Rivista Anarchica Online


Lettere dall'India
di Carlo Oliva

Il turismo può servire al massimo per fare qualche raffronto con il proprio Paese. E scoprire che...

 

turismo

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

1. Notizie dall'Italia

In India non arrivano giornali italiani. Forse nei quartieri bene di Bombay o di New Delhi, quelli frequentati dai diplomatici e dagli imprenditori europei, è reperibile, a cercarla con cura, qualche copia di Repubblica o del Corriere della sera, ma in giro proprio non se ne vedono. Anzi, non si vedono giornali stranieri tout court. C'è ovunque abbondanza, a prezzi assolutamente stracciati, di quotidiani in inglese o in lingua locale, anche negli alberghi più scalcinati te ne infilano sotto la porta uno in omaggio ogni mattina, ma sono tutti rigorosamente made in India. E si occupano tutti rigorosamente soltanto dell'India. La politica internazionale è rappresentata soltanto da qualche accenno alle dispute di frontiera con il Pakistan sul Kashmir e alle tensioni diplomatiche – oggi in via di risoluzione – con la Cina.
Può capitare, ogni tanto, di incontrare qualche minuscolo trafiletto dedicato alla questione mediorientale, che riveste evidentemente un qualche interesse per la numerosa comunità musulmana di quel paese. Il resto del mondo compare soltanto quando si svolge qualche importante incontro internazionale di cricket e si limita, quindi, ai paesi cui l'imperialismo britannico ha lasciato in eredità, oltre alla guida a sinistra, questo incomprensibile sport. Persino l'insediamento di Bush non ha meritato, sulla prima pagina dell'autorevole Times of India, altro che una foto su due colonne con didascalia.
Il viaggiatore (e che scrive, come avrete capito, è in viaggio, da tre settimane, nell'India del Sud), di primo acchito prova soltanto un senso di liberazione. Quali che siano i motivi che l'hanno portato in quel paese remoto, nulla in quello che vede attorno a sé suscita in lui la vaghezza di tenersi in contatto con l'Italia. Qualche telefonata ai familiari, per assicurarsi che la mamma stia bene, e un paio di e-mail con gli amici (visto che in India, nella generale penuria di quasi ogni cosa, c'è una straordinaria abbondanza di telefoni pubblici e di locali in cui chiunque, per poche rupie, può sedersi di fronte a un computer e collegarsi con il proprio provider) bastano a esaurire il suo bisogno di comunicazione.
Tanto, si sa, sulla stampa italiana non si trova mai un granché, a parte – naturalmente – le quotidiane interviste con l'onorevole Casini, e trovarsi in un paese in cui dell'esistenza stessa dell'onorevole Casini non si ha alcuna nozione non può che recare conforto. E poi di fronte ai problemi che affliggono quotidianamente un miliardo di indiani, di fronte alla disperazione e all'orgoglio, alla miseria e allo spreco e alle contraddizioni smisurate in cui ci imbatte, anche senza volerlo, a ogni piè sospinto, le nostre questioni nazionali sembrano stranamente futili. Sono problemi da ricchi, polemiche da bambocci viziati. L'idea che si possa dedicare un titolo di prima pagina al problema del consumo delle bistecche - come mi si dice si sia fatto nel corso della mia assenza - è ovviamente incomprensibile in un paese in cui, motivi religiosi a parte, la bistecca è un genere fuori dalla portata del novantotto, novantanove per cento della popolazione.

 

