Che l'equipaggio di un jet americano, vale a dire quattro
caratteriali giunti da un qualche villaggio del mid-west, possa festeggiare il
rientro in patria di uno di loro sfidando non solo le leggi della gravità,
ma soprattutto quelle del buon senso è una di quelle cose incomprensibili
ai più, che pur tuttavia succedono. Se si aggiunge la mancanza di rispetto
per il prossimo che caratterizza il militare di carriera e in particolare l'esercito
americano, specie quando si trova ad operare fuori dai propri confini, come pretendere
che top gun strafottenti e onnipotenti si preoccupino delle conseguenze delle
loro azioni? Pertanto, quando le bravate di quattro idioti arrivano a provocare
la tragedia del Cermis, nella quale muoiono 20 turisti, non si tratta di un caso
del destino, ma del tragico effetto di un comportamento profondamente colpevole
e criminale. E protetto per di più dall'impunità.
È di questi giorni la pubblicazione degli atti della commissione d'inchiesta
parlamentare sulla tragedia, e le sue conclusioni non fanno altro che confermare,
purtroppo, quanto già si era capito fin dal primo momento: e cioè
che nulla è imputabile al caso, ma solo ed esclusivamente alla temerarietà
e all'inosservanza delle regole dei piloti.
Una cittadina italiana residente negli Stati Uniti partecipa, una ventina di anni
orsono, alle attività di un gruppo rivoluzionario dedito ad espropri e
rapine per autofinanziarsi. Nel corso di uno scontro una guardia viene uccisa
da alcuni componenti del gruppo e la cittadina italiana poco dopo viene catturata.
Pur riconosciuta estranea ai fatti, è condannata all'ergastolo solo perché,
nel corso del processo, si rifiuta di fare la spia. Anni di feroce isolamento
carcerario, torture fisiche e morali, impossibilità di curarsi, di comunicare
con l'esterno, di leggere, di scrivere, di incontrare i propri cari: insomma un
trattamento che, se venisse riservato agli oppositori di un qualche capetto asiatico,
provocherebbe almeno due o tre guerre "umanitarie". Soltanto dopo anni
di mobilitazione internazionale e in seguito all'intervento del governo italiano,
sollecitato dalle proteste che tale barbarie ha suscitato in molteplici ambienti,
questa cittadina è rientrata in Italia per scontarvi il resto della pena.
Dietro l'umiliante e tassativo impegno, però, che il governo accettasse
a scatola chiusa le condizioni americane per l'estradizione e la detenzione.
Gendarmi
mondiali
La diversità di comportamento delle autorità americane rispetto
ai fatti cui ho accennato è talmente stridente e offensiva che non dovrebbe
nemmeno essere sottolineata: da una parte una "giustizia" inflessibile
e rigorosa, a tolleranza zero, che cerca vendetta e si permette di dettare le
proprie condizioni a uno stato che dovrebbe essere sovrano; dall'altra parte la
stessa "giustizia" che si dimostra comprensiva e praticamente assolve
i propri "ragazzi", impegnati a difendere la libertà del mondo
in una lontana provincia dell'impero, affermando in sostanza che quei quattro
bravi assassini intendevano solo divertirsi. E la commissione d'inchiesta del
parlamento italiano non trova di meglio che fingere di stupirsi della clemenza
della corte marziale, senza però fare commenti né pretendere spiegazioni!
Ma cosa si è riunita a fare, allora?
Ma, dopotutto, perché meravigliarci se i giudici americani ci impongono,
con le buone o con le cattive, le loro regole e le loro condizioni? Il loro modo
di amministrare la giustizia, infatti, è diventato esemplare e stranoto
in decenni di sceneggiati polizieschi e cronache giornalistiche. La cosiddetta
tolleranza zero, ad esempio, non è solo la filosofia di lavoro del sindaco
italoamericano di una grande metropoli, ma è diventata il sogno, il modello
irrinunciabile di schiere di scimmiottatori nostrani che non ne capiscono, o fingono
di non capirne, le potenzialità distruttive.
