È finito il tempo delle attese
e la guerra allIraq, tanto attesa da mesi
infarciti di diplomatiche e istituzionali guerre planetarie
tra i potenti della terra, ora è un dato di fatto e si
dipana in tutto il suo imprevedibile e terrificante divenire.
Lo spettacolo mediatico ha subito preso avvio e il pubblico
televisivo può finalmente fruire con intensità
emotiva delle immagini che si susseguono a ritmo frenetico sul
piccolo schermo, accompagnate con ugual frenesia dal bombardamento
dinformazioni necessariamente imprecise e dai continui
dibattiti tra specialisti della guerra, secondo
par condicio equamente divisi tra favorevoli e contrari.
Davanti al fluire incessante di quelle immagini e di quelle
parole abbiamo il piacere di goderci lo scombussolamento emozionale:
soffriamo, cincazziamo, guardiamo pietrificati o con programmato
distacco a seconda dei casi, approviamo o inveiamo. Riusciamo
cioè ad essere immersi nel campus dazione,
non come se fossimo là dove effettivamente avviene, ma
per come ci viene offerto dal sapiente uso mediatico che, come
tutti gli strumenti di mediazione, non è la riproduzione
della realtà reale, bensì di una realtà
interpretata e propinata.
Anchio, penso come tutti, seguo con grande partecipazione
emotiva, promettendomi di non lasciarmi imbrigliare più
di tanto dalleruzione mediatica visiva e verbale insieme.
E ho vissuto emozioni e livelli emotivi diversi legati allavanzata
bellica, per come mi veniva rovesciata addosso e per come mi
riusciva di leggerla. Il primo giorno ho avuto quasi limpressione
che la strategia dintervento fosse inaspettatamente soft,
quasi guardinga e gentile insieme. Poche bombe estremamente
precise e mirate, cavalcata della fanteria e dei mezzi corazzati,
assenza di vittime, voci che il Rais e suo figlio, comandante
delle truppe speciali, fossero stati colpiti a morte, al punto
che lagonia del regime pareva praticamente cosa fatta,
al punto che tutto sembrava potersi risolvere in pochissimi
giorni. Lattacco, tecnologicamente diretto, dava lidea
di riuscire ad essere effettivamente chirurgico, a differenza
di tutte le altre guerre precedenti, in cui le decantate chirurgia
e intelligenza delle bombe si erano dimostrate fallimentari
e devastanti, come nei fatti è sempre stato. Non a caso
tutti i commentatori politici, da quelli pro a quelli contro,
davano per scontato che ormai fosse questione di giorni, se
non di ore.
La classica passeggiata?
Poi nei due giorni successivi sono cominciati i bombardamenti,
quelli massicci cui eravamo da sempre abituati, sono saltate
fuori sacche di resistenza non previste da parte di truppe irakene
capaci di rallentare lavanzata dei liberatori,
si è cominciata a vedere la battaglia con scontri diretti,
come le conosciamo attraverso la celluloide hollywoodiana. In
più ci si è messa anche la Turchia, che ha cominciato
a penetrare autonomamente con sue truppe nel nord irakeno per
controllare i curdi. Ma ancora era rimasta limpressione
della classica potenza USA della leggenda, capace di dominare
la dinamica bellica e di far apparire gli avversari come comparse,
quasi occasione di esercitazioni militari. Inoltre le vittime
continuavano ad essere pochissime e in televisione apparivano
centinaia e migliaia di soldati irakeni che si arrendevano,
in alcuni casi uccidendo i loro ufficiali che volevano obbligarli
al combattimento fino alla morte, consegnandosi quasi felici
ai loro liberatori. Insomma, limmagine di una sostanziale
passeggiata sul cadavere dellodioso regime di Saddam veniva
confermata con forza.
