Il saggio di Francesco Berti sulle implicazioni dell'analisi
malatestiana del fascismo ha, come ogni saggio intelligente, il merito di stimolare
diversi livelli di lettura e di dibattito, anche se il suo centro, come è
stato rilevato negli interventi successivi, è indubbiamente quello del
rapporto fra anarchismo e democrazia. Tale questione attraversa da sempre, più
o meno sotterraneamente, le teorie anarchiche e il movimento anarchico, ma solo
negli ultimi decenni ha ritrovato quella centralità che ebbe in momenti
decisivi per l'autodefinizione dell'anarchismo stesso (quali, ad esempio, furono
la deriva parlamentare di Andrea Costa e soprattutto la polemica fra Malatesta
e Merlino), con la non piccola differenza, però, che ora come mai su tale
dibattito è in gioco l'autoconsapevolezza che l'anarchismo ha di sé.
Oggi, infatti, la questione della democrazia si presenta come uno dei punti cruciali
che l'anarchismo non può non affrontare, mentre, dall'altra parte, è
proprio affrontandolo che esso si trova messo radicalmente in gioco, sia teoricamente
che politicamente-propositivamente, in quanto la "questione democratica"
riguarda direttamente (a questa rimandando) la questione della rivoluzione, cioè
la possibilità (e la concezione) di quell'evento che, almeno a prima vista,
settanta o cento anni fa faceva sì che la tematica della democrazia fosse
considerata "bypassabile". Proprio per questa pregnanza, però,
un tale riesame non può essere compiuto rimanendo sostanzialmente sul terreno
storico (come mi pare abbia fatto Flecchia) e neppure principalmente ricorrendo
alla vis polemica, seppur garbata (come ha fatto Scarinzi), mentre deve avere
il coraggio di andare al fondo -analiticamente, criticamente e speculativamente-
delle questioni che la realtà pone, affrontando con disincanto anche quegli
aspetti di essa che la lettura ideologica lascia in ombra o cela del tutto.
Proprio l'analisi - non solo storico-politico-sociologica, ma anche filosofico-concettuale
- della realtà in cui viviamo si rivela anzi essenziale per una tale disamina.
Se si pensa, infatti, che la realtà attuale sia diversa da quella dell'Ottocento,
o del primo Novecento, solo, o principalmente, dal punto di vista "quantitativo",
certo la riflessione di cui si parla non è necessaria (anche se, soprattutto
in questo caso, non andrebbe dimenticato che, come più o meno diceva Hegel,
"la quantità è qualità"), e le teorie e le analisi
più o meno "classiche" necessiterebbero al massimo di qualche
superficiale "messa a punto". All'opposto, se si pensa, come io penso,
che il mondo di questo crinale di millennio sia, per una notevole quantità
di aspetti, "qualitativamente-costitutivamente" diverso da quello che
l'ha preceduto, questa riflessione si rivela non solo necessaria, ma inderogabile.
La differenza del nostro tempo da quelli che l'hanno preceduto è palmarmente
visibile a partire da una semplice costatazione: mentre nella seconda metà
del secolo XVIII, in gran parte del XIX e nell'inizio del XX, la rivoluzione -
cioè la trasformazione accelerata e violenta dell'assetto sociale, per
usare una definizione "classica" - era all'ordine del giorno in gran
parte del mondo sviluppato, oggi, almeno nell'Occidente (che è poi quella
parte di mondo da cui il mondo nella sua globalità dipende), di essa non
è possibile vedere, neppure con l'ottimismo più sfrenato, non solo
i prodromi, ma neppure i presupposti.
Sono sotto gli occhi di tutti le profonde trasformazioni tecniche, sociali, culturali
che per molti aspetti, e non solo nell'Occidente (e per "Occidente"
si deve oggi intendere non solo l'Europa occidentale e gran parte dell'est europeo,
ma anche il nord-America, l'Australia e una buona parte dell'Asia tecnologicamente
sviluppata, cui vanno aggiunte, pur se in tali aree permangono forti elementi
di differenziazione, l'America meridionale e la Russia), hanno minato profondamente
la centralità politico-sociale del proletariato e delle classi popolari,
trasformazioni la cui portata diventa evidente se solo riflettiamo su un semplice
fatto.
