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La scrittura “proletaria” di Leda Rafanelli

Attiva militante nel vivacissimo ambiente dell’anarchismo milanese d’inizio novecento, personaggio estroverso e anomalo perfino nel variegato milieu libertario che incarnava l’anima sovversiva e trasgressiva della capitale lombarda, provocatoriamente ma sinceramente musulmana, zingara nei costumi e brava chiromante, attiva militante nelle lotte sociali e sindacali delle fabbriche milanesi, propagandista indefessa dell’antimilitarismo, capace di comunicare con identica e spontanea immediatezza con i proletari di fabbrica e con gli intellettuali cultori di Stirner e Nietzsche, teorica e praticante del libero amore, audace femminista ante litteram, intellettuale autodidatta e spirito individualista, Leda Rafanelli (Pistoia 1880 - Genova 1971) fu, come ben si comprende, una delle figure più singolari e rappresentative della cultura “proletaria” del primo novecento.
Scrittrice feconda, propagandista instancabile, abile polemista, narratrice di deliziose storie per l’infanzia e di esotici racconti per intelligenze curiose, tutta la sua produzione letteraria fu animata dalla volontà di diffondere quelle forti idee, quei robusti ideali di liberazione materiale e spirituale che le teorie socialiste e anarchiche andavano affermando, sempre più estesamente, nei campi e nelle officine di una Italia in completa trasformazione. Ostinatamente tollerante, “laica” affermatrice dell’unità dei diversi socialismi che si confrontavano sulla scena politica, disponibile alla collaborazione con tutti i “partiti della libertà”, attribuì sempre ai suoi romanzi una forte funzione pedagogica, individuando nei ceti popolari, prede della copiosa letteratura feuelleittonistica borghese, i naturali referenti di un messaggio portatore di contenuti esemplari.
Ed è di un romanzo esemplare che diamo saggio questo mese. Esemplare nel senso più pieno, perché tale fu e volle essere L’eroe della folla (Milano, Libreria Editrice Sociale, 1910. Prima ed.), che l’autrice dette una prima volta alle stampe nel 1910. Un romanzo anarchico, compiuto e maturo, nel quale lo spirito libertario e le idee di emancipazione sociale accompagnano, passo dopo passo, le vicende del protagonista Lorenzo.
Leda Rafanelli, consapevole della funzione educativa e formativa dei suoi scritti, si fa particolarmente attenta, nella forma e nella struttura narrativa per nulla estetizzanti del suo romanzo, alle esigenze di un pubblico poco “colto”, ma non per questo meno esigente. Di un pubblico che è espressione del mondo del lavoro, concretamente e prosaicamente impegnato nella lotta quotidiana contro lo sfruttamento anche culturale, e che vede nella lettura un prezioso strumento di ascesa sociale. La trama, che qui deve essere riassunta per grandi linee, ne è la più evidente dimostrazione.
Lorenzo, figlio di ignoti, viene adottato da un’anziana coppia di contadini, che lo avviano al lavoro dei campi. Quasi simbolo della trasformazione in atto da economia rurale a economia industriale, anche lui abbandona il mestiere di contadino per andare garzone, assieme ad altri due giovani, presso il fabbro Matteo, l’unico spirito libero e anticlericale nella retriva e perbenista cittadina in cui vive. Alla improvvisa morte del fabbro, i tre giovani, rispettandone le ultime volontà, lo seppelliscono in forma civile, fra il disprezzo e l’ostracismo di benpensanti, preti e beghine e la soddisfazione degli avidi parenti, sollevati nel vedere che i tre giovani nulla rivendicano se non gli strumenti di lavoro.
Dopo una cocente delusione amorosa, Lorenzo viene richiamato alle armi, ma rimane sconcertato nel vedere come gli altri coscritti siano fieri di far parte del reggimento. Ben presto la sua irrequieta insofferenza lo destina a una compagnia di disciplina, dove finalmente incontra altri giovani ribelli come lui. Scontato un anno di carcere militare, rientra in paese e alla morte del padre adottivo parte per raggiungere Milano. E qui diventa particolarmente interessante vedere come la Rafanelli intuisca la modernità della nascente metropoli, colta non solo nella sua stimolante animazione, ma anche nel disumanizzante affaccendarsi per produrre, lavorare e arricchirsi. Durante il percorso, Lorenzo soccorre il vecchio girovago Marco, antico internazionalista e padre dell’anarchico Comunardo, ora rinchiuso in prigione. Coi pochi risparmi offre il biglietto del treno al vecchio Marco, al quale si ricongiungerà una volta raggiunta a piedi Milano. Qui conosce Comunardo che, appena uscito dal carcere, torna a dedicare tutto se stesso all’impegno rivoluzionario e alla propaganda anarchica. In una intensa stagione di scioperi anche Lorenzo, il cui istintivo anarchismo è maturato in coscienza sociale, si butta nella lotta, entrando a far parte a pieno titolo di quel proletariato di fabbrica che sempre più diviene cosciente protagonista di un percorso di emancipazione collettiva.
