competenza ormai raro anche tra i docenti universitari. Guglielmi arriva con un gran fascio di erbe, le stende sul tavolo, le descrive, le fa toccare, annusare, assaggiare: come facevano i botanici dell’Ottocento. Vorrei ringraziarlo, ma non ci riesco. Viene "sequestrato" da alcuni compagni del CIR che lo accompagnano a Martinetto, dove è atteso con impazienza. Pare sia stato trattenuto là per quattro ore.
Io invece resto a presidiare il gazebo che i compagni della locale sezione dell’USI-AIT hanno allestito di fronte alla sala Siccardi allo scopo di fornire informazioni alle persone che giungono in treno. Del resto, alle 18 devo cominciare il mio seminario sull’organizzazione sociale libertaria. Tanto vale rimanere lì.
Continuano ad arrivare compagni da tutta Italia (alla fine saremo più di quattrocento). Mi dicono che a Martinetto il seminario sui metodi di coltivazione alternativi non si è tenuto. Si è svolto invece un incontro del CIR, nel corso del quale si è parlato soprattutto degli interventi da realizzare a Campanara, sull’Appennino Tosco-Romagnolo.
Alla prima parte del mio seminario partecipano una trentina di persone, tutte molto interessate a dibattere l’argomento. Chiusa la sala, torniamo a Martinetto dove incontro la delegazione della CNT-AIT francese, con la quale, grazie a Francois che ci fa da interprete, discuteremo per tutta la serata seduti a tavola, al circolo di Ceriale.
9 settembre: alle 11 a Martinetto inizia il seminario sull’energia solare condotto da Guido Coraddu. In collaborazione con un compagno tedesco, e utilizzando i materiali che si sono portati da casa, ci spiegano come si può realizzare un impianto fotovoltaico. Vengono rivolte loro numerose domande sia sugli aspetti tecnici sia sulla legislazione relativa agli impianti autonomi per la produzione di energia elettrica.
Al termine, si inizia il dibattito su "biotecnologie e lotte rurali ed urbane". Sono presenti compagni francesi, inglesi e tedeschi. Il livello della discussione però, almeno inizialmente, è piuttosto basso. Molti preferiscono occupare il tempo a raccogliere le more che sporgono dai cespugli circostanti. Alle 14 me ne devo andare per scendere ad Albenga dove, alla sala Siccardi, è in programma la prosecuzione del mio seminario e, subito dopo, la presentazione dell’attività svolta dall’USI-AIT nella provincia di Savona. Nel frattempo, a Martinetto, continua l’assemblea sulle biotecnologie, la quale, mi dicono, è servita, se non altro, ad approfondire la reciproca conoscenza tra i gruppi che si occupano dell’argomento. Alle 16, sempre a Martinetto, segue un seminario con gli Elfi sull’educazione libertaria.
Alle 20, dopo la presentazione dell’attività dell’USI-AIT fatta da Renzo Ferraro e Giampiero Icardo, protagonisti di numerose e proficue vertenze che negli ultimi anni hanno interessato la Valbormida, arriva Alessio Lega. Lo invitiamo a venire con noi a Ceriale, dove, al circolo, ci aspettano per la cena. Alessio è, a mio parere, uno dei più promettenti tra i nuovi cantautori italiani: passa con facilità da canzoni impegnate come "Ai funerali del pirata", dedicata a Fabrizio de André, a canzoni scherzose come l’ "Inno degli anarcociclisti" (senza dimenticare il repertorio tradizionale anarchico). Dopo la cena, lo accompagnamo a Martinetto, dove si esibirà brevemente sfruttando l’amplificazione di un gruppo locale che ha appena finito di suonare.
10 settembre: ci si alza pigramente, come è naturale accada dopo una serata di festa. é in programma l’assemblea conclusiva. Verso le 12 si comincia. Il dibattito è fiacco: alcuni sottolineano i lati positivi della quattro giorni, altri sottolineano che la strada verso l’autogestione è ancora lunga. Nessuno però entra nel merito delle carenze organizzative, quasi che il problema non si fosse mai posto. La mia impressione è che ci sia poca voglia di toccare argomenti che potrebbero portare a beccarsi reciprocamente. In realtà, anch’io non ne ho nessuna voglia. Alle 14 viene annunciato il pranzo che si svolge secondo strani riti tribali.
La festa è finita: andate in pace.

