Sono a Verona - città che sempre più spesso,
a torto o a ragione, suscita dibattiti sul razzismo -, in Fiera, dove sono chiamato
a dire la mia su questo e quello. Dico la mia su questo e quello e vedo che si
è fatto tardi. Declino l'invito a pranzo e filo verso la stazione ferroviaria.
Purtroppo la Fiera - come spesso capita per i quartieri fieristici costruiti dagli
anni Sessanta in avanti - è fuori città. Mezzi pubblici non se ne
vedono e la strada è piuttosto lunga. Una bella camminata non può
che farmi bene e, gambe in spalla, vado. Un po' perché il posto è
fuori dal mondo, un po' perché è l'ora in cui la gente mangia, in
giro non c'è anima viva. Qualche automobile che si slancia verso l'autostrada
e il sottoscritto che cammina. Ad un certo punto mi si para davanti il ponte della
ferrovia e una freccia mi invita a dividere il mio destino di pedone da quello
delle automobili. Il locale assessore alla viabilità, o chi per lui, ha
provveduto a scavare un cunicolo apposito per i pedoni. Un'ottima idea, mi dico
subito, se non fosse che il tunnel è lungo, buio e pozzangheroso. Mi ci
inoltro guardando dove metto i piedi e tutto procede bene. Fino a metà.
Giunto a metà, scorgo chiaramente due sagome davanti a me. Mi guardo rapidamente
alle spalle e devo constatare che non sta arrivando nessuno. Guardo oltre le due
sagome, verso l'uscita cui sono diretto e devo constatare che sono e sarò
solo. In quel momento mi rendo conto che sono nella fotografia. In quale fotografia?
In una fotografia ormai classica, in un luogo comune narrativo, in quello che
in trent'anni si è consolidato come uno stereotipo della rappresentazione
dell'ineluttabilità del male o, meglio, di una certa campionatura sociologica
del male.
Quella fotografia in cui ero incautamente cascato era la stessa che ho ritrovato
sul "Corriere della Sera", per l'ennesima volta, nel gennaio scorso,
sotto il titolo, questa volta, di "Baby gang rapina e picchia una minorenne".
È la fotografia debitamente oscura di un tunnel alla cui uscita si scorge
una casa o una cosa qualsiasi nella luce della normalità, ma nel cui centro,
stagliandosi contro la luce, si ergono tre nere figure inequivocabilmente giovanili
e inequivocabilmente minacciose - un insormontabile ostacolo per guadagnare l'uscita,
il pericolo cui non si può più sfuggire.
Ogni fotografia pubblicata sui giornali può essere classificata in tipologie
determinate dalla funzione ideologica che svolgono. Tutti noi sappiamo che non
c'era un cronista con tanto di fotografo al seguito nel momento in cui la disgraziata
minorenne è stata rapinata e picchiata dalla "baby gang" e, pertanto,
sappiamo altresì che questa fotografia non assolve la funzione di registrare
uno dei momenti costitutivi dell'evento. Diciamo che pretende di rappresentarlo
esemplarmente e basta. E diciamo, inoltre, che non lo rappresenta secondo l'intuizione
originale di un fotografo che, informato della vicenda, pensa che ti ripensa,
ha cercato un tunnel e pregato tre ragazzini di figurare opportunamente per realizzarla.
Perché, in effetti, questa fotografia è uno stereotipo. Deriva direttamente
da una sequenza di Arancia meccanica, il film che Kubrick diresse nel 1971
ricavandolo da un romanzo di Anthony Burgess. Prelude al massacro di una persona
e vuole rappresentare al contempo la faccia nascosta del perbenismo nonché
la lacuna inattesa nel tessuto presuntamente compatto delle garanzie civili cui
siamo soliti appellarci. In ogni società del benessere sorgono zone franche
in cui il malessere ti coglie di sorpresa.
Sulla funzione di questo tipo di fotografie non ho dubbi. Viva l'iconoclastia.
Non aggiungono informazione, ma contrassegnano simbolicamente l'evento. Lo categorizzano,
lo rendono genere, il prodotto di una matrice comportamentale che, comunque, ne
viene veicolata. Arricchiscono il racconto di un quadro ideologico e lo impoveriscono
della sua amara verità - la singolare e drammatica esperienza di una vittima.
C'è del cinismo nella generalizzazione, fino alla complicità con
gli aguzzini.
Sono a Verona, dicevo, sto andando verso la stazione, sono a metà del tunnel,
sono solo e mi ritrovo in questa fotografia che conosco bene. Più vado
avanti e meglio individuo le due figure che mi si parano davanti. Sono due ragazzi
neri che mi guardano. Ricambio lo sguardo, proseguo con il mio passo, si scambiano
un'occhiata, dico buongiorno, passo in mezzo a loro due e tiro diritto. Non mi
giro più. Uscito dal tunnel, do una controllatina all'orologio e mi affretto,
perché dev'esserci giusto un treno fra una decina di minuti.
Felice
Accame
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