Ma il quarto giorno, sconfessando tutte le impressioni dei giorni
precedenti, la guerra, quella vera, ci ha sbattuto in faccia
il suo vero volto. Sono saltati fuori i morti civili, i soldati
uccisi da entrambe le parti, aerei e carriarmati americani distrutti,
soldati statunitensi prigionieri dellesercito del dittatore
e mostrati brutalmente alle televisioni di tutto il mondo in
tutta la loro fragilità umana. Mentre entrambi i contendenti,
attraverso i media cantavano vittoria luno sullaltro
e il corpo scomodo di Saddam, vivo e vegeto assieme al figlio
risuscitato, arrogante faceva comparsa sugli schermi del globo,
beffeggiando il nemico americano che si era illuso di essere
andato vicino al suo annientamento. Laspetto della barbarie
bellica, che limmagine mediatica fino ad allora era riuscita
ad esorcizzare, è riapparso con sorprendente forza, facendo
sfumare lillusione dellebbrezza di una guerra veracemente
chirurgica, capace, coi suoi bisturi tecnologici, di incidere
con precisione il corpo malato e di estirpare con veloce determinazione
il cancro dal mondo.
Lescalation in pochi giorni ha superato ed escluso lipocrita
finzione iniziale di un conflitto capace di essere rispettoso
dei diritti umani e ha preso piede il volto sempiterno dello
scontro bellico, quello vero e insuperabile della guerra sporca,
dove si soffre e si muore moltissimo, dove si umiliano gli avversari,
dove la capacità massacrante di distruggere e annientare
è il vero e unico metro di misura che ne abbraccia il
senso. La guerra è e non può che essere luso
imperioso e prepotente della forza armata per vincere e sottomettere
il nemico ed è fondata sulla predominanza totale del
più forte sul più debole. È lacme
dellimposizione, è lesercizio dellautorità
assoluta, è lannullamento di ogni dignità
umana, indipendentemente dalle ragioni addotte che la promuovono
e la giustificano; e non può essere altro.
A latere, fin dai primi momenti dello scontro combattuto in
Iraq monta instancabile in tutto il mondo la protesta antibellicista,
lurlo internazionale e internazionalista No war!,
e continua ad esprimersi quotidianamente. La richiesta di pace,
in tutte le sue molteplici sfaccettature, non demorde e chiede
a gran voce che venga posto fine alla guerra e alla sua logica,
per dare spazio alla politica, quale capacità dintervento
non bellico in grado di risolvere le ragioni dei conflitti.
Ogni giorno, in ogni parte del globo, continuiamo ad assistere
a manifestazioni di vario tipo, più o meno spettacolari,
che con corpose e numerose partecipazioni di persone, addirittura
di folle, con grande determinazione pongono costantemente il
problema della fine immediata del conflitto in Iraq, ma anche
della fine della possibilità di dare inizio in futuro
a qualsiasi altro conflitto in armi, che eventualmente gli stati
avessero intenzione di mettere in atto. Un montare pacifista,
vero e proprio corpo autonomo, indipendente dalle prevedibili
oscillazioni delle opinioni pubbliche dirette dai media e ammaestrate
dai sondaggi quotidiani.
Azione di contenimento
Assistiamo a un paradosso, anche se non appare subito tale.
La guerra combattuta e la sua negazione, la richiesta senza
se e senza ma di assenza di guerra, entrambe al contempo
punti di vista e dati di fatto, procedono appaiate e col loro
procedere incredibilmente nessuna delle due dà segni
di debolezza o diminuzione, mentre si rafforzano in un reciproco
alimentarsi. I facitori di guerra non si preoccupano minimamente
di chi vorrebbe metterli in discussione e procedono, imperterriti,
nella realizzazione dei loro nefasti piani, incuranti di quella
parte consistente del mondo, sempre più ampia, che quotidianamente
con forza grida loro di demordere. In altre parole, il sistema
di comando che si fonda sulla gestione bellica è perfettamente
in grado di sopportare e, da quello che finora è apparso,
di garantire democraticamente lesistenza di una contestazione
radicale alle proprie tesi e al proprio operato. Siamo o no
in democrazia? Perbacco! Tanto è vero che, fino al momento
in cui sto scrivendo, non si può parlare di unazione
sistematicamente repressiva da parte dei poteri occidentali
vigenti, bensì di una concordata e programmata azione
di contenimento, che permette al pacifismo di manifestarsi nei
termini di opposizