Rivista Anarchica Online


dibattito 1

Francesco  Merlino
Errico Malatesta 1 a 0?
di Cosimo Scarinzi

Prosegue il dibattito su anarchismo, democrazia, ecc.,  originato dallo scritto di Francesco Berti sul numero estivo. Sullo scorso numero è intervenuto Piero Flecchia. è ora la volta di Cosimo Scarinzi.

Quando ho letto l’articolo di Francesco Berti "Malatesta e il fascismo, gli anarchici e la democrazia"1 non ho potuto fare a meno di apprezzarne la determinazione e la coerenza. Francesco Berti riesce, nel breve spazio di un articolo, ad affermare con chiarezza buona parte delle tesi sull’anarchismo che non condivido e, nello stesso tempo, le questioni che solleva sono, a mio avviso, tutt’altro che peregrine.

L'articolo in questione è una critica netta delle posizioni di Malatesta sulla democrazia, il fascismo, il totalitarismo, una critica appena attenuata dal riconoscimento che Malatesta era uomo del suo tempo e che non poteva avere conoscenza di quanto sarebbe avvenuto dopo la sua morte. Effettivamente devo riconoscere che anch’io sarei stupito se si ritrovassero testi di Malatesta che trattano di internet o della clonazione. D’altro canto, quando Malatesta tratta della democrazia liberale, della borghesia, del movimento dei lavoratori è uomo del nostro tempo non nel senso, ovviamente, che non è cambiato nulla nelle forme di organizzazione della società, nello sviluppo delle conoscenze scientifiche, nell’evolvere delle teorie politiche ma in quello, ben più significativo, che solleva questioni per noi centrali e tenta delle risposte fondate su di una lunga riflessione ed esperienza e che come tali vanno sottoposte al vaglio della critica.
Al fine di evitare equivoci, non ritengo affatto scandaloso che si assumano posizioni diverse rispetto a quelle malatestiane visto che, a rigore, quello che pensava Malatesta non è, di per sé, più condivisibile di quanto pensa Francesco Berti o chiunque altro. In questo caso, come in altri, si tratta di confrontarsi sul merito delle posizioni e delle critiche.
Ho, però, l’imessione che  quando si afferma:
"Credo che il miglior rispetto che possiamo portare alle idee di Malatesta – come alle idee dell’anarchismo in generale – consista a mio avviso nello sviluppare le intuizioni migliori, rimanergli fedeli nello spirito applicando il suo metodo – che mi pare tuttora il migliore tra quelli esistenti – alla realtà di oggi... penso che quello che ci interessi è rendere vivo il suo insegnamento nella forma in cui oggi può prosperare." si dica qualcosa di decisamente singolare. Nessuno, infatti, proporrebbe di sviluppare le intuizioni peggiori degli anarchici del passato o di renderne vivo l’insegnamento in forme palesemente inefficaci. La "fedeltà nello spirito", poi, non mi pare concetto molto chiaro e separare il metodo che ha caratterizzato una proposta teorica e pratica dai risultati ai quali questo metodo è pervenuto e dai problemi ai quali si è applicato è palesemente problematico.
In altri termini, Malatesta era un rivoluzionario convinto ed un nemico dello stato. Poteva aver ragione o sbagliare ma non mi sembra possibile affermare il contrario di quel che pensava sulle questioni per lui più rilevanti sostenendo di farne proprio il metodo a meno di immaginare che Malatesta non sapesse adoperare il metodo di analisi che gli era proprio.
Venendo alle questioni sollevate nell’articolo, Francesco Berti riconosce che "...una buona parte dei compagni si ostina ancora a considerare la democrazia sullo stesso piano di ben peggiori regimi politici..." e, visto che anch’io appartengo a questo manipolo di ostinati cercherò di fargli presente alcune ragioni di questa ostinazione.
