Rivista Anarchica Online


Soluzioni parallele
di Carlo Oliva

Chiedere la grazia e tentare il suicidio: sono le due scelte escluse da Adriano Sofri all’indomani della ennesima vergognosa sentenza sul "caso Calabresi". Eppure...

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

Dunque, Adriano Sofri, commentando con la consueta dignità l’ennesima sentenza emessa a suo danno dalla magistratura italiana (una sentenza che nemmeno i più irriducibili giustizialisti hanno avuto il cuore di approvare e che è stata accolta dai suoi stessi nemici con manifesto imbarazzo), ha dichiarato che, visto che il suo stato di prigioniero gli impedisce di decidere che cosa fare, gli resta soltanto la possibilità di impegnarsi a non fare.  E che le decisioni che si sente di escludere, in prima battuta, sono due: non intende né chiedere la grazia né commettere suicidio.  Poi si vedrà.
Queste dichiarazioni sono apparse, in genere senza commento, sui giornali di sabato 6 ottobre. Tutti, a quanto pare, le hanno considerate normalissime.  Nessuno ha sentito il bisogno di smontare, o semplicemente di sottolineare, lo strano parallelismo tra i due propositi negativi dell’ex leader di Lotta Continua.  Che egli si risolva a chiedere la grazia, evidentemente, o che decida di farla finita una volta per tutte sembrano, ai più, due ipotesi affatto normali e da porre, in un certo senso, sullo stesso piano.

 

Capra e cavoli            

Strano.  Perché il discorso della grazia, naturalmente, accompagna da molto tempo il dibattito sul processo Sofri-Calabresi.  A chiedere un atto di clemenza gli imputati si sono sentiti ripetutamente esortare: uno di essi, anzi, lo ha fatto e non pochi cittadini di buoni sentimenti si sono presi la responsabilità di invocarlo per tutti e tre.  Al presidente Scalfaro, che rifiutò, sono state presentate le firme di una petizione popolare in tal senso. All’argomento del "tanto gli daranno la grazia " ricorse, se non vado errato, persino un magistrato (?) di Corte d’Assise per strappare a un paio di giurati riluttanti l’assenso a un verdetto di condanna.   E di quello del "basterebbe che si pentisse e gli darebbero la grazia" si è servito, forse a scarico di coscienza, lo stesso Marino. Anche i giudici del processo veneziano di revisione, nella loro sentenza, hanno adombrato uno scenario del genere, spiegando come di tenere in galera i tre personaggi di cui – pure – confermavano la condanna non ci fosse, in sostanza, motivo, per cui, si sottintendeva, la concessione della grazia sarebbe stata altamente opportuna.  Questa conclusione non sarebbe certo quella ottimale, non almeno per chi, come me, non crede alla colpevolezza di Sofri e dei suoi amici, perché il piano della clemenza è distinto per definizione da quello della giustizia, ma sarebbe l’ideale per chi non si pone problemi del genere.  Sarebbe una soluzione molto italiana, capace di salvare, com’è nell’ideale del paese, la capra e i cavoli e di offrire motivi di compiacimento a entrambe le parti in causa senza compromettersi con l’una di esse.  E comunque, visto che con la sentenza di giovedì scorso la possibilità di fare giustizia su tutta la faccenda si è ormai persa per sempre (il che significa, tra parentesi, che non sapremo mai davvero chi, e per quali motivi, abbia deciso che il commissario Calabresi andava soppresso) quella della grazia è ormai una soluzione obbligata e non è più possibile rifiutarla.
Ma il suicidio no.  Il suicidio, che pure, nelle carceri italiane, non è una via di uscita del tutto sconosciuta, a Sofri finora, non l’aveva proposto nessuno.  Nessuno dei giornalisti ammessi nel carcere di Pisa può avergli chiesto:  "Scusi, adesso che, pur così manifestamente innocente, è stato confinato in galera per i prossimi diciassette anni, non prenderebbe in considerazione l’ipotesi di ammazzarsi?"  Sono domande che non si fanno, non foss’altro che per motivi di buon gusto.
Eppure, chissà perché, si ha l’impressione che una domanda del genere l’avessero in mente in molti.  Tanto è vero che quando l’ipotesi è comparsa, come un fantasma, nelle interviste del giorno dopo, tutti l’hanno accolta con molta serenità.  Era come se, in un certo senso, se l’aspettassero.
Questo, non significa, naturalmente, che tutti i commentatori fossero disposti a trarre, da quella dichiarazione, tutte le possibili conclusioni.  Nessuno, così, si è preso la briga di far notare che, dal punto di vista dell’interessato, le due prospettive tendevano a sovrapporsi, nel senso che una richiesta di grazia, a questo punto, poteva essere considerata l’equivalente di un suicidio spirituale (anch’esso, a questo punto praticamente obbligatorio).  Troppo difficile e troppo sgradevole.   "Buone notizie", hanno intitolato i giornali, "Sofri non si suicida".  E visto che tutte le cose hanno, per guisa di dire, due manici, per l’uno dei quali si reggono e per l’altro no, quel commento positivo poteva volgersi facilmente al negativo e ci si poteva agevolmente leggere, come commento, un "Peccato!"   Perché anche quella della scomparsa fisica, naturalmente, è una soluzione e di una soluzione, di una soluzione qualsiasi, a questo punto, si sente davvero il bisogno.

 

Quel movimento non c’è più

Naturalmente Adriano Sofri non è stato condannato, per così dire, in proprio.  Sul suo destino personale ha pesato (e pesa) come un macigno la condanna definitiva del movimento politico di cui è stato un esponente tanto significativo.  Non di Lotta Continua, naturalmente, che ne ha rappresentato soltanto una, se pur ragionevole, scheggia, ma del complesso di giovani uomini e giovani donne (e di donne e uomini meno giovani, naturalmente) che si sforzarono, allora, senza troppa saggezza, ma con un forte senso del dovere e dell’onestà intellettuale, di esprimere la speranza di cambiare lo stato di cose presente.
Ora, quel movimento non c’è più.  Ha avuto esattamente la sorte che Sofri rifiuta.  In parte ha chiesto la grazia e in parte si è suicidato.
Non c’è da stupirsi se colui che, per un’assurda concatenazione di eventi e a dispetto della sua stessa evoluzione personale, ha finito per assumere il ruolo di capro espiatorio di tutta quella fase storica, non voglia, per sé, quell’alternativa.

Carlo Oliva