Vestiamo
all'americana
Del resto, la subordinazione all'America non deriva solo dalla sua forza economica
e militare, ma anche da un irreversibile processo di sottomissione intellettuale
che colpisce la maggioranza della popolazione del nostro continente. Non è
necessario ricordare l'emblematica scena di Un americano a Roma, quando
il trasteverino Sordi riconosce la propria atavica identità solo di fronte
a un piatto di spaghetti, per accorgersi di come si sia sedimentato il processo
di colonizzazione culturale imposto dall'America. Chi non ricorda, ad esempio,
che quando a milioni scendevamo in piazza per protestare contro l'intervento americano
nel Vietnam, indossavamo blue jeans made in Usa e cantavamo le canzoni di Bob
Dylan e Joan Baez? E che quanti criticavano il ruolo imperialista del capitalismo
d'oltre oceano sognavano, al tempo stesso, di far parte di una società
libera dalle pastoie del conformismo come quella americana?
Allora, comunque, esisteva una forma di pensiero critico, una specie di immunità,
che faceva capire la pericolosità di quel modello se non se ne denunciavano
anche le evidenti contraddizioni. Presto, però, le contraddizioni di quella
società al tempo stesso reazionaria e permissiva, si sono mutate in quelle
di una intera generazione che ha trasformato, tramite un processo metaforico di
cannibalismo, il precedente impegno antimperialista in un senso di colpa collettivo.
Illuminante quel coglione di Walter Veltroni, che sbandiera ai quattro venti il
proprio amore per Topolino e per Kennedy mentre anni fa, dirigente della Fgci,
incitava i compagni a denunciare i "crimini dell'imperialismo americano"?
Oggi contrastare l'ingombrante presenza americana sembra un esercizio sorpassato
se non, addirittura, imperdonabile. Eppure, riaffermare la pari dignità
di tutti i popoli e di tutti i paesi, ribadire l'illegittimità delle pressioni
e delle violenze che caratterizzano l'egemonia americana, rifiutarsi di portare
il cervello all'ammasso del mito americano, non sono affatto esercizi stilistici.
I debiti che abbiamo con gli Stati Uniti sono grandi, soprattutto perché
la dinamicità intellettuale e tecnologica che essi sono in grado di esprimere
ha un potere di convincimento al quale è difficile sottrarsi. Molte delle
innovazioni in quasi tutti i campi partono da scoperte e intuizioni nate in America
e molti degli indicatori della qualità della nostra vita migliorano grazie
all'apporto del know-how americano. La socializzazione del loro standard,
inoltre, non deriva solo dalla volontà di affermare una supremazia e un
monopolio sul pensiero occidentale, ma trova una ragione anche nell'inconscio
desiderio di scambio paritario che è tipico del loro pionieristico e libertario
modo di pensare. Detto questo, resta che l'enorme divario, tecnologico ed economico,
che caratterizza i rapporti degli Usa con l'Europa per non parlare coi
paesi terzi fa sì che allo scambio si sostituiscano irrimediabilmente
la rapina e la sopraffazione. E venuto meno l'unico motivo per cui queste pratiche
potevano trovare qualche giustificazione, cioè la funzione di ammortizzatori
dell'imperialismo sovietico, diventa sempre più umiliante e dannoso tollerarne
la prepotente violenza.
A
parte Pearl Harbour
Gli Usa sono l'unico paese occidentale che non ha mai subito bombardamenti.
