Rivista Anarchica Online


La resistenza del male

 

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a cura di Carlo E. Menga

Il male esiste. Concedetemi questa scarsamente scientifica dichiarazione. Il male fa la pubblicità a sé stesso. Ma, contrariamente alle altre forme di pubblicità, quella del male non serve a mettersi in mostra: serve a nascondersi. Il male non è il dolore che esplode fragorosamente attirando lo sguardo di tutti: il male è l’inosservata lettera nascosta, introvabile perché perennemente sotto il nostro naso. Fa parte del paesaggio, ci abbiamo fatto l’abitudine, non lo smaschereremo mai, finché un Dupin non ci avverta, non ci faccia dirigere l’attenzione sulle piccole percezioni che non ci disturbano giacché sono integrate, dalla nostra pigra ed egoista coscienza di quadrupede sceso dagli alberi nella savana, nel naturale dinamismo dell’ambiente circostante. Non è l’adrenalina, l’arma chimica del male: è la morfina. Il male compie stragi e abbatte le torri gemelle del World Trade Center di New York. Ma non lo fa per combattere guerra o dichiarare la sua vittoria. Non è lì che il male combatte la sua guerra; non è lì che il male dichiarerà la sua vittoria. Il male non è una questione di quantità, ma di qualità. Mille morti pesano sulla bilancia del male quanto un gatto schiacciato sull’autostrada; una città deturpata da un terremoto vale quanto un tumore al pancreas, nella partita doppia della sua contabilità; una guerra civile, quanto un neonato abbandonato in un cassonetto; la minaccia di un’arma, quanto il ricatto del ricco nei confronti del povero; la prosperità dell’empio, quanto le piaghe del giusto. Il terrorismo, l’Olocausto, le Crociate, le invasioni barbariche, sono soltanto pubblicità. Pubblicità dissimulante. Pubblicità affidata a quel fantastico spot che è il mondo, a quello spettacolare mezzo che è l’umanità. Allora, dove si cela il male? Nella macchia, sulla montagna, come i partigiani; nelle piccole cose buone che ci lavano la coscienza.
In questi giorni ho avuto modo di ascoltare spesso la radio, e accanto alle notizie di terrore, di guerra e di rappresaglia, ho ascoltato anche quella che proclamava l’inizio di “Trenta ore per la vita”, condotto da Lorella Cuccarini. Avete mai pensato a cosa succede durante manifestazioni di questo tipo, e in generale facendo beneficenza? Molte persone di buon cuore e di buona volontà offrono denaro per finanziare la ricerca sul cancro, o per mandare medicinali ai bambini africani, ecc. Ma vi siete mai chiesti come funziona la cosa? Sembra, ed è, scontato. Le mie cinquemila lire servono per acquistare una scatola di fiale di antibiotico che cureranno un malato. E così sembrano cinquemila lire sante. Ma quel denaro andrà nelle tasche dell’industria farmaceutica che produce le fiale, producendo un guadagno, poiché di San Francesco ce n’è uno solo, e poiché il valore di un prodotto è uguale al lavoro impiegato per produrlo: il resto è plusvalore. Ed ecco il nido del male: ecco un produttore che si nutre, agghiacciante vampiro, del virus Ebola, della leucemia, della broncopolmonite, della fame…
Direte voi: ma se facessimo pagare le fiale quanto valgono in realtà (cioè cinquecento lire), o peggio ancora: se le dessimo via gratis, di che pane si nutrirebbero quei lavoratori che producono le fiale, quei ricercatori che sintetizzano l’antibiotico, ecc.? Bella domanda. Come evitare i terremoti? Come ricucire la faglia di San Antonio? Come guarire da un glioblastoma puntiforme, dottor Green? Come nascere con solo due cromosomi 21? Come riconoscere il serial killer? Come impedire il deragliamento del treno? Come evitare quei fari abbaglianti che acciecano le mie pupille sensibili (miao!) e mi bloccano approfittando del mio istinto? Come lenire le piaghe di Giobbe?
Eccolo lì, il male: dietro il denaro, dietro la beneficienza, dietro il lavoro, dietro la natura, dietro il mercato, dietro la vulnerabilità e la mortalità dell’essere vivente. Residuo irriducibile della relazione sociale, compravendita di sangue, scambio di potere, fraintendimento di risorse. Ma noi ci riempiamo il cuore di obbrobrio davanti a un aereo impazzito che sfonda un grattacielo, e intanto accarezziamo con compiacimento ed endorfinica commozione la siringa che regaliamo al malato, senza renderci conto che quella nostra mano tocca il cuore pulsante della strage, rovista fra gli intestini nudi del disastro, scompiglia i capelli polverosi di cinquemila vittime delle mie cinquemila lire.

Carlo E. Menga