Luciano Nicolini

 

Petrolio e proteste

I recenti aumenti dei prezzi alla pompa dei carburanti meritano qualche doverosa considerazione da parte di chi si occupa di trasporto sostenibile.
La scarsità dell’offerta di petrolio greggio era stata ampiamente anticipata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, che non è una organizzazione ecologista, ma un organismo intergovernativo dei G7 nato dopo la crisi petrolifera dei primi anni 70. Quello che manca non è in realtà il petrolio tout-court quanto quello che gli esperti definiscono petrolio a basso prezzo, che è quello che sgorga spontaneamente dal sottosuolo una volta che il giacimento è stato individuato e raggiunto dalle trivelle. Un diverso tipo di petrolio è quello che si trova frammisto a rocce e sabbie bituminose, per estrarre il quale occorre impiegare energia in misura variabile a seconda del tipo di lavorazione richiesta. Petrolio di questo tipo è ancora presente in abbondanza sul nostro pianeta, ma chiaramente i costi per la sua estrazione sono enormemente superiori rispetto al petrolio a basso prezzo.
In quest’ottica appaiono chiaramente mal dirette le proteste di quelle categorie maggiormente penalizzate dagli aumenti del carburante, che vedono ora nella protervia delle multinazionali, ora in quella dello stato la causa dei loro problemi, che invece è da individuare sostanzialmente in banalissimi meccanismi di mercato.
Altrettanto evidente è la miopia della nostra classe dirigente che, per motivazioni di puro consenso elettorale, ha preferito la tattica dello struzzo a quella della messa in discussione di uno stile di vita che ormai fa acqua da tutte le parti. Proporre come fa qualcuno di aumentare le produzioni di petrolio è irrealistico in quanto equivale a chiedere ai produttori di terminare le proprie scorte di oro nero in pochi anni a dei prezzi stracciati, ponendo fine a quel minimo di benessere che i paesi OPEC riescono a garantire ai loro sudditi. Se si vuole perseguire questa scelta l’unica soluzione potrà essere una seconda guerra del golfo, molto più devastante della prima e che, bene che vada, porterà come unico risultato quello di ottenere dei ribassi dei prezzi fino all’esaurimento delle scorte, momento nel quale non avremo più margini di manovra.
Ma altrettanto miope è l’ottica che propone qualcuno dei tanti soloni "instant book" che popolano il nostro panorama massmediologico, che risuona pressappoco cos": sono finite le vacche grasse, stringiamo la cinghia. Questo punto di vista potrebbe tradursi nella pratica di costringere i consumatori a drastici tagli della loro bolletta energetica, senza però toccare i meccanismi che stanno alla base dell’attuale situazione, per cui potremmo trovarci un giorno a bere latte fresco importato dall’Olanda, come già facciamo, e contemporaneamente essere costretti a passare parecchie ore della nostra giornata in spostamenti su mezzi di trasporto alternativi all’auto che, in una società comunque autocentrica, non hanno nessunissima possibilità di funzionare in maniera efficace, finanziando attraverso una perdita secca del valore d’uso del nostro tempo la scelta di privilegiare i profitti di pochi a scapito della qualità della vita di molti.
Appare allora evidente che le soluzioni da adottare per fronteggiare la crisi petrolifera, che altro non è se non lo specchio della crisi del modello di vita occidentale, che di fatto poggia le sue basi sul mito della illimitata disponibilità di risorse, vanno al di là sia del semplice riproporre miti consumistici ormai logori, sia di un’ottica un po’ bigotta che vede nel "sacrificio" l’unica strada per purificarci dal peccato originale.

