Dunque, Adriano Sofri, commentando con
la consueta dignità lennesima sentenza emessa a suo
danno dalla magistratura italiana (una sentenza che nemmeno
i più irriducibili giustizialisti hanno avuto il cuore
di approvare e che è stata accolta dai suoi stessi nemici
con manifesto imbarazzo), ha dichiarato che, visto che il suo
stato di prigioniero gli impedisce di decidere che cosa fare,
gli resta soltanto la possibilità di impegnarsi a
non fare. E che le decisioni che si sente di escludere,
in prima battuta, sono due: non intende né chiedere la
grazia né commettere suicidio. Poi si vedrà.
Queste dichiarazioni sono apparse, in genere senza commento,
sui giornali di sabato 6 ottobre. Tutti, a quanto pare, le hanno
considerate normalissime. Nessuno ha sentito il bisogno di
smontare, o semplicemente di sottolineare, lo strano parallelismo
tra i due propositi negativi dellex leader di Lotta
Continua. Che egli si risolva a chiedere la grazia, evidentemente,
o che decida di farla finita una volta per tutte sembrano, ai
più, due ipotesi affatto normali e da porre, in un certo
senso, sullo stesso piano.
Capra
e cavoli
Strano. Perché il discorso della grazia, naturalmente,
accompagna da molto tempo il dibattito sul processo Sofri-Calabresi.
A chiedere un atto di clemenza gli imputati si sono sentiti
ripetutamente esortare: uno di essi, anzi, lo ha fatto e non
pochi cittadini di buoni sentimenti si sono presi la responsabilità
di invocarlo per tutti e tre. Al presidente Scalfaro, che rifiutò,
sono state presentate le firme di una petizione popolare in
tal senso. Allargomento del "tanto gli daranno la grazia
" ricorse, se non vado errato, persino un magistrato (?)
di Corte dAssise per strappare a un paio di giurati riluttanti
lassenso a un verdetto di condanna. E di quello del "basterebbe
che si pentisse e gli darebbero la grazia" si è
servito, forse a scarico di coscienza, lo stesso Marino. Anche
i giudici del processo veneziano di revisione, nella loro sentenza,
hanno adombrato uno scenario del genere, spiegando come di tenere
in galera i tre personaggi di cui pure confermavano la condanna
non ci fosse, in sostanza, motivo, per cui, si sottintendeva,
la concessione della grazia sarebbe stata altamente opportuna.
Questa conclusione non sarebbe certo quella ottimale, non almeno
per chi, come me, non crede alla colpevolezza di Sofri e dei
suoi amici, perché il piano della clemenza è distinto
per definizione da quello della giustizia, ma sarebbe lideale
per chi non si pone problemi del genere. Sarebbe una soluzione
molto italiana, capace di salvare, comè nellideale
del paese, la capra e i cavoli e di offrire motivi di compiacimento
a entrambe le parti in causa senza compromettersi con luna
di esse. E comunque, visto che con la sentenza di giovedì
scorso la possibilità di fare giustizia su tutta la faccenda
si è ormai persa per sempre (il che significa, tra parentesi,
che non sapremo mai davvero chi, e per quali motivi, abbia deciso
che il commissario Calabresi andava soppresso) quella della
grazia è ormai una soluzione obbligata e non è
più possibile rifiutarla.
Ma il suicidio no. Il suicidio, che pure, nelle carceri italiane,
non è una via di uscita del tutto sconosciuta, a Sofri
finora, non laveva proposto nessuno. Nessuno dei giornalisti
ammessi nel carcere di Pisa può avergli chiesto: "Scusi,
adesso che, pur così manifestamente innocente, è
stato confinato in galera per i prossimi diciassette anni, non
prenderebbe in considerazione lipotesi di ammazzarsi?"
Sono domande che non si fanno, non fossaltro che per motivi
di buon gusto.
Eppure, chissà perché, si ha limpressione che
una domanda del genere lavessero in mente in molti. Tanto
è vero che quando lipotesi è comparsa, come un
fantasma, nelle interviste del giorno dopo, tutti lhanno accolta
con molta serenità. Era come se, in un certo senso,
se laspettassero.
Questo, non significa, naturalmente, che tutti i commentatori
fossero disposti a trarre, da quella dichiarazione, tutte le
possibili conclusioni. Nessuno, così, si è preso
la briga di far notare che, dal punto di vista dellinteressato,
le due prospettive tendevano a sovrapporsi, nel senso che una
richiesta di grazia, a questo punto, poteva essere considerata
lequivalente di un suicidio spirituale (anchesso, a questo
punto praticamente obbligatorio). Troppo difficile e troppo
sgradevole. "Buone notizie", hanno intitolato i
giornali, "Sofri non si suicida". E visto che tutte
le cose hanno, per guisa di dire, due manici, per luno dei
quali si reggono e per laltro no, quel commento positivo poteva
volgersi facilmente al negativo e ci si poteva agevolmente leggere,
come commento, un "Peccato!" Perché anche
quella della scomparsa fisica, naturalmente, è una soluzione
e di una soluzione, di una soluzione qualsiasi, a questo punto,
si sente davvero il bisogno.
Quel
movimento non cè più
Naturalmente Adriano Sofri non è stato condannato, per
così dire, in proprio. Sul suo destino personale ha
pesato (e pesa) come un macigno la condanna definitiva del movimento
politico di cui è stato un esponente tanto significativo.
Non di Lotta Continua, naturalmente, che ne ha rappresentato
soltanto una, se pur ragionevole, scheggia, ma del complesso
di giovani uomini e giovani donne (e di donne e uomini meno
giovani, naturalmente) che si sforzarono, allora, senza troppa
saggezza, ma con un forte senso del dovere e dellonestà
intellettuale, di esprimere la speranza di cambiare lo stato
di cose presente.
Ora, quel movimento non cè più. Ha avuto esattamente
la sorte che Sofri rifiuta. In parte ha chiesto la grazia e
in parte si è suicidato.
Non cè da stupirsi se colui che, per unassurda concatenazione
di eventi e a dispetto della sua stessa evoluzione personale,
ha finito per assumere il ruolo di capro espiatorio di tutta
quella fase storica, non voglia, per sé, quellalternativa.
Carlo Oliva
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