Due eroi della folla, dunque, due ritratti in piedi. Il proletario Lorenzo che in un sofferto percorso di proletaria educazione sentimentale acquisisce la consapevolezza della propria figura sociale, e il rivoluzionario Comunardo, l’eroe del titolo, che sa trasfondere la sua funzione individuale di avanguardia nella classe che rappresenta e per la quale lotta.
Accanto alle vicende individuali, diventano protagoniste del romanzo, quasi si trattasse di un saggio sociologico, anche le trasformazioni sociali e culturali che percorrono l’Italia all’inizio del novecento. Infatti, nella progressiva maturazione di Lorenzo, condotto per mano dai maestri incontrati nel cammino, compare la metafora dello sviluppo del proletariato industriale che, muovendo dalle campagne arretrate, diventa classe organizzata e autonoma. Il notevole successo del romanzo, forse il più bello e “militante” della Rafanelli, (in quindici anni, fra il 1910 e il 1925 ne escono tre edizioni) è probabilmente dovuto al fatto che il giovane e proletario lettore cui l’autrice si rivolge opera una sorta di identificazione con la propria personale esperienza che, nel passaggio da individuale a collettiva, riproduce il fenomeno di massa che mutò il panorama sociale del secolo. Non va dimenticato, però, che Leda è anarchica, e che quindi non può non attribuire alla volontà del singolo, pur nel corso di queste trasformazioni ineluttabili, il fattore determinante di ogni processo evolutivo. La presa di coscienza è anche e soprattutto un atto di forte volontà, un atto sofferto e difficile, che in quanto tale assume maggiore valore e dignità.
In molti articoli, nei nostri giornali o in riviste specializzate, si è parlato di Leda Rafanelli, e questo non sorprende, perché tuttora il suo fascino riesce ad ammaliare compagni e studiosi. Di particolare interesse l’introduzione di Pier Carlo Masini al famoso Una donna e Mussolini nella edizione Rizzoli del 1975, l’opera autobiografica nella quale Leda Rafanelli descrive gli anni della giovinezza e la conoscenza con l’ex direttore del “L’Avanti!”; l’articolo a più mani apparso su “Donna Woman Femme”, (1986, n. 3), Leda Rafanelli: un’anarchica femminista e rivoluzionaria eccezionale; la bibliografia curata da Franco Schirone pubblicata nel 1992 dall’Archivio Proletario Internazionale di Milano. Voglio qui segnalare, però, in modo particolare, un singolare, stimolante libro appena pubblicato (Mattia Granata, Lettere d’amore e d’amicizia. La corrispondenza di Leda Rafanelli, Carlo Molaschi e Maria Rossi. Per una lettura dell’anarchismo milanese 1913-1919, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2003), nel quale l’autore, allievo di Maurizio Antonioli (al quale, con Franco Schirone, va il merito di aver ridato attualità alla figura di Leda Rafanelli) riporta la fitta corrispondenza fra tre dei principali protagonisti dell’anarchismo milanese dei primi decenni del novecento. Si tratta, come dice il titolo, di lettere d’amore e d’amicizia, che ci consentono, forse meglio di quanto potrebbe fare una biografia, di comprendere le personalità, gli umori, le idee e gli ideali di quello straordinario periodo di fervore culturale del movimento libertario milanese. Dall’introduzione di Granata e da questa corrispondenza riprendo alcuni brani. Per la biografia più completa rimando alla scheda compilata da Enzo Santarelli, nel quarto volume di F. Andreucci – T. Detti, Il Movimento Operaio Italiano. Dizionario Biografico, Roma, Editori Riuniti, 1978.
Termino citando il saluto che nel 1971, una settimana prima di morire, Leda mandò, dalle colonne de “L’Internazionale” al nostro movimento: “Leda Rafanelli, partendo per sempre, saluta tutti i compagni. Viva l’anarchia”.