Il governo democratico, come sosteneva Malatesta e come riconoscono serenamente buona parte dei nostri avversari, ha evidente ed esplicita natura oligarchica, né potrebbe essere altrimenti. Visto che un secolo addietro questa realtà non era altrettanto evidente, vi erano democratici "rivoluzionari",2 era normale che gli anarchici, dovendo prendere le distanze dagli altri partiti di opposizione e definire con chiarezza il proprio programma, ponessero l’accento con forza sulla natura reale della democrazia3. Oggi, visto che tutti, o quasi, sono democratici ma nessuno, o quasi, crede alla favola della democrazia come potere del popolo, l’esigenza di una critica delle illusioni democratiche è meno sentita nel nostro campo ma non è venuta meno anche se va sviluppata tenendo conto sia dell’evolvere della democrazia realmente esistente che della moderna riflessione sulle forme del governo.
Francesco Berti, al fine di meglio criticare le inadeguatezze di Malatesta,  afferma che:
"...la democrazia non era quale la conosciamo oggi, con tutti i suoi limiti, certo, ma anche con la relativa libertà che garantisce e con il benessere diffuso del capitalismo avanzato... il giochetto propagandistico di mettere tutti i regimi politici sullo stesso piano non era poi così grave, né da un punto di vista etico né sul piano politico..." per pervenire alla conclusione che la democrazia andava allora, e, di conseguenza, ancora più oggi criticata per i suoi limiti e non per i suoi caratteri costitutivi. Anzi, la critica della democrazia politica, era, ed è, un giochetto propagandistico e, di conseguenza chi si attesta su questa posizione non è solo un ostinato ma, altres", un ciarlatano. Non mi è, poi, chiaro cosa vi fosse, e vi sia, di moralmente riprovevole nella critica del governo democratico.
Ritengo evidente che, dal punto di vista formale, gli anarchici, perlomeno quelli ostinati e che in altri tempi si sarebbero detti refrattari, sarebbero colpevoli di "mettere sullo stesso piano" il potere democratico e quello autoritario o, peggio, totalitario. Ora, cosa significa "mettere sullo stesso piano"? Chi affermasse, ad esempio, che non vi è alcuna significativa differenza fra una democrazia parlamentare ed un dittatura militare affermerebbe una sciocchezza evidente. Chi affermasse, invece, che il potere capitalistico e statale va combattuto, a partire dall’autorganizzazione sociale e dall’azione diretta delle classi subalterne, sia nelle sue forme democratiche che in quelle autoritarie non farebbe che tenersi al nostro programma. Si può ritenere che questo programma è sbagliato, superato, privo di prospettive ma la conseguenza che deriverebbe da questa presa d’atto sarebbe il dichiarare la "fine dell’anarchia" come fece, ai suoi tempi, Francesco Saverio Merlino e, più tardi, Pier Carlo Masini. D’altro canto se Merlino e Masini passarono alla socialdemocrazia non fu certo un caso ma la coerente e rispettabile presa d’atto di un’evoluzione politica che li convin della necessità di aderire ad un partito diverso rispetto a quello nel quale avevano militato da giovani.
Pensare che vi possa essere un anarchismo che non si proponga l’abolizione dello stato e della proprietà è legittimo e, per la verità, di anarchici che sono giunti a questo convincimento ve ne è un discreto numero, a quanto mi risulta. Non vedo, però, cosa vi sia di male se vi sono degli anarchici che restano nemici dello stato ed anzi ritengo che gli anarchici nuovo modello abbiano tutto da guadagnare dall’esistenza di una componente classista e comunista del movimento anarchico non fosse altro perché permette loro di sentirsi anticonformisti.