Cultura di massa
Uno dei motti fondamentali della Prima Internazionale era "L'operaio ha
fatto tutto, può distruggere tutto, perché tutto può rifare"
e nell'icasticità di tale motto stava l'intera situazione sociale ottocentesca
ed il motivo per cui l'anarchismo vi corrispondeva. Allora, infatti, le competenze
tecniche, culturali, relazionali che il proletariato possedeva in virtù
della sua stessa condizione di possibilità erano essenziali, sia praticamente
che socialmente, per l'intera società, la quale, in tal modo, dal proletariato
dipendeva. Oggi sicuramente non è più così, le trasformazioni
sociali e culturali avvenute soprattutto nell'ultimo secolo hanno indubitabilmente
mutato proprio quelle condizioni di possibilità. Innanzitutto, infatti,
non vi è più, se non come recupero unicamente folkloristico, alcuna
"cultura popolare", cioè un modo di essere specifico di una parte
sociale, che era quanto rendeva praticamente possibile che, per dirla con Marx,
la "classe in sé" potesse diventare "classe per sé".
La cultura popolare è stata oggi sostituita dalla cultura di massa (che
è poi quanto rende possibile a livello folkloristico il recupero di aspetti
esteriori della cultura popolare), la cui caratteristica fondamentale è
di coinvolgere allo stesso modo, e con la stessa visione, classi ricche e ceti
popolari. È in virtù di questa trasformazione, che, per rimanere
all'attualità, diventa facile identificare l'elemento forte di identità
nell'"etnicismo" - cioè nella lingua, nella religione, nell'aspetto
fisico - e quindi scatenare guerre nazionalistiche come quelle cui abbiamo assistito
nell'ex Jugoslavia. Se, infatti, quel che mi distingue dall'"altro"
non è più un diverso "sentire" (cioè un modo diverso
di "essere nel mondo") che illumina e mi permette di agire la mia situazione
sociale, ma principalmente il fatto che io parli una certa lingua o frequenti
un certo tempio, ecco che mi troverò più facilmente a solidarizzare
col padrone della fabbrica in cui lavoro, che parla la mia lingua e ha la mia
stessa religione, piuttosto che con l'operaio della città vicina, che parla
un'altra lingua e ha un credo diverso.
L'altra grande trasformazione avvenuta riguarda le competenze tecnico-produttive
necessarie all'economia, riguardo alle quali non si può non notare come
oggi non vi sia più alcuna classe (o ceto) numericamente e socialmente
significativa che di per sé, cioè in virtù della sua stessa
condizione di esistenza, possegga alcuna competenza necessaria alla produzione
economica. Infatti, mentre da un lato, con la rivoluzione elettronica, la possibilità
di acquisire le competenze tecniche di base si è oggi diffusa in quasi
tutto il corpo sociale, dall'altro lato gran parte del lavoro manuale si è
oggi totalmente dequalificata, al punto che la manodopera necessaria in gran parte
delle produzioni può esservi immediatamente inserita, così come,
per lo stesso motivo, può essere subitaneamente sostituita da nuovi macchinari
o abbandonata a favore di quella di più favorevoli aree geografiche.