Enrico Bonfatti

 

Nonviolenti in marcia

Domenica 24 settembre si è svolta da Perugia ad Assisi la marcia per la nonviolenza contro tutti gli eserciti e le guerre promossa dal Movimento Nonviolento e dal Movimento Internazionale per la Riconciliazione (MIR); vi hanno preso parte alcune migliaia di persone persuase della necessità di opporsi direttamente ed integralmente alla violenza e all’ingiustizia; di lottare nel modo più coerente ed intransigente contro tutti i poteri oppressivi; di contrastare la guerra, i suoi apparati, i suoi strumenti. La marcia del 24 settembre ha segnato una cesura profonda nella vicenda del pacifismo italiano e nella tradizione degli appuntamenti in cammino tra le cittadine e per le campagne umbre sulle orme di due grandi resistenti e rivoluzionari come Francesco d’Assisi ed Aldo Capitini. Una rottura ed insieme un ritorno alle origini, alla radicalità ed alla limpidezza di una posizione rigorosa dal punto di vista intellettuale e morale, quindi anche politico.
Una cesura poiché prende atto delle ambiguità, e le smaschera e le denuncia, che hanno portato lo scorso anno alla catastrofe del movimento pacifista italiano così come s’era definito negli ultimi due decenni dopo quel grande momento di "gruppo in fusione" del tempo dell’opposizione ai missili a Comiso.
Lo scorso anno il movimento pacifista italiano collassò. Da un lato perché erano prevalse tendenze burocratiche e per così dire parastatali, subalterne alle trame governative; e soprattutto era prevalso un atteggiamento pusillanime e colluso di fronte alla protervia degli stragisti: occorreva fermare la guerra, ed invece ci si limitava alle lamentazioni ed alle sommesse richieste agli assassini che erano troppo indaffarati alle loro opere di bassa macelleria per trovare il tempo di ascoltare i queruli e garbati signori in attesa nelle anticamere. Occorreva l’azione diretta nonviolenta, occorreva un movimento nonviolento di massa che andasse a fermare materialmente i decolli dei bombardieri (un tentativo in questa direzione lo  facemmo ad Aviano con l’azione diretta nonviolenta delle mongolfiere per la pace, di cui su "A" si è già scritto). Dall’altro perché erano presenti nel movimento che si opponeva alla guerra, ed emersero in modo flagrante e dirompente, ambiguità profonde sulla violenza: ma la violenza è sempre l’arma dei ricchi, è sempre lo strumento degli oppressori, è sempre la legittimazione del forte rispetto al debole, allo sfruttato, all’oppresso, al denegato. La violenza non porta alla liberazione, ma a nuovi potenti e nuove oppressioni.
Così quest’anno, accogliendo un invito di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza in Italia, i movimenti nonviolenti hanno chiamato a marciare non le organizzazioni ma le singole persone, e le hanno chiamate a marciare non genericamente per la pace, ma specificamente per la nonviolenza. Quella nonviolenza che è lotta la più intransigente contro tutte le violenze, contro tutte le ingiustizie; quella nonviolenza che è rivoluzione aperta che afferma la dignità di ogni essere umano e la solidarietà di tutti gli esseri umani contro il male e la morte.
Questa scelta per la nonviolenza ha segnato quindi anche una novità profonda rispetto alle marce "per la pace" degli ultimi venti anni, ricollegandosi direttamente ed intimamente alla prima marcia Perugia-Assisi, quella promossa da Capitini il 24 settembre 1961. Ed è stata una esperienza forte: con più momenti di riflessione cui hanno dato voce, tra altri, persone come Mao Valpiana, Angelo Cavagna, Alberto  L’ Abate, Beppe Marasso, Sandro Canestrini, Alex Zanotelli: alcune delle figure più belle dell’antimilitarismo intransigente, della solidarietà concreta, della lotta in cui si paga di persona, della condivisione della sorte dei più oppressi, della rivoluzione dal basso (della "omnicrazia" avrebbe detto Capitini: "il potere di tutti").
La marcia è un’assemblea itinerante: per incontrarci e riflettere insieme, per illimpidire posizioni e definire lotte e ricerche; essa non finisce ad Assisi: da Assisi comincia. La nonviolenza è una rivoluzione in cammino.
Per saperne di più: "Azione nonviolenta", 37123 Verona, via Spagna 8, tel. 045/8009803, e-mail:azionenonviolenta@sis.it
http://www.unimondo.org/azionenonviolenta

Peppe Sini
nbawac@tin.it

 