Solo i giapponesi ci provarono attaccando la base navale di Pearl Harbour, nelle
Hawaii, e quel lontano episodio rappresenta, nell'identità collettiva del
popolo americano, non solo un motivo di vergogna, ma anche un punto di non ritorno
riguardo al modo di relazionarsi con il mondo. Dopo quel bombardamento, che non
fu affatto diverso dai tanti che si verificavano quotidianamente in Europa, si
è formata una mentalità aggressiva, tipica della bestia ferita,
che ha trasformato il tradizionale e neghittoso isolazionismo americano in volontà
di potenza e aggressione. Da allora l'esercito statunitense è intervenuto
in innumerevoli scenari di guerra, dispiegando una forza distruttiva spesso sproporzionata
rispetto agli obiettivi. Durante la seconda guerra mondiale l'aviazione americana
ha distrutto, con feroce brutalità, le città di mezza Europa e solo
dopo l'allucinante distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki gli aerei americani
sono tornati provvisoriamente alle basi. Per ripartire, puntualmente, ogni volta
che si vedeva una minaccia, anche minima, alla propria sicurezza. E infatti questi
ultimi cinquant'anni ci hanno regalato i bombardamenti di Panama, di Grenada,
della Somalia, del Nicaragua, dell'Iraq, del Vietnam, del Laos, della Cambogia,
della Serbia, della Corea, della Libia
L'aspetto più sconcertante comunque è che gli americani cercano
sempre di coinvolgere altri paesi, spacciando i propri scopi come espressione
dell'interesse collettivo e della difesa della libertà comune. È
fuor di dubbio, ad esempio, che anche l'Inghilterra, la Germania, l'Italia, scendendo
in campo a fianco dell'America nelle guerre contro Iraq e Serbia, abbiano pensato
di tutelare i rispettivi interessi economici e strategici. Ma nessuno può
credere che senza le direttive americane i paesi europei avrebbero preso l'iniziativa
di combattere a difesa degli emiri del Kuwait o del popolo kosovaro. Eppure, nonostante
forti pressioni interne contrarie all'intervento, i governi europei (ad eccezione
forse di quello inglese, più realista del re) hanno ubbidito con esemplare
disciplina agli ordini del Pentagono. Del resto, il padrone non esiste se non
ha un servo cui comandare!
Il popolo americano vive nella ferma convinzione di possedere il migliore sistema
di valori, il migliore sistema politico, la migliore espressione delle libertà
democratiche. Neppure le recenti vicende elettorali, che hanno spinto il governo
libico a chiedere spiritosamente che venissero mandati osservatori internazionali
per controllare la regolarità del voto, hanno scalfito questa certezza.
Del resto, è da tale convinzione che nasce l'arrogante rifiuto, non solo
di mettere in discussione i propri modelli, ma addirittura di compararli con qualcosa
di diverso. Ed è in nome della pretesa universalità dell'american
way of life, della necessità di difenderla da qualsiasi minaccia e
promuoverla a livello planetario, che tutto diventa accettabile e giustificabile:
lo strapotere delle multinazionali, la commercializzazione degli Ogm, le guerre
"umanitarie", l'espropriazione delle ricchezze dei paesi poveri, le
trame della Cia, i golpe in Africa, Asia e Sud America, gli embarghi ai paesi
"nemici", l'utilizzo dei proiettili all'uranio, la sterilizzazione forzata
delle donne andine negli anni sessanta e il taglio ai contributi federali per
il controllo delle nascite della nuova amministrazione Bush, ecc. ecc.
L'attrazione
per il lettino
Poiché niente deve mettere in pericolo la solidità e l'intangibilità
del sistema, tutte le efferatezze e le infamie necessarie a garantire la "tranquillità"
del popolo americano entrano a far parte di un universo morale di cui solo esso
detiene il controllo. Un ingombrante superego collettivo, che ben spiega l'attrazione
degli americani per il lettino dello psicanalista, si manifesta attraverso un
processo di auto considerazione che esclude dal proprio universo etico e morale
qualsiasi altra opzione. Tutto diventa permesso perché il "nobile"
fine di preservare la Libertà consente che a questa si sacrifichino le
piccole libertà degli altri popoli. E, con le libertà, le risorse,
le culture, le tradizioni, gli interessi
la vita stessa, insomma. Forse
è fuori moda fare ancora, dopo tanti anni, queste considerazioni, ma è
questo l'imperialismo, ragazzi, questo e nient'altro!
Massimo Ortalli
P.S. La United Fruit è quella multinazionale che negli
anni sessanta finanziò qualche decina di sanguinosi colpi di stato in America
Latina. Oggi le sue banane, le famose Chiquita col bollino blu, si trovano in
cattive acque e la compagnia deve fronteggiare perdite di svariati miliardi di
dollari. È bastato che l'Europa decidesse di privilegiare le più
gustose banane africane e antillane, ed ecco!, il bollino blu rischia di scomparire.
Chissà!?
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