Tutto questo ha fatto sì che, se anche può restare vero che "l'operaio
ha fatto tutto", esso non possa più "distruggere tutto",
perché non sarebbe poi più in grado di ricostruire non tanto l'esistente,
ma neppure quanto sarebbe in ogni caso necessario alla continuazione della vita
sociale e individuale. Una riprova di questo fatto l'abbiamo in Africa, cioè
proprio in una delle aree del mondo in cui guerre civili e rivoluzioni più
o meno "classiche" continuano ad avvenire. Praticamente in tutti i paesi
sconvolti dalle guerre civili (come la Liberia, il Rwanda, eccetera), infatti,
le parti in lotta non solo si depredano a vicenda di armi, di mezzi, di macchinari,
di utensili, ma tutte finiscono per abbandonare quanto via via diventa inutilizzabile
perché incapaci di modificarlo o di pensarne un uso diverso, così
impoverendosi sia materialmente che culturalmente.
La questione del
totalitarismo
Tutto ciò (che certo meriterebbe analisi ben più profonde di
quelle qui tratteggiate) ha fatto sì che la finzione su cui l'Occidente
si è costituito per come lo conosciamo, l'idea di "cittadino"
(cioè dell'individuo riconosciuto come parte della polis al di là
della sua situazione sociale, culturale, economica), assumesse una rilevanza diversa
da quella che aveva anche solo nell'800, poiché è probabilmente
diventata una delle poche categorie concettuali socialmente condivise a poter
fungere da griglia interpretativa per le innumerevoli singole esistenze che compongono
oggi non solo le società occidentali, ma gran parte delle società
vigenti (una trasformazione, questa, che proprio l'espansione planetaria della
cultura europea ha progressivamente reso ineluttabile). Ma, come bene dimostra
Carlo Galli nella conversazione pubblicata su Libertaria n° 2/2000,
la categoria del "cittadino" è impensabile se non come contraltare
di quella polis che lo rende possibile, la quale, a sua volta, non si dà
"di per sé" e che, per essere "reale", cioè
socialmente agita, deve essere, in qualche modo, come tale "rappresentata"
(nel senso della rappresentazione, la quale è condizione di possibilità
della rappresentanza, cioè a dire che è necessaria l'istituzione
di un "teatro" come tale condiviso a rendere poi possibili e rappresentabili
le "parti in commedia"). In questo senso la "sfera politica",
di cui la democrazia è una "declinazione", è, come già
sapevano i greci della polis ateniese, una condizione ineludibile, e come
tale ineliminabile, di ogni società consapevole di sé, una consapevolezza
che a sua volta è condizione di possibilità per poter operare in
essa delle trasformazioni governabili.
È qui che, a mio parere, risiede il nocciolo della "questione democrazia".
Se, infatti, non si hanno chiare e presenti tali questioni diventa facile, quasi
scontato, pensare alla democrazia come fatto principalmente "formale",
come principalmente formale diventa la questione del totalitarismo, mentre se
si riconosce che tali problemi sono ineludibili l'intera faccenda assume immediatamente
connotati diversi.
L'anarchismo, come da decenni ripete instancabilmente Nico Berti, è principalmente,
se non del tutto, figlio di quella modernità che ha presentato la "società"
come un fatto praticamente scontato. Ne è figlio a tal punto da non essere
in grado di vedere come la "società" cui esso si riferisce non
sia un dato naturale, o naturalistico, e non possa quindi essere confusa con lo
"stare insieme" degli esseri umani: la differenza fra questi è
la stessa che passa, per fare un parallelo, fra l'accoppiamento sessuale e l'erotismo.
La "società", insomma, non è un "dato", una
evidenza che si dà di per sé, ma è essa stessa una rappresentazione,
una costruzione concettuale (o il prodotto di un "immaginario sociale",
per dirla con Castoriadis), ed è quella costruzione concettuale che diventa
visibile solo quando si "fuoriesce" da essa e ci si pone in un altro
punto di vista: quello della politica. È l'accedere ad un punto di vista
"politico", cioè quello per cui si guarda alla polis come
se non se ne facesse parte costitutiva, che fa sì che tutto ciò
che intercorre fra gli esseri umani (relazioni di forza o d'amore, interessi materiali
e intellettuali, passioni, cultura, modi di essere, e così via) si dia
come prodotto degli esseri umani stessi, e quindi diventi disponibile per la loro
volontà di trasformazione.
Ma se la società non è come tale un dato e se essa si rivela trasformabile
solo ponendosi nel punto di vista della politica, due sono le conseguenze che
ne derivano. La prima è che, anche dove si riveli possibile praticamente,
la rivoluzione non può eliminare la questione della politica, la quale,
come hanno dovuto apprendere sulla loro pelle gli anarchici russi nel '17 e quelli
spagnoli nel '36, dalla rivoluzione non è "risolta" come tale
(cioè eliminata a favore di qualcos'altro), ma semplicemente "dislocata"
in ambiti ed istituzioni più o meno dissimili da quelli presenti nell'assetto
sociale pre-rivoluzionario. La seconda è che, se la politica non è
eliminabile come tale, diventa necessario riconoscere come tale spazio non possa
essere abbandonato, ma debba anzi essere agito continuativamente (e non solo dopo
l'eventuale "grande soirée" rivoluzionaria) da chi propugna il
mutamento sociale, la qual cosa a sua volta significa che la semplice presenza
"antagonista" (termine e concetto su cui tantissimo ci sarebbe da dire)
non solo non basta, ma è scarsamente significativa proprio perché
rifugge dal confrontarsi con la politica come tale e, al massimo, rimane sul terreno
dell'etica.
Inevitabile
questione
Tutto questo, ovviamente, non vuol dire che si debba (come troppo semplicisticamente,
e un po' irrisoriamente, ventila Scarinzi nel suo intervento) accettare la democrazia
così com'è, né che essa sia insuperabile in quanto specifico
sistema giuridico-istituzionale, mentre invece vuol dire che, come si diceva all'inizio,
il rapporto dell'anarchismo con questa, così come con la politica da cui
la democrazia discende, deve essere ripensato. Quel che a me pare, in sostanza,
è che l'inevitabile questione che l'anarchismo deve affrontare se vuole
restare teoria e movimento significativo sia quella di ridefinirsi, passando da
quel che esso è ancora -cioè un'etica che non si autoriconosce compiutamente
come tale e che, di conseguenza, si pensa come di fatto corrispondente alla "natura"
degli esseri umani in quanto tali- ad un "qualcosa" di cui tutt'ora
non si vedono i contorni, ma di cui certo non si può negare la necessità.
Questo "qualcosa" non potrà certo, come detto, identificarsi
tout court nella democrazia così come la conosciamo, ma è altrettanto
certo che, dall'altra parte, non potrà non riconoscere che questa, almeno
dal punto di vista delle possibilità d'azione e di crescita individuale
e collettiva che permette, è sostanzialmente diversa, e migliore, non solo
dei totalitarismi, ma anche delle altre forme sociali esistenti (ad esempio la
teocrazia iraniana o dei talebani, le forme di governo mafiose e autoritario-militari
così diffuse in Africa e Asia), da poco passate (leggi fascismi e comunismo
di "marca sovietica") o propugnate da qualcuno sia a destra che a sinistra,
come è il caso di quasi tutti i "bioregionalismi" di impronta
organicistico-comunitaria.
Questo "qualcosa", inoltre, non potrà non riconoscere il fatto
(che è, in parte almeno, anche alla base delle democrazie esistenti) che,
garantita a tutti la possibilità di accesso e di azione nello spazio politico
(e questa è una battaglia da fare continuativamente, perché mai
risolta per sempre, sia sul piano politico-culturale che su quello economico-sociale),
ogni trasformazione sociale non può pensarsi né volersi - anche
se fattualmente può diventarlo - come irrevocabile o come corrispondente
ad una supposta (e tutta da dimostrare, ma io penso sia indimostrabile) "natura
umana".
Io non so dire se un tale "anarchismo politico" sia possibile o no,
anche se spero lo sia, quel che so è che solo la sua ricerca è oggi
ciò che può rendere ancora dotato di senso culturale, sociale e
politico il dirsi anarchico.
Franco Melandri
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