 

La democrazia come spazio

 Francesco Berti, per la verità, pone un limite alla sua apologia della democrazia e sostiene che:
"La democrazia, per un anarchico, non può costituire naturalmente un fine. Può costituire, laicamente, lo spazio per il confronto e lo scontro delle idee, per il mercato delle opzioni nel quale operare per ‘far vincere’ – senza imposizione, senza violenza – la propria." E afferma, inoltre, che dobbiamo por mano "È all’instaurazione di un anarchia possibile, che non è altro a mio parere che una forma libertaria di democrazia. Far avanzare la democrazia verso l’anarchia, non lavorare per abbattere la democrazia.".
Dunque, la democrazia, sarebbe uno "spazio". Il fatto che la democrazia realmente esistente conviva con il concentrarsi crescente della ricchezza e del potere non sembra preoccupare il nostro compagno. Si tratterebbe solo di "confrontare e scontrare le idee" naturalmente in maniera "laica". Nel caso le classi dominanti e gli apparati statali non si facessero convincere dalle evidenti ragioni dell’anarchia non ci resterebbe, se ho ben compreso le tesi di Francesco Berti molto da fare visto che vanno evitate sia l’imposizione che la violenza.
Ritengo, inoltre,  evidente che termini come imposizione e violenza sono tutt’altro che di facile definizione. Dal punto di vista delle classi proprietarie, infatti, la sola ipotesi di espropriarle non può che apparire come un’intollerabile sopraffazione.
Ma, lasciando da parte l’espropriazione degli espropriatori, cara agli ostinati come me,  è un fatto evidente che la normale resistenza allo sfruttamento ha caratteri "violenti" agli occhi degli amici dell’ordine. Uno sciopero, un picchetto, un atto di sabotaggio non sono, forse, violenza? La violenza quotidiana delle classi dominanti appare, invece, come normale, fisiologica, necessaria. Che sia così per chi vive del lavoro altrui e per l’ "opinione pubblica" è comprensibile, trovo meno scontato che sia così anche per dei compagni.
L’assunzione di una posizione programmaticamente non violenta porta, coerentemente, chi si ponga in questa prospettiva a considerare come ineliminabile la violenza fisiologica e strutturale dei capitalisti e degli stati. Se la violenza è una scelta morale, il non violento rifiuterà di aggiungere violenza a violenza e tollererà quella che la società subisce cercando di educare chi gli presterà ascolto alla non violenza. Ma se la violenza è una relazione storico-sociale, come ritengono gli anarchici ostinati, appare evidente che proprio la violenza di chi ha il potere tende a divenire invisibile perché è assunta come naturale mentre la rivolta contro l’oppressione apparirà come violenza4.
Voglio forse dire che dobbiamo divenire fautori della violenza indiscriminata? Evidentemente no e per almeno due motivi:
  -  in primo luogo perché una mutazione sociale tanto più è matura quanto meno richiede forzature;
  -  in secondo luogo perché la pratica della violenza, anche di quella più giustificata, ha effetti profondamente corruttivi.
Riconoscere che un rivoluzionario non ha alcuna tenerezza per il gesto esemplare, l’insulto gratuito, l’oppressione di esseri umani non può voler dire che ci si può illudere sul fatto che le classi dominanti possano essere combattute sul terreno del confronto delle idee. Gli esseri umani concreti si emancipano dall’oppressione che quotidianamente subiscono solo quando entrano in movimento con forza e determinazione, quando oppongono la forza alla forza, quando assumono la propria vita come qualcosa di meritevole di essere vissuta pienamente con i rischi che questa scelta comporta.

 

Non abiurare

Un altro limite che Francesco Berti pone alla sua critica all’anarchismo storico consiste nell’affermare che non si deve "È abiurare l’idea che la costruzione di una società libera  debba avvenire principalmente fuori dalle istituzioni statali".
Non insisto sul carattere suggestivo del termine "abiurare" ma sarei curioso di capire cosa significa "principalmente". Ritengo si possa intendere che, secondo il nostro compagno, si può costruire  una società libera non solo in presenza delle istituzioni statali ma, altresì, nelle stesse istituzioni statali almeno secondariamente. Un’ipotesi, a dir poco, affascinante che ricorda la "lunga marcia attraverso le istituzioni" dei verdi tedeschi e di altri ex rivoluzionari colpiti dalla necessità di essere "realisti".
Il punto di vista del nostro compagno viene forse chiarito meglio dall’affermazione seguente:
"...lo Stato si distrugge nel momento in cui gli uomini instaurano tra di loro altri tipi di rapporti diversi da quelli statuali. é necessario dunque lavorare prima di tutto per far sì che gli uomini instaurino fra di  loro rapporti libertari, e si liberino dello Stato nelle loro menti e nelle loro azioni: il superamento dello Stato, nel senso dell’avanzamento della società verso l’anarchia, sarà possibile solo quando la società civile sarà così forte, così comunitariamente strutturata, così democraticamente matura da poter fare a meno di un potere centralizzato e gerarchico. Altrimenti la rivoluzione non potrà che essere un pericoloso salto nel vuoto che rischierebbe di portare indietro la società, aldiquà della democrazia, invece che aldilà."
Alcuni dubbi mi sembrano legittimi e li segnalerò brevemente:
  -  la rivoluzione sarebbe possibile solo dopo che c’è già stata visto che le condizioni poste sono tali da potersi definire rivoluzionarie;
  -  la società civile, come è noto, è la società borghese o, se si preferisce, la sfera delle relazioni private sulla base dell’attuale ordine sociale. Essa, di conseguenza, non si oppone allo stato ma è complementare;
  -  non si vede come sia possibile in questo mondo vivere in massa come se non vi fossero le regole che lo caratterizzano. Io posso liberarmi dello stato nella mia mente nel senso che penso ad altro ma nelle mie azioni una pratica del genere è alquanto difficile e, visto che penso, magari male, a quello che faccio lo stato mi rioccupa la mente;
  -  sembra che dovremmo meritarci la liberazione dallo stato dimostrandoci democratici e maturi. Sembra il classico discorso della brava persona che ci spiega che l’anarchia è desiderabile ma impensabile visti i cattivi costumi del buon popolo;
  -  infine, si vorrebbe una rivoluzione dai risultati garantiti cosa che mi sembra alquanto bizzarro a meno di non pensare che la rivoluzione si fa prima di averla fatta e, di conseguenza, si sa già cos’è. Se si suppone che la rivoluzione significa, in primo luogo, una mutazione dei soggetti che la vivono, una mutazione che si afferma nella prassi, non si vede in cosa dovrebbe mutare una società prerivoluzionaria così degna di ammirazione.

 

È opportuno delegittimare lo stato?

Tornando alla critica che Francesco Berti sviluppa nei confronti di Malatesta, è interessante questa frase:
"È oggi necessario riconoscere che la delegittimazione dello Stato liberale alla quale anch’egli contribuì ebbe la sua non piccolissima parte nel far sì che non vi fosse da parte del popolo italiano quella reazione in difesa delle libertà fondamentali che lo Stato liberale, bene o male, garantiva".
Malatesta, insomma, avrebbe portato il suo contributo all’affermazione del fascismo visto che aveva contribuito a "delegittimare" lo stato liberale (mi ostino a scrivere stato con la minuscola). Direi che siamo di fronte ad un’affermazione paradossale: lo stato liberale lascia mano libera alle squadre fasciste, Croce ed Einaudi riconoscono i meriti del fascismo come giacobinismo nero, il padronato paga le squadre fasciste ma non si doveva "delegittimare" lo stato liberale che si "delegittimava" serenamente da sé5.
Una responsabilità nello spingere lo stato liberale nella direzione del fascismo gli anarchici effettivamente l’hanno avuta. Lottando come sapevano e come potevano in un contesto come quello del biennio rosso che segue una guerra sanguinosa, altro dono dello stato liberale, hanno contribuito a spaventare la borghesia e a favorirne la deriva reazionaria. Come qualche compagno ha fatto rilevare, le rivoluzioni interrotte preparano sciagure. Seguendo il ragionamento di Francesco Berti, gli anarchici avrebbero dovuto predicare la pace sociale al fine di non spingere il blocco conservatore nelle braccia del fascismo. Sarebbero stati degli anarchici alquanto singolari ma non avrebbero peccato di ostinazione.

 

Democrazia e totalitarismo

Un altro tema caro a Francesco Berti è quello del totalitarismo. Questo concetto gli pare talmente centrale che afferma che coloro che hanno dei dubbi sul suo valore scientifico sono solo dei dinosauri marxisti leninisti. E con questa terzo anatema io e gli altri compagni che la pensano come me siamo serviti (ostinati, cialtroni e staliniani).
Non vi è, in questa sede, spazio per una riflessione compiuta sulla questione e mi limiterò, di conseguenza, ad alcuni cenni.
A sostegno della sua tesi Francesco Berti porta una citazione di Pier Carlo Masini6 che in quanto ad ostilità al marxismo leninismo e ad adesione alle tesi manzoniane certo non era secondo a nessuno e Benito Mussolini che ha lanciato, a quanto mi risulta nel 19257 la categoria analitica in questione.
Il fatto è che Benito Mussolini, che non era certo uno stupido ma che sovente utilizzava i concetti a fini eminentemente propagandistici, non aveva affatto elaborato una teoria strutturata del totalitarismo e, al massimo, esprimeva precocemente quella che è una contraddizione del fascismo storicamente esistente. Per un verso, infatti, il fascismo afferma il primato della volontà e della politica sulla sfera economica, per l’altro viene a patti con la struttura economica, burocratica, sociale effettivamente esistente con l’effetto di volersi rivoluzionario senza poter realizzare la rivoluzione della quale si vuole portatore. Il fascismo storico totalitario non fu mai se non nella propaganda ed è sin troppo noto che governò in collaborazione con il padronato, la burocrazia sabauda e liberale, con l’esercito, con la chiesa e che riprese i temi "totalitari" solo nella sua deriva finale.
Nemmeno il fascismo tedesco distrusse effettivamente la "società civile" con la quale convisse serenamente sino alla fine con qualche momento di tensione nel luglio 1944 quando settori dell’esercito tentarono di liquidarlo per chiudere la guerra con gli occidentali e salvare i propri interessi. Basterebbe pensare che il lavoro coatto veniva utilizzato dalle imprese e dalla stessa chiesa, per notare come i vecchi gruppi dominanti fossero tutt’altro che in rotta rispetto alla volontà "totalitaria" dei nazionalsocialisti ed anzi li utilizzassero sino al momento nel quale si rese opportuno mollarli alla loro sorte.
Se, poi, valutiamo regimi come quello di Franco in Spagna, è evidente che non avevano alcun carattere totalitario e che si appoggiavano ai vecchi gruppi dominanti.
In sintesi, il totalitarismo fascista era un’ideologia che caratterizzava i convincimenti dei fascisti radicali e la propaganda "antiborghese" dei regimi in questione.
Il termine "totalitarismo"8 viene utilizzato per la prima volta fra le due guerre sia dai fascisti che dai loro oppositori ma diviene di moda nel secondo dopoguerra quando designa soprattutto i regimi comunisti e serve a segnalarne i caratteri comuni con il fascismo ad opera dei difensori della "civiltà occidentale".
Una buona definizione ce la da lo stesso Francesco Berti:
"...I comunisti in Russia stavano dando vita ad una forma di dominio che rigettava quegli argini giuridici che si frapponevano al dispiegamento assoluto del potere statale che il liberalismo e la classe borghese avevano imposto alle monarchie europee, tra il XVIII e il XIX secolo, cercando di proteggere, certo e in primo luogo, i loro interessi economici e politici, ma proteggendo o, meglio, ponendo le premesse perché lo Stato salvaguardasse le libertà fondamentali di ogni cittadino."
La tesi di Francesco Berti è doppiamente interessante. Il primo luogo afferma che lo Stato (sempre con la maiuscola) liberale salvaguarda le libertà fondamentali di ogni cittadino. Non si vede, a questo punto, perché lo si dovrebbe abolire. In secondo luogo vede nello stato sovietico la compiuta realizzazione di un dominio totalitario infinitamente peggiore dello stato liberale.
Il punto è che i tre ordinamenti (fascismo, liberalismo, comunismo sovietico) sembrano essere dei modelli di società che vivono l’uno accanto all’altro e fra i quali si deve scegliere. Da un punto di vista storico non mi pare che le cose siano andate in questo modo.
Il fascismo non si afferma affatto contro la borghesia e i gruppi dirigenti liberali con i quali collabora sia all’interno delle nazioni dove ha preso il potere che su scala internazionale e nasce da tensioni che caratterizzano la stessa Europa liberale, tensioni manifestatesi nella prima guerra mondiale e nell’incrudirsi della lotta fra le classi che ne conseguì.
Lo stesso comunismo storicamente esistente non è uscito dall’uovo di Pasqua ma è il prodotto di una guerra che devastò la Russia zarista più che altre aree del continente, di una solida tradizione di dispotismo, della capacità di un partito (i socialdemocratici bolscevichi) di prendere il potere in condizioni innegabilmente straordinarie. Non credo di dire nulla di nuovo se rilevo che i bolscevichi esprimevano il punto di vista di settori consistenti della piccola borghesia intellettuale russa e furono gli eredi più del populismo russo9 che della socialdemocrazia occidentale. Lo furono nonostante il loro "marxismo" ortodosso perché le forze profonde che modellavano la storia russa li dominarono mentre essi credevano di poterle dominare. La triste fine della vecchia guardia bolscevica occidentalizzante (triste fine prevista acutamente da Fabbri e Malatesta che forse tanto poco avvertiti non erano) e l’affermazione del nazionalcomunismo staliniano mi sembra esserne la prova.
Ma il termine "totalitarismo" definisce questa società in maniera rigorosa? Se il totalitarismo definisce un universo sociale ove nulla si frappone al potere politico, ove non esistono corpi sociali intermedi fra la società e lo stato, ove la politica è onnipotente, direi che la fine dell’Unione Sovietica, la corsa dell’apparato comunista all’accaparramento della ricchezza ed alla trasformazione in mafia imprenditrice qualcosa dovrebbe pur insegnarci.
In estrema sintesi, come notava Orwell in "La fattoria degli animali" i funzionari dello stato-partito comunista si sono trasformati in caricature dei tanto odiati borghesi occidentali.
Questa considerazione nulla toglie ai caratteri orrendi dello stato sovietico ma lo ricolloca nel processo di affermazione delle relazioni sociali capitalistiche su base planetaria. Coloro che avevano preteso di essere i più efficienti ed efficaci nemici del capitalismo se ne sono dimostrati discepoli un po’ distratti ma, alla lunga, volenterosi.

