Rivista Anarchica Online


movimenti

Scena "reale"
di Maria Matteo

Seattle, Genova, Praga: la comunicazione si è rivelata un punto centrale  per i movimenti di piazza anti-globalizzazione. E anche nelle giornate di Belgrado...

"Naturalmente gli Stati Uniti si preparano a stabilire un regime fantoccio.
Io non ho bisogno che i propagandisti di Milosevic me lo dicano.
Ma oggi c’è stata la più stupenda rivolta nella recente storia di Belgrado! Oltre al fatto che un regime dittatoriale è stato rovesciato!
Non c’è più nessun fottuto governo nel centro di Belgrado. Le strade sono liberate, i poliziotti si sono arresi o sono stati disarmati, molte persone si autogovernano.
Le automobili più costose sono state usate per costruire barricate in tutta la città, metà delle attività economiche sono in sciopero, gli sbirri hanno preso le più stupende botte, uffici e negozi dei ricchi sono stati assaltati e sfasciati e la fottuta TV, fortezza della televisione di stato, è stata distrutta e bruciata! La stessa fottuta stazione TV che mi è sempre stata sui nervi fin da quando ero una bambina, ma non avevo mai potuto farci nulla (tranne lanciargli qualche porcheria quando ne avevo l’occasione). Ora finalmente non c’è più nessuna fottuta televisione di stato!
Se queste non sono ragioni per essere felici, io non so quali altre possano esserlo! Io so che questa situazione non potrà durare a lungo, ma sono completamente felice finché ci sarà. E spero che sapremo mandar via il prossimo regime ‘democratico’ allo stesso modo, ma in minor tempo!"
Queste parole immediate, prive di elaborazione letteraria, lanciate sulla lista a-infos da Mihaela, una giovane anarchica serba, riassumono in un rapido accecante flash lo spirito della rivolta che a Belgrado ha portato alla fine del regime di Milosevic. In esse traspare la chiara consapevolezza della fragilità del momento di grazia che descrivono ma anche la gioia nel constatare che le insurrezioni popolari possono vincere, che non sono solo un retaggio di passati certo mitici ma ormai inattingibili. Naturalmente sappiamo che il mancato intervento dell’esercito, le pesanti pressioni internazionali, hanno contato tanto quanto l’esasperazione di una popolazione stremata dalla guerra, dai bombardamenti "umanitari" della NATO e dall’embargo. Ma quel che mi preme sottolineare è il riemergere di un protagonismo di piazza in Europa.
É la piazza fisica nella quale si esprime la rivolta e lo scontro contro i poteri costituiti ed è la piazza virtuale nella quale si colloquia con il mondo intero. Rata, un giovane anarcosindacalista serbo, studente universitario, partecipa alla mobilitazione, organizza l’occupazione dell’università, passa giornate intere senza dormire ma ogni giorno, puntualmente, passa da casa per spedire in rete la cronaca sempre più veloce degli avvenimenti. Sa di vivere uno dei rari momenti in cui la storia accelera ma il coinvolgimento forte, anche sul piano emozionale, non gli impedisce di aprire la sua finestra sul mondo, di trasformare la storia in cronaca, la vita in narrazione.
In queste settimane (siamo ai primi di ottobre) molti tra coloro che seguono lo sviluppo delle varie mobilitazioni internazionali avranno vissuto un senso di partecipazione e vicinanza congiunto ad una latente impressione di straniamento.

Ma quanto mi costi!

Facciamo un passo indietro e altrove. Passiamo da Belgrado a Praga. Due capitali che assumono oggi un valore emblematico perché entrambe nella parabola del postcomunismo di stato, entrambe reduci dalla dissoluzione di un’entità statuale multietnica, entrambe al centro dell’attenzione in questo primissimo scorcio d’autunno. Certo a Praga la fine del regime e la dissoluzione della Cecoslovacchia non sono state accompagnate dalle guerre feroci, dalle pulizie etniche che hanno segnato la regione balcanica, ma le cronache delle ultime settimane ci offrono più di uno spunto di riflessione. Una riflessione sull’emergere prepotente di un’opinione pubblica internazionale e sul contestuale organizzarsi di un apparato repressivo transnazionale assai efficiente. Ma anche una riflessione sul sempre maggiore ruolo dell’informazione, sia quella "autogestita" sia quella degli stati e degli apparati di potere, nella costruzione di un evento e nella sua "consumazione" simbolica.