Guida a sinistra e cricket

Poi, naturalmente, con il passare del tempo, qualche curiosità su cosa diavolo stia succedendo a casa insorge anche nell'animo dei più ostinati. Ma visto che non si può soddisfarla – perché ovviamente ci si vergogna un po' a telefonare dal Tamil Nadu e chiedere al proprio interlocutore se finalmente a Milano quelli dell'Ulivo si sono messi d'accordo sul candidato sindaco – ci si mette l'animo in pace. Anche se tutti, quando ti chiedono Where are you from e tu rispondi From Italy fanno con la testa dei gran cenni di assenso, si capisce che, a parte quei pochi che sanno che è il paese di origine di Sonia Gandhi, che quindi non dovrebbe essere eletta a nessuna carica pubblica da nessun indiano dabbene, di cosa o dove sia l'Italia hanno tutti un'idea fondamentalmente vaga. In altri paesi del Terzo Mondo può capitare di imbattersi in ragazzini che ti recitano compiaciuti le formazioni delle nostre principali squadre di calcio, ma qui il calcio non interessa davvero a nessuno e in Italia, si sa, non giochiamo a cricket. Per cui, niente.
Tuttavia, una notizia dall'Italia, in questi ventidue giorni, sono riuscito a trovarla. Era un trafiletto in una pagina interna del "Sunday Express" di Cochin, nel Kerala, giù in basso a sinistra lungo la splendida costa del Malabar. Nel numero del 28 gennaio, un'edizione dedicata praticamente tutta alle notizie del catastrofico terremoto del Gujarat, si poteva infatti leggere, sotto il titolo "Pat on the bottom is not sexual harassment" ("una pacca sul sedere non è una molestia sessuale") come a Rome, Italy, la "corte di appello suprema" (highest appeal court, che suppongo sia la Corte di Cassazione) avesse assolto il manager di "un'agenzia della salute pubblica dell'Italia del nord (?)" accusato di molestie da un'impiegata, considerando il gesto in questione soltanto un caso isolato e impulsivo.
In Italia, mi dicono, la sentenza ha suscitato polemiche e controversie, ma il "Sunday Express" non ne faceva cenno. Precisava soltanto che l'uomo "era stato riconosciuto colpevole da un tribunale di primo grado, che lo aveva condannato a 18 mesi di prigione e a una multa di 8 milioni di lire (pari a 3.800 dollari), ma la sentenza era stata rovesciata in appello." Otto righe senza commenti, un bell'esempio di giornalismo essenziale.
Bah. Non mi sono mai preoccupato particolarmente dell'immagine del nostro paese nel mondo, ma vi confesso che mi ha fatto una certa qual impressione pensare che per un miliardo di indiani, o almeno per gli abitanti del Kerala, che, toccando i trenta milioni, non sono poi così pochi, l'Italia sia soltanto il posto in cui, purché d'impulso e una volta tanto, è lecito rifilare una pacca sul sedere a una propria impiegata. Ma, in fondo, ho riflettuto poi, che cos'altro di noi gli potrebbe interessare? Le nostre incomprensibili distinzioni politiche o le futilità di una società tanto incerta come la nostra sui propri valori?
In India sui valori non si è affatto incerti: sulle questioni religiose e culturali, sull'antitesi tra tradizione e rinnovamento, ci si scontra con un'energia persino eccessiva e a volte con una violenza che non si penserebbe di incontrare nel paese del Mahatma. E per chi è quotidianamente coinvolto nella disputa esistenziale tra monoteismo e politeismo, capirete, le punture di spillo tra Berlusconi e Rutelli non possono interessare un granché. In compenso, il tema delle molestie sessuali (una piaga che affligge non poco, sembra, anche le donne indiane) gli interessa parecchio. E sfido: è uno dei tanti problemi tipici di una società patriarcale alle prese con la trasformazione dei ruoli maschili e femminili sul lavoro. Che è poi una descrizione della società indiana che potrebbe attagliarsi abbastanza bene alla nostra, perché con tutte le arie che ci diamo anche noi siamo abbastanza vicini al Terzo Mondo da credere a certe gerarchie e nel confidare su certi privilegi. Il che spiega come ci sia capitato di dare ai nostri fratelli indiani, una volta tanto che si sono interessati di noi, un cattivo esempio.

2. Bramini informatici

Vi dicevo prima della passione per l'elettronica che sembra pervadere il subcontinente indiano. In effetti, è una cosa abbastanza strabiliante. Chi viaggia in India non è mai sicuro di trovare un albergo, o un ristorante, o un negozio che rispondano agli standard qualitativi e igienici cui, a torto o a ragione, pensa di aver diritto, ma sulla possibilità di un collegamento Internet può sempre contare. Non c'è località rurale, per quanto remota, o realtà urbana, per quanto degradata, che non offra il suo "Computer center" o il suo "Internet café". Si tratterà, magari, di un buco incredibile, ricavato mediante precari tramezzi nello scheletro in cemento di un qualche edificio incompiuto o abbandonato e afflitto dagli effluvi di una fognatura a cielo aperto e dal ronzio di innumerevoli zanzare, ma sarà comunque provvisto di cinque, sei, sette apparecchi pronti ad assicurare, per quaranta rupie all'ora (poco meno di duemila lire), fulminei collegamenti ai patiti della navigazione in rete. Dappertutto incombe la pubblicità delle scuole di informatica e dei corsi di programmazione.
Gli annunci economici sui quotidiani non sembrano offrire e cercare nient'altro che esperti in questo campo: persino dalla lettura di quelli matrimoniali (che sono i più e, anzi, nell'edizione domenicale vengono raccolti in appositi, massicci supplementi) si evince che il sogno di ogni famiglia indiana con una o più figlie da maritare – perché lì sono ancora i genitori che cercano l'anima gemella per le loro creature – è rappresentato da un fidanzato di alta casta con un oroscopo favorevole e un diploma in software. Nessuno, apparentemente, sente alcuna contraddizione tra il sistema di valori inerente all'organizzazione per caste, che risale, com'è noto, a tremila anni fa e riflette delle necessità di organizzazione sociale che non sono esattamente quelle della moderna cultura industriale, e quello dell'informatica, che della moderna cultura industriale dovrebbe essere la figlia prediletta.
Ma forse quella contraddizione non ha grande importanza, se non agli occhi di qualche presuntuoso visitatore europeo. L'India, nonostante le palme e l'occasionale presenza di elefanti per strada, non è certo un paese esotico, nel senso che si dà comunemente al termine. È un paese moderno, dotato di solide strutture industriali e finanziarie e di un ritmo di crescita dell'economia che supera il 6% e dipende in gran parte – a quanto leggo – proprio dallo sviluppo dei settori tecnologicamente avanzati, che, potendo offrire personale molto qualificato a costi piuttosto bassi, attirano gli investimenti stranieri come mosche sul miele. Il fiorire degli "Internet café" in mezzo alle baraccopoli non rappresenta una sovrapposizione indebita, un dato pittorescamente paradossale, ma è la logica conseguenza di una scelta coerente di sviluppo economico. Sembra di poter presumere che chi quella scelta ha compiuto ritenga che, grazie a essa, presto o tardi le baraccopoli saranno eliminate una volta per tutte.