 

Alcune conclusioni

Mi sembra, per concludere, che le considerazioni di Francesco Berti nascano dall’esigenza di una  riflessione, necessaria e doverosa, sul fallimento delle rivoluzioni del secolo che volge alla fine, sulle difficoltà e sui limiti del movimento anarchico.
Ritengo, quindi, che non abbia ragion d’essere alcun richiamo ad un’ortodossia che, oltre a non esistere, non sarebbe coerente alla critica libertaria all’esistente.
D’altro canto, l’anarchismo deve rinnovarsi a partire dalle proprie radici, dalla propria esperienza, dalla propria identità misurandosi con i problemi dell’oggi senza alcun senso di inferiorità nei confronti delle correnti di pensiero dominanti.
Solo a questa condizione potrà svolgere un ruolo significativo nelle battaglie politiche e sociali che ci attendono.

Cosimo Scarinzi

1 - In "A Rivista Anarchica" 265, estate 2000
2 - Sia perché  erano vive nel movimento operaio componenti repubblicane, che per la presenza di una forte componente socialista parlamentare.
3 - Non avevano forse ripetuto per decenni – Malatesta e gli anarchici – che le libertà democratiche erano libertà formali e borghesi, e che le vere libertà erano ben altre?
Francesco Berti, articolo citato
4 - Mi premetto di narrare una piccola vicenda che mi è occorsa. Durante la mobilitazione contro la guerra del golfo di una decina di anni addietro tenemmo un’assemblea di lavoratori in sciopero all’Università di Torino. Per un disguido, l’aula che avevamo prenotato doveva essere utilizzata per una lezione. Il docente, vittima della violenza che noi facevamo occupando l’aula, ci mandò un biglietto nel quale faceva notare che noi eravamo in contraddizione dato che ci opponevamo alla guerra ed occupavamo violentemente la sua aula. Era palese che non gli passava nemmeno per la mente la differenza di rilievo fra la guerra e la lezione e, in un certo senso, aveva ragione: la guerra era lontana e fisiologica, l’occupazione dell’aula vicina e patologica.
5 - Un ragionamento del genere mi ricorda singolarmente le parole d’ordine staliniane sulla necessità di raccogliere le bandiere lasciate cadere nel fango dalla borghesia.
6 -Pier Carlo Masini ha svolto un’opera positiva dal punto di vista della ricerca storica, ha mantenuto, dopo la sua rottura con l’anarchismo, rapporti di collaborazione e di cordialità con molti compagni. Era, nondimeno, un socialdemocratico di destra che, come molti ex rivoluzionari, tendeva a strafare.
7 - Mussolini, "Opera", pag. 362 "...la nostra feroce volontà totalitaria..."
8 - Quello che trovo singolare è il fatto che il primo studioso che si è occupato della questione, almeno stando alle mie modeste conoscenze, è Alexis de Tocqueville il quale, già nella prima metà dell’ottocento e senza, per la verità, utilizzare il termine si interrogava sul rapporto fra democrazia e libertà e vedeva in una democrazia non temperata dallzione e dall’influenza delle elites colte il rischio di una deriva fortemente illiberale.
9 - Questo carattere peculiare del bolscevismo storico è ben definito da Bruno Bongiovanni in "Bagliori dell’est", quaderno n. 7 di "Collegamenti/Wobbly", aprile 1990 ma è stato colto, in precedenza, da diversi studiosi e militanti.

 