Massimo Ortalli

 

Scannarsi senza
saperne il perché

di Leda Rafanelli

(…). Lo avevano incorporato in un reggimento di genio, e si sarebbe anche adattato a quel lavoro se avesse potuto dimenticare lo scopo segreto pel quale quel lavoro veniva fatto. Ché se scavavano sotterranei o alzavano muraglie, se costruivano ponti o trincee – lo scopo segreto era sempre uno, opprimente e tremendo, se pur non si sarebbe affermato presto: la guerra.
Durante le grosse manovre la sua nervosità si accentuò in quelle ridicole guerriglie contro un nemico inesistente. Lorenzo che si sentiva entusiasticamente internazionalista – che riconosceva come la bellezza e la grandezza rappresentata da eletti individui d’ogni popolo racchiuda una forza di fratellanza umana che nessuna guerra potrà mai soffocare, – si sentiva disgustato da tutta quella commedia e non dissimulava la sua derisione per le vittorie dei bianchi o degli azzurri.
Ed era tutto lì lo scopo del militarismo! Due squadre dello stesso popolo fingevano ora di battersi, ma che forse, in guerra non ci sarebbe suppergiù lo stesso? Sarebbero sempre stati i figli del popolo a battersi, a uccidersi, a scannarsi senza saperne il perché, senza conoscere il movente degli odi, dando il frutto del lavoro, dando la tranquillità delle loro famiglie, la fecondità della terra, la gioventù dei figli, la libertà del pensiero e dell’azione, e infine la vita, solo perché a due capi di governo, (che non si sarebbero mossi dalle loro regge!) veniva in mente di litigare o di rubarsi l’un con l’altro una città, una regione; o pur di andare a razziare in libere terre, sottomettendo ad un giogo odioso, popoli sani, incivili, felici, come quando era ragazzo era avvenuto per la Somalia e l’Abissinia.
(…). Ma ora il tempo è passato e io vado a Milano per rivedere il mio figliuolo!
– Dove è?
– È in carcere... sono tre anni tra venti giorni che è là chiuso e isolato !... E io ho sofferto per me e per lui, e non so come ho potuto vivere tanto senza di lui... Non ho che lui... È stata la speranza di rivederlo che mi ha sorretto...
– In prigione! – ripeté Lorenzo pensando che pure lui ci aveva passato un anno. – E, scusate... per quale motivo...
– Oh! non pensate male di lui nemmeno per un istante, Lorenzo ! Cornunardo mio è il più buono, il più onesto dei giovani che vivono sulla terra! Ma egli professa un’idea che ai potenti incute terrore, è il figlio della folla che dalla folla, in un periodo di rivolta, può emergere come un eroe. Perché egli si è dato tutto a un’idea, egli vive solo per la sua idea. E poi che scriveva, parlava, propagava fra la folla dei miseri la sua idealità superiore, poi che aveva preso la responsabilità di un giornale che quelle sue idee diffondeva, me lo hanno arrestato tre anni addietro, e condannato al massimo della pena... E io, in questi anni ho potuto rivederlo, a traverso le sbarre per sole tre volte...
– Dunque, vostro figlio... – interrogò ancora Lorenzo vibrante di aspettazione...
– Sì, giovanotto mio, non vi spaventate... Il mio Comunardo è anarchico...
– Ma sono anarchico anch’io ! – esclamò Lorenzo mentre il cuore gli batteva forte e le guance gli si colorivano di gioia... – sono un compagno del vostro figliuolo...
Egli si diceva anarchico per la prima volta; non conosceva a fondo le teorie, né il loro metodo di azione. Ma il chiamarsi anarchico, in quel momento gli dava una tale ebbrezza che se avesse dovuto provare ai nuovi compagni la sua fede avrebbe offerto la vita per qualsiasi prova.
(…). Così pensando Lorenzo sentiva nascere in sé la speranza e la forza. Non più dagli uomini avrebbe atteso la libertà e la gioia, ma lui, lui stesso, la libertà e la gioia avrebbe bandito alzando una bandiera di consapevole ribellione contro il male, contro la schiavitù, contro ogni viltà. E tutto questo senza speranza di guadagno o di premio, senza soddisfazioni ambiziose, senza scopi segreti. Così, perché era anarchico, perché dopo tante incertezze, tante prove, tante debolezze, aveva trovato la sua via.
Via libera e vasta, ché l’anarchico ha per patria il mondo, e non ammette limiti alla su attività, non si crea leggi da osservare, non si traccia rotaie da seguire. È libero di terrorizzare il mondo con la dinamite o di passare la sua giovinezza leggendo opere di filosofia negatrice. Può, cercare il suo posto tra la folla, incitarla, elevarla, spronarla verso la sua meta lontana, o andare a vivere da primitivo in un vuoto eremo. Perché in ognuna di queste manifestazioni l’anarchico resta lui stesso servo e padrone di sé stesso, cercando rubare alla vita più gioia o più dolore che gli è possibile. A seconda di quale emozione la sua anima chiede. Lo schianto o il silenzio. La luce della cultura che dà, quanto più si studia, nuovo desiderio di sapere, o la volontaria ignoranza che sdegna lo studio; la spensierata oziosa vita del nomade o la severa disciplina dello scienziato. Tutto per vivere la nostra vita – perché l’anarchico, – della vita – è un poco il corsaro, e come il corsaro batte bandiera nera.

Brani tratti da: Leda Rafanelli, L’eroe della folla, Milano, Casa Editrice Sociale, 1925.

 

Giovani proletari
formatisi da autodidatti
di Mattia Granata

Furono proprio questi tre nomi a rappresentare la punta più avanzata di quella particolare corrente del movimento anarchico italiano che è stata definita “anarcoindividualista” e che si sviluppò, dopo una prima fase, a Milano.
Conviene innanzi tutto specificare che non si può affermare che:

L’anarchismo milanese non avesse profondi addentellati con il mondo operaio e fosse riconducibile, come volevano gli avversari, ad un fenomeno piccoloborghese [poiché] al contrario, era proprio l’elemento operaio a costituire la parte sommersa del piccolo iceberg anarchico (metallurgici, edili, lavoranti panettieri, calzolai, tipografi) [...] erano quegli strati proletari estranei alla logica del riformismo socialista e molto più radicali degli stessi rivoluzionari del PSI, spesso non organizzati e di fatto inorganizzabili dalle leghe di resistenza, molto più aperti alle sollecitazioni di una “azione diretta” praticata di quanto non lo fossero i primi teorici del sindacalismo rivoluzionario nostrano.

La proclamata estraneità degli elementi di questa parte ad una condizione definibile come “borghese”, o “piccolo borghese”, del resto, e come si vedrà in seguito per i personaggi di cui qui si tratta, è scritta e riscontrabile nelle loro biografie di giovani proletari avviati fin dall’infanzia al lavoro e formatisi intellettualmente da autodidatti.
La nascita della corrente definibile come anarcoindividualista va fatta coincidere con la nascita della rivista “Vir”, pubblicata a Firenze tra il luglio del 1907 e il marzo del 1908 ad opera di Giuseppe Monanni, il quale si fece portatore e interprete delle teorie nietzchiane e stirneriane rielaborate a uso del movimento anarchico italiano. Il trasferimento a Milano di Monanni e di Leda Rafanelli, sua compagna di allora, e la loro partecipazione alla rivista “La Protesta umana” (1906 – 1909), edita da Ettore Molinari e da Nella Giacomelli, diede il via in questa città a una successiva evoluzione di questa corrente, frutto dell’incontro fra diverse tendenze culturali, artistiche, letterarie. Furono, infatti, questi due personaggi, esaurita l’esperienza de “La Protesta umana”, a impegnarsi nella pubblicazioni di riviste quali “Sciarpa nera” (apr. 1909 – ago. 1910), naturale continuazione dell’esperienza del “Vir”, “La Questione sociale” (set. – ott. 1909), “La Rivolta” (gen. – ago. 1910) e “La Libertà” (1913 – 1915).
Dal 1909, poi, parallelamente all’opera pubblicistica, essi fondarono prima la Società editrice milanese, con sede a Sesto S. Giovanni, poi la Libreria editrice sociale, in Via S. Vito, al Carrobbio conducendo, per lungo tempo, un’importante attività editoriale e producendo, tra le altre, le opere del Nietzsche, L’Unico, di Max Stirner e gli scritti e i numerosi opuscoli propagandistici di successo – antimilitaristi, contro la scuola, in difesa dei lavoratori –, che proprio Leda Rafanelli componeva in questo periodo.
