Chi non vota si preclude la possibilità di scegliere.
Chi si astiene è un irresponsabile che si disinteressa del bene comune.
Se non ci vai, vinceranno le destre. Il voto è espressione di libertà.
Quante volte vi sarà capitato di sentire considerazioni come queste in
prossimità di una consultazione elettorale? Quante volte chi, come me,
a votare non è mai andata si è sentita dire che quella del non voto
non era una scelta, ma un semplice tirarsi fuori dalla mischia, una fuga dall'agone
politico, un'autoesclusione elitaria ed ineffettuale? Anche all'interno della
sinistra più estrema, costituzionalmente extraparlamentare, le ragioni
dell'astensionismo anarchico sono spesso state mal capite o, comunque, rifiutate.
L'astensionismo per la maggior parte di questa sinistra di matrice autoritaria
era, ed è tuttora, considerato una scelta tattica, una forma di pressione
nei confronti delle "mollezze" e dei "cedimenti" della sinistra
parlamentare, ieri del PCI, oggi dei suoi numerosi eredi. Sebbene negli ultimi
anni il sistema elettorale maggioritario abbia eliso le sfumature, trasformando
le sfide elettorali in scontri tra grandi, anche se eterogenee, coalizioni, tuttavia
il quadro non è mutato granché.
L'estendersi sempre più marcato dell'area del non voto non è infatti
indicativo di un diverso atteggiamento nei confronti dei meccanismi democratici
ma segnala, al più, un progressivo estenuarsi della passione civile, una
vieppiù netta disaffezione nei confronti della cosa pubblica, che fa da
contrappunto alla sostanziale specularità dei due grandi schieramenti,
al loro appiattirsi gli uni sugli altri. Giocata interamente attraverso i moduli
tipici della pubblicità mostra in modo del tutto efficace l'esaurimento
delle tensioni ideali ed il ridursi della politica ad un mercato in cui vince
chi meglio vende la propria immagine, indipendentemente da programmi e proposte
che appaiono sempre più fumosi, impalpabili, interscambiabili.
Un paradosso dalle
radici profonde
Eppure, nonostante il gioco democratico oggi si mostri nella poco plausibile
veste dell'operetta tragicomica, il mito democratico resiste, tenace. La compravendita
delle poltrone, il farsi e disfarsi repentino di alleanze, partiti, coalizioni,
i faccioni insolenti dei candidati che ammiccano dai muri tra cartelloni che vendono
bibite, hamburger e detersivi basterebbero, da soli, a persuadere chiunque dell'opportunità
di astenersi dal partecipare a questa risibile sceneggiata. Eppure, specie a sinistra,
c'è chi continua a credere nelle virtù salvifiche della democrazia.
Più la democrazia stessa pone in atto gli elementi cardine della propria
delegittimazione più tanti tra i critici dell'assetto politico e sociale
dominante si ancorano alla democrazia come valore. È un paradosso dalle
radici profonde. Dopo la fine del mondo bipolare, segnata emblematicamente dal
crollo del muro di Berlino, la democrazia (ed il capitalismo) hanno celebrato
la propria vittoria. Il futuro, dopo l'89, ha assunto le sembianze di un grande
supermarket in cui le merci e le idee potevano venire "liberamente"
scambiate. Inutile dire che il gioco è truccato perché solo una
minoranza del pianeta possiede la fiche per partecipare; superfluo sottolineare
che, anche, giocando, la partita porta guadagni soprattutto al banco. È
un fatto notorio, universalmente conosciuto e riconosciuto ma, dai più,
considerato ineluttabile. In questa prospettiva prevale l'opinione che questo
non sia il migliore dei mondi possibili, ma semplicemente il meno peggiore, se
non, spesso, l'unico possibile. Persino i movimenti più radicali dell'ultimo
scorcio del secolo e dell'alba di quello nuovo paiono confermare l'imporsi senza
apparente via d'uscita di un mondo ad una dimensione, le cui coordinate sono tracciate
dal mercato di beni e servizi e da quello delle idee. Dal capitalismo e dalla
democrazia. Anzi, per meglio dire, da un megastore ove i confini tra i due ambiti
divengono sempre più sfumati, quasi inintelligibili.
Buona parte del cosiddetto "popolo di Seattle" non annovera tra le proprie
fila fautori della rivoluzione sociale, sostenitori dell'autogoverno, propugnatori
dell'autogestione, ma, banalmente, onesti democratici. Bravi ragazzi convinti
che sia sufficiente "democratizzare" organismi quali la Banca Mondiale
o l'Organizzazione Mondiale del Commercio per porre le basi di un mondo più
giusto, per ridurre la diseguaglianza, per garantire a tutti accesso alle risorse,
al sapere, alla possibilità di decidere. In una parola la democrazia come
panacea per realizzare un capitalismo dal volto umano, per far sì che questo
mondo, l'unico mondo possibile, sia una po' migliore. Lo slogan più diffuso
da qualche mese a questa parte "un altro mondo è possibile" allude
alla riformabilità dell'esistente non certo alla concreta prospettiva di
una sovversione radicale.
Appetito insaziabile
Accade così che mentre la democrazia reale si va sempre più riducendo
a scheletro senza carne, né sangue, né linfa vitale, il mito democratico
riprende fiato, divenendo ancora l'orizzonte ideale di riferimento. Non è
certo un caso che un partito come Rifondazione, dopo aver a lungo guardato con
diffidenza ai movimenti di controglobalizzazione, oggi tenti di cavalcarli, sia
partecipandovi, sia, soprattutto, offrendo tutela e rappresentanza istituzionale
alle aree più moderate, dai lillipuziani alle tute bianche, dall'associazionismo
cattolico all'ambientalismo.
Spezzare il circolo vizioso che si dipana intorno al mito democratico è
quindi tutt'altro che facile, nonostante in questi mesi i vari Berlusconi e Rutelli
ci stiano dando, del tutto involontariamente, un bell'aiuto. Mi è capitato
di discutere con un compagno che proponeva di distribuire un volantino astensionista
facendo una sorta di decalogo delle ragioni del non voto. A mio parere il miglior
volantino astensionista è quello in cui la questione del voto non viene
neppure menzionata. L'astensione non è una pratica anarchica ma solo l'ovvio
corollario dell'agire politico e sociale degli anarchici, che si sostanzia nel
perseguimento di forme di autogoverno, di autogestione, di autonomia progettuale
e culturale.
Noi sappiamo che la democrazia, lungi dall'essere la via d'accesso alla partecipazione,
alla scelta, alla libertà, ne è la negazione: ma il sapore della
libertà, una volta gustato, mette un appetito insaziabile.
Maria
Matteo
nostre
copertine degli anni '70



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