 

Più poveri, più ricchezza

Intanto, però, le baraccopoli restano. Il paese è moderno, ma è un paese moderno degradato. Gli edifici delle città non sono diversi dai nostri, ma, sarà il clima, sarà la povertà che rende impossibile la manutenzione, sarà qualcosa d'altro, sono tutti come corrosi, sbocconcellati, abbandonati al degrado prima ancora di essere terminati e, come si è visto a fine gennaio nel Gujarat, pur essendo in cemento armato, hanno una certa tendenza a venir giù come castelli di carte. Di fronte alle scuole di computeristica sono parcheggiate vecchie automobili modello anni '50 e i carri dei bufali, quelli con il timone fisso appoggiato alla gobba della povera bestia. Nelle risaie che circondano i colleges di informatica si semina con l'aratro a trazione animale (e l'animale in questione può benissimo essere un uomo, o una donna) e ci si spezza la schiena mietendo a mano con il falcetto corto. Insomma, si ha l'impressione che il paese, nella sua corsa verso il futuro, abbia fatto una specie di salto, che nel suo sviluppo si sia avuto come uno iato.
La modernizzazione, diciamo così, primaria, quella che avrebbe dovuto dare a tutti le case, l'acqua potabile, le fognature, i trattori e le mietitrebbia sembra essere stata abbandonata a mezza strada: i suoi provvisori manufatti sono stati lasciati andare in rovina e si presentano, infatti, come se avessero subito un bombardamento o una qualche catastrofe similare. Ed è su queste rovine che fiorisce la nuova "cultura" dei gadget elettronici, a dimostrazione di come il superfluo riesca sempre a far aggio sul necessario.
Queste, naturalmente, sono soltanto delle impressioni superficiali, quali può avere chi ha visitato una parte piccolissima di quella grande nazione e vi ci si è trattenuto soltanto tre settimane. Ma è noto che chi fa del turismo, se ha ben poche probabilità di imparare davvero qualcosa sul paese in cui viaggia, può sempre servirsi della possibilità di confronto per capire meglio il suo. E che il superfluo prevalga sul necessario, modello di sviluppo o non modello di sviluppo, non succede soltanto in India. Lì, come altrove, la nuova economia delle comunicazioni e dell'informazione automatica cresce a spese della miseria di chi da quel mondo è irrevocabilmente escluso. Per quanto possa sembrare strano, sono i contadini delle risaie, che vivono in capanne di fango con i tetti di foglie di palma intrecciata e arano e mietono con la sola energia delle loro braccia, quelli che finanziano, in sostanza, l'informatizzazione del paese.
Naturalmente, da noi – fatte le debite proporzioni – succede lo stesso, perché anche nel nostro Occidente la crescente povertà dei più supporta il crescente benessere dei pochi, ma laggiù, date le dimensioni sociali del fenomeno, il processo è molto più evidente. Un'economia che si alimenta della miseria degli esclusi, non può che dare il meglio di sé là dove gli esclusi sono di più e più sconvolgente è la loro miseria. Insomma, la molla dello sviluppo che il mondo contemporaneo ci propone è comunque rappresentata, nella ricca Europa come nell'Asia desolata, dall'ineguaglianza.
E se dal riconoscimento di questa realtà, in teoria, dovrebbe scaturire un qualche programma di azione comune, è ovvio che per arrivare a tanto ci vuole ben altro che un viaggio in India.

Carlo Oliva