Fu in questa feconda temperie culturale che si formarono e agirono i militanti più attivi nell’ambito dell’individualismo milanese e, soprattutto, a partire dall’esperienza de “La Libertà” attorno a cui si coagulò questo nuovo nucleo che cominciò ad operare attivamente soprattutto nella fase immediatamente antecedente alla guerra.
L’anarcoindividualismo che dal “Vir” prese le mosse, che si rifaceva ai nomi di Stirner e di Nietzsche, che andava focalizzando la sua attenzione sull’uomo – più che sulle masse –, sulla sua libertà e sulla sua aspirazione al meglio, veniva così conosciuto da questi giovani andando a costituire il loro bagaglio culturale. Il tramite di questo passaggio, oltre e più che il Monanni, fu Leda Rafanelli. Ciò fu possibile, in particolare, grazie all’amicizia che nacque tra lei e Carlo Molaschi, punto di riferimento per alcuni dei più giovani militanti.

 

 

Lettera
a Carlo Molaschi
di Leda Rafanelli

5 settembre 1915 (1)
Ho avuto stamani, come già sai, la tua lettera e la tua cartolina. Alla lettera però non risponderò in questa preziosa pagina, dove ti rivelo – purtroppo con caratteri latini e non egizi come vorrei – qualche cosa, ancora più preziosa, della mia anima.
Della lettera parleremo. Solo ti ripeto che della tua infedeltà di amico mi offesi solo per me stessa.
Mi hai dato il diritto di volerti bene, e mi prendo anche quello di essere “ragionevolmente” gelosa di questo bene. Lo sai: tu mi conosci. Sono gelosa “come un beduino arabo” di tutto ciò che è o credo che sia mio. Dei miei profumi e della mia sapienza; dei miei monili e dei miei pochi e scelti amici. Gli amici miei sono 4 – il numero perfetto –: 4 come le stagioni, come i poli del vento, come le facce della Piramide. Potranno diventare 5; 5 come le dita della mano, 5 come i sensi (non sono Buddista e non riconosco il sesto senso e seguenti). Ma non più di 5. E sono di tutte le razze e tu eri al primo posto (poiché si può prendere il primo o l’ultimo a seconda delle buone o cattive azioni). Ora vieni addirittura per ultimo; ed è una vergogna per te farti passare avanti uomini che valgono meno di te! Come nelle scuole il giovanetto più intelligente (penso a come sarà delizioso Aini giovinetto) per una mancanza cede il posto di capoclasse ad uno più grande ma meno bravo di lui! Proprio così.
Dunque – per non scriverti un volume per quella lettera alla quale non volevo neanche rispondere – affermo che la tua lealtà mi appartiene, poi che forse con me sola tu puoi dimostrarti quale sei. Ora, il nascondere a me una cosa che mi doveva interessare per le ragioni che ti ho già detto, è un’offesa, e io me ne dolgo. Non perdono – né io so né posso perdonare – ma mi rassegno ad aver la tua amicizia incompleta, perché tu intiera non la puoi dare. Sei della razza infedele (e ringrazio Allah che mi ha offerto anche due amici della mia razza) e tu, pur senza volerlo, mentirai sempre, tradirai sempre chi – come me –, vive nell’assoluto, e ama, odia, respinge, desidera, solo per passione e senza complicazioni cerebrali.

Ed ora al tuo pensiero. No ti sbagli. Anzi mi sbagli con qualche altra. Hai anche te, come il sentimentale compagno di Pisa, un’amica monaca (2)?
Credi che voglia prendere il velo, o pronunziare i voti di castità? Credi che io rinunzi al mio amore (povero amore lontano e perduto!) per amor di Dio? È qui il tuo errore. Il velo mussulmano – quando lo metterò – sarà una sapiente astuzia per... fingermi più giovane. Allah – o Dio, che è lo stesso essendo Unico –, vuole che si ami, poi che ce ne ha data la facoltà. E la mia religione è di conquista della gioia, non di rinunzia [...] (3) se Dio mi darà la forza di respingere [...] amore (ammesso che ancora lui lo senta!) o di non invocarlo, sarà solo per rinunziare alla più atroce sofferenza. Perché Lui, ormai, è troppo lontano da me; è un mio nemico, superiore a tutti gli altri nemici, come lo sei tu; ma nemico, nemico, 33 volte nemico, perché con lui non è possibile nemmeno l’amicizia che è stata possibile tra me e te, che non ci siamo mai amati, perché tra noi due non è nato il desiderio che è stato invece, per me e lui, la febbre e il tormento. È lui che fuggirò, non l’amore, se Dio me lo concederà per la mia gioia; lui, che non lo posso credere, come posso credere te, un uomo superiore, perché con me è stato uomo soltanto, con tutte le debolezze, le brutalità, le viltà anche (4). Hai compreso, Sahib (5)! E finisco dicendoti che nel tuo pensiero mi ha meravigliato quel tuo “inno all’amore”, che è, dici, una realtà più forte di Dio! Ma se tu stesso lo neghi! È vero che neghi anche Dio! Ecco perché nemmeno tu sai amare!

Leda

note:
1. La lettera è intestata, come molte altre, anche con la datazione araba ed è arricchita da numerosi disegni. Anche qui le sottolineature dell’originale sono rese con il corsivo.
2. L’ironico riferimento della Rafanelli è a Gino Del Guasta (1875-1940), medico anarchico pisano; egli, inizialmente mazziniano, si avvicinò al movimento anarchico attraverso Pietro Gori collaborando con diversi periodici (ad es. “Il Libertario”, “Il Grido della folla”, e più tardi “L’Avvenire anarchico”). Autore di numerosi opuscoli, dopo un’attiva militanza, con l’affermarsi del fascismo e il manifestarsi in lui di un acceso fervore religioso, si allontanò dal movimento rivedendo le sue posizioni giovanili. Il richiamo nella lettera è dovuto al fatto che nel corso della sua esperienza redazionale nel periodico anticlericale “Satana”, uscito a Pisa tra il 1907 e il 1911, egli pubblicò un intenso carteggio amoroso con una suora di nome Paola.
3. La lettera è strappata.
4. Il riferimento è, molto probabilmente, a Mussolini.
5. Letteralmente “Padrone”.

Brani tratti da: Mattia Granata, Lettere d’amore e d’amicizia, Pisa, BFS, 2003.