Ma torniamo a Praga. Il 26 settembre, è noto, vi si è svolta una grande manifestazione internazionale contro il vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Era uno degli appuntamenti chiave del movimento di controglobalizzazione dopo Seattle, Davos, Washington, il MayDay, Melbourne. Anche questa volta chi non era presente ha potuto seguire in tempo reale gli avvenimenti tramite internet e con collegamenti diretti attraverso una fitta rete di cellulari. Ho il sospetto che se qualche cinico buontempone volesse fare un bilancio economico di quella mobilitazione troverebbe in buona posizione, dopo le spese legali, mediche e quelle per la retribuzione degli straordinari a poliziotti e soldati, le bollette telefoniche dei contestatori di mezzo mondo. D’altro canto quella dell’informazione è stata una battaglia rovente tanto quanto quella combattuta nelle strade della capitale ceca. Una battaglia senza esclusione di colpi.
Se la rete delle reti è stata la piazza nella quale è cresciuta e si è organizzata la manifestazione praghese, i media "classici" - televisioni e carta stampata - sono stati usati con perizia da avversari ormai consapevoli di dover fronteggiare un movimento in crescita. Demonizzazione del movimento nel periodo precedente il vertice da parte di tutta la stampa e la TV ceca; prudenti dichiarazioni distensive del presidente Havel, che nell’approssimarsi dell’incontro, invita in TV capitalisti e contestatori, ambientalisti e presidenti di BM e FMI; definitiva criminalizzazione del movimento dopo gli scontri di piazza. Dulcis in fundo: assoluto silenzio sulla feroce repressione scatenata dalla polizia ceca nei giorni successivi: gli arresti di massa, gli abusi, le violazioni dei diritti, le molestie sessuali, le torture e le vere e proprie "sparizioni". Ma la controinformazione entra subito in azione e le testimonianze atroci di chi aveva sperimentato sulla propria pelle le galere ceche rimbalzano veloci sulle varie consolle del pianeta: ovunque si organizzano sit-in di protesta, occupazioni ed assedi delle ambasciate.
L’importanza della narrazione dell’evento eccede, sovrasta al punto di oltrepassarlo, l’evento stesso. In quella che Rifkin definisce "l’era dell’accesso" l’informazione svolge un ruolo nevralgico non solo perché, classicamente, "orienta" l’opinione pubblica ma perché diviene fattore decisivo non solo nella definizione delle regole del gioco ma nell’accesso consentito o negato al gioco stesso.

A Seattle, invece

Facciamo un altro passo indietro e altrove. Passiamo da Praga a Seattle. Per quello che concerne le dinamiche di piazza le due manifestazioni appaiono simili: organizzazione per gruppi di affinità (a Praga addirittura fisicamente individuabili nei tre colori dei cortei: il rosa, il giallo e il blu), tattiche nonviolente e di resistenza passiva accanto a tattiche di attacco diretto e talora violento, forte coinvolgimento internazionale, l’obbiettivo puntato sia sugli aspetti concreti che su quelli simbolici della presenza di piazza, forte repressione statuale, sia pure con gradi significativamente diversi quanto a intensità. Sul piano dell’informazione lo scenario muta invece radicalmente. A Seattle, nonostante la sorpresa ed alcune eclatanti sconfitte di piazza, l’apparato repressivo si mostra non meno efficiente di quello schierato nella Repubblica ceca, ma la battaglia dell’informazione è tutta a favore dei dimostranti. Persino Clinton arriva a rilasciare dichiarazioni pubbliche in cui riconosce il valore morale della protesta. Dopo Seattle le organizzazioni più moderate vengono addirittura invitate a mandare rappresentanti alle kermesse ufficiali dei vari organismi transnazionali: anche il WEF (Word Economic Found), che è un’organizzazione privata, si apre ai contestatori, si dice disponibile al dialogo, sensibile alle istanze del movimento. A Praga invece abbiamo visto come, a parte il patetico democraticismo di un presidente ex oppositore, la guerra dell’informazione trovi ben preparati i media di regime e su questo piano il movimento, pur assai vivace in piazza, registra una sostanziale sconfitta. Una sconfitta che su un piano dolorosamente concreto lascia briglia sciolta all’inasprirsi della repressione.
Credo sia tempo di bilanci. Ad un anno da Seattle, dopo i dubbi risultati delle manifestazioni italiane contro Tebio a Genova e contro l’OCSE a Bologna, con gli occhi e le orecchie pieni delle immagini ed i suoni provenienti da Praga e Belgrado e, sullo sfondo, tragicamente, un conflitto "antico" come quello in corso in Israele, sempre in bilico tra cronaca e storia e tra realtà e spettacolo, vediamo crescere nuovi movimenti nelle piazze, quelle virtuali e quelle materiali. Oggi più che mai il saper fare deve coniugarsi ad un narrare che sia azione, relazione, capacità di prefigurare nuovi mondi.

Maria Matteo