Volevo Aggiungere…
di Piero Flecchia

Nel mio intervento pubblicato sul n. 266 (ottobre) alle pagg. 56-58 mancava l'elemento centrale della riflessione: le coalizioni reazionarie intorno a Crispi e Pelloux abortirono perché mancava loro il supporto clericale dovuto al rifiuto del Vaticano di partecipare alla vita politica del regno sabaudo, e così queste coalizioni non ebbero nel paese il consenso necessario a sopraffare ed evertere l'impulso democratico progressista della rivoluzione liberale risorgimentale; che resta ancora oggi, e tenacemente, nel mirino della chiesa, come dimostra la diffamazione del Risorgimento all'ultimo convegno di Comunione e Liberazione a Rimini, dove si è tentata una rivalutazione dei Borboni di Napoli e di Pio IX, riconferma della pervicacia della strategia anti-laica della tradizione cattolica: il suo tenace rifiuto della logica democratica laica. Né Crispi né Pelloux ebbero dunque l'appoggio della chiesa e i loro tentativi reazionari di tipo bonapartista mancarono così di quell'appoggio che invece si rivelò per il fascismo decisivo (come in Francia lo era stato per Napoleone III). Malatesta, che aveva vissuto in prima persona i precedenti due tentativi reazionari, e ne aveva scorto la sostanziale debolezza, ma senza coglierne la vera ragione, vide nel fascismo delle origini una ripetizione dei disegni reazionari incarnati in Crispi e Pelloux. E quello fascista condotto da forze sociali e una personalità con molti meno consensi negli apparati dello stato e negli spazi della cultura: Mussolini era infatti un leader di basso profilo, rispetto a un D'Annunzio, a un Giolitti, e anche a un Nitti o un Sonnino. Poteva quindi essere facilmente battuto. Ma egli seppe costruire una coalizione che si mise al servizio del tenace disegno reazionario del Vaticano: il Vaticano percepì il fascismo come irripetibile occasione per realizzare l'antiRisorgimento. Uomo laico, spirito formatosi al positivismo ottocentesco, Malatesta ebbe al centro della sua metafisica un concetto ben preciso, in materia di religione, che sintetizzò nella lapidaria formula: se un dio ti serve per essere migliore, prenditi questo dio. La sua cultura non includeva la complessa analisi sul ruolo del mito nell'organizzazione degli spazi simbolici della società, che prenderà forma soltanto attraverso il movimento neokantiano (la filosofia cassireriana, per emblematizzare il complesso movimento in un nome); e che in Italia ha il suo momento più alto in quello straordinario pensatore, cronologicamente della generazione successiva a Malatesta, che fu Piero Martinetti, il cui saggio: La Libertà, resta a oggi fondamentale; come fondamentale resta il suo Gesù Cristo e il Cristianesimo per capire il ruolo della religione nel pensiero, come elemento di controllo. E infatti il Vaticano chiese al fascismo di impedire la pubblicazione di questo scritto. E il fascismo lo vietò.
Ho un po' divagato, ma credo che ora il senso del mio discorso in margine all'interpretazione malatestiana di Francesco Berti vi sarà chiaro. Malatesta vide per quanto poteva in base alla sua attrezzatura culturale: che era di tutto rilievo, ma inscritta nell'ambito positivista ottocentesco, con gli inevitabili limiti che questo doveva comportare. Ma il nostro Errico ebbe però anche alcuni momenti di straordinaria lucidità di analisi, che trascesero di gran lunga i limiti implicati dal suo sguardo culturale: uno di questi fu la sua ipotesi di rivoluzione attraverso l'iniziativa dannunziana.
Ritornando al filo del ragionamento: non intendo assolutamente sostenere che la democrazia borghese laica, la grande costruzione dell'Illuminismo, che ha il suo caposaldo nella filosofia kantiana, e che ha portato agli stati laici democratici attraverso il ciclo di rivoluzioni apertosi con la rivoluzione americana, sia poca cosa. La democrazia è una preziosa conquista, ma per nulla definitiva, come ha dimostrato la rivoluzione democratica russa, poi finita nella tirannide bolscevica. Proprio perché spinta progressiva di trasformazione, la democrazia è continuamente minacciata: e anche da forze di sinistra, di pericolosa involuzione. E però, pur vedendo benissimo da subito l'involuzione bolscevica, mancò all'anarchia, tra la macnovina e la rivoluzione spagnola, la capacità di introdurre nel momento democratico la coscienza del rischio del progetto reazionario proprio attraverso la rivoluzione radicale, in ragione della sua degenerazione metareligiosa, perché questo è stato, e resta nella sostanza il marxismo.
Spero di non avervi troppo annoiati con questa mia lettera. Quella che è stata pubblicata è come un teorema senza un passaggio fondamentale. Se a qualcuno che si occupa di politica preme veramente la questione, può ricostruire il percorso. Importante è respingere l'idea di un disegno progressivo. Nulla sarebbe più esiziale.
Poi seguono gli sbandamenti, le delusioni, la sfiducia. Di progressivo c'è soltanto il processo astratto simbolico della ragione che si interroga sulla realtà secondo la formula kantiana, ma i cui limiti e possibilità sono stati amaramente individuati e lucidamente chiariti dal grande neokantiano Schopenhauer; eppure anche lui affetto dalle sue tenaci superstizioni.

Piero Flecchia