Operai da morire

Sabato 16 settembre si è svolto a Genova il convegno OPERAIO DA MORIRE (morti in fabbrica e fabbriche di morte) organizzato da MEDICINA DEMOCRATICA1.
Si è trattato di un’importante occasione per fare il punto sullo stato delle politiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie da lavoro e, in generale, da produzione, sulla legislazione che regola la materia, sulle iniziative di parte operaia contro le fabbriche di morte.
Erano presenti più di cento lavoratori di decine di fabbriche e di aziende fra le tante, troppe, coinvolte da quest’ordine di problemi e si è avuto modo di raccogliere informazioni e scambiarsi valutazioni di grande interesse.
Cercherò di segnalare quelle che mi sembrano essere le questioni più importanti fra quelle sollevate rimandando agli atti del convegno per una copiosa massa di informazioni di carattere particolare che sono state raccolte.
Come era perfettamente prevedibile, ma è bene ribadirlo, le promesse che il governo di centro sinistra ha fatto, nel momento del suo insediamento, per quel che riguarda la prevenzione degli infortuni e delle malattie da lavoro, sono state disattese e la mortalità e nocività da lavoro hanno continuato a crescere negli ultimi anni. Regolarmente, quando vengono pubblicati sui giornali articoli, non troppo evidenti ed estesi, sui morti ed infortuni da lavoro, veniamo informati del crescere di questo aspetto del quotidiano svilupparsi della contraddizione tra lavoro e capitale.
Un fattore importante per l’aggravarsi della situazione è stata la precarizzazione del lavoro, precarizzazione che, spostando i rapporti di forza a favore del padrone, rende sostanzialmente inefficace la legislazione a tutela del lavoratore. Infatti un operaio o un impiegato con posti a rischio di licenziamento sono indotti a non utilizzare nemmeno la limitata legislazione attuale a propria tutela per il, ragionevole, timore di perdere il posto di lavoro. L’universo, poi, del lavoro grigio e di quello nero, degli appalti e subappalti, sfugge ad ogni controllo attendibile soprattutto per quel che riguarda gli infortuni ma anche per i morti sul lavoro e, ancora di più, per quelli da nocività sul lavoro. Non dobbiamo dimenticare che molte morti da lavoro derivano dal contatto con sostanze nocive che determinano la morte a distanza di anni con le evidenti difficoltà di ottenere anche solo il riconoscimento delle cause del decesso.
A maggior ragione questa considerazione vale per l’universo del lavoro nero, degli immigrati, del lavoro autonomo eterodiretto che sfugge ad ogni rilevazione. Non dobbiamo, poi, dimenticare che migliaia di aziende italiane operano nei Balcani, in Romania ed in altri paesi dell’est e del sud del mondo dove mancano anche le limitate garanzie che caratterizzano l’area metropolitana del capitalismo italiano.
La legislazione stessa è resa inefficace da diversi meccanismi assolutamente non casuali:
a      i costi della tutela legale e di quella medica sono eccessivi per i lavoratori anche in considerazione del fatto che non è sempre facile provare in maniera certa le cause delle malattie e dei decessi, che i periti di parte padronale sono aggressivi e competenti, che i lavoratori hanno difficoltà ad affrontare cause che durano, sin troppo sovente, anni. Anche sul terreno giuridico la disparità di forze fra lavoratori ed imprese incide pesantemente;
b      il fatto che le sanzioni contro le imprese sono inadeguate, quelle economiche non sono un deterrente a fronte dei risparmi che ottengono non investendo in sicurezza, quelle penali sono lievi e basta cambiare ogni tanto i dirigenti direttamente responsabili della nocività per rendere inefficace una pena che, consistendo in una condanna con la condizionale, può essere subita dal singolo dirigente, lautamente risarcito dall’azienda, senza alcun effetto reale;
c      le risorse poste a disposizione delle amministrazioni che devono garantire la sicurezza sul lavoro sono inadeguate e il coordinamento fra queste amministrazioni spesso mancante o insufficiente;
d      una serie di contratti aziendali e categoriali, accettati dai sindacati di stato e imposti con il ricatto della perdita di posti di lavoro se si applica rigorosamente la normativa attuale, concedono alle imprese un margine di manovra ancora maggiore rispetto a quello che la legge prevede;
e      le grandi imprese responsabili del degrado dell’ambiente di lavoro e del territorio investono importanti risorse per influenzare il ceto politico, i media, la scuola, le amministrazioni, la comunità scientifica. Sempre più e con crescente efficacia viene venduta l’immagine della fabbrica e dell’ufficio "postindustriali" ove non vi sarebbero fatica, incidenti, logorio fisico e psichico e che sarebbe perfettamente integrata nel territorio. La fabbrica ecologica, insomma.
Siamo di fronte, evidentemente, ad una situazione difficile anche per la caduta dell’attenzione alla questione sociale. La sinistra istituzionale, ma anche settori di quella che si vuole antagonista e persino libertaria, ha rimosso l’analisi concreta della condizione lavorativa, la definizione di precise proposte e di un autonomo punto di vista sulla produzione e sembra convinta che le donne e gli uomini che vivono la condizione di salariato siano scomparsi o siano soggetti di una vaga produzione immateriale.
Gli stessi dati empirici, la morte, la malattia, la mutilazione di migliaia di lavoratori rimettono la questione sui piedi. Il lavoro coinvolge i corpi e le menti, li piega al dispotismo aziendale, fa di decine di milioni di persone forza lavoro, merce da utilizzare secondo i criteri dell’economia. La lotta contro la nocività, di conseguenza, è, in primo luogo, lotta per affermare un autonomo punto di vista di classe sul lavoro.
Gli assi di intervento individuati sono precisi:
a      Porre al centro il sapere non specialistico di chi vive la condizione salariata. I lavoratori e le lavoratrici non sono "tecnici" della nocività ma possiedono, collettivamente, una conoscenza del ciclo produttivo, delle sue caratteristiche, dei suoi effetti. Questo sapere collettivo è il punto di partenza di un’azione efficace contro la malattia, la mutilazione, la morte.
b      Questo sapere va coordinato e diffuso. La relazione diretta fra i collettivi che si pongono su questo terreno è essenziale. Vanno prodotte precise campagne di informazione sul lavoro così come è realmente.
c      Settori di tecnici della malattia e del diritto sono disponibili ad impegnarsi su questo terreno e da anni lo fanno con impegno generoso. Medici, avvocati, ricercatori, docenti possono essere interlocutori privilegiati per una campagna sulla sicurezza del lavoro. La comunità scientifica, per fortuna, non è compatta. Dobbiamo essere capaci di operare per spostarne settori consistenti nella direzione della difesa degli interessi del lavoro salariato, delle classi subalterne, della vivibilità del territorio.
d      Le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro, il decentramento produttivo, la precarizzazione, rendono necessaria una trasformazione delle modalità stesse dell’inchiesta e dell’intervento. All’ombra della grande fabbrica è cresciuto un universo produttivo che dobbiamo conoscere e, per conoscerlo, è necessaria l’azione quotidiana e la sperimentazione di nuove modalità di intervento.
Mi sento di fare un’ultima considerazione, è sempre interessante notare che quando persone seriamente interessate ad un problema centrale per la società ne ragionano con passione e rigore, molti elementi della critica libertaria all’ordine sociale dominante, in generale, ed all’illusione che vi possa essere uno stato che opera a favore delle classi subalterne, in particolare, appaiono in maniera chiara e netta come appare chiara l’esigenza di autonomia nell’azione e nel progetto dei soggetti sociali direttamente coinvolti nelle questioni che si affrontano.
Non si tratta di pretendere alcuna primogenitura ma ritengo che sarebbe importante valorizzare ogni verifica empirica della critica anarchica al potere e di costruire tutti i rapporti che questa comunanza, anche parziale, di sensibilità permette.
Un impegno importante al quale il convegno di Genova ha dato un prezioso contributo.

Cosimo Scarinzi

1- Medicina Democratica, in quest’occasione ha fatto circolare il n. 128-131 della sua rivista dedicato  a un’importante inchiesta sul petrolchimico e montefibre di Porto Marghera e un "Manuale Critico della legislazione sui luoghi di lavoro" che si possono richiedere a Medicina Democratica CP 81, 20100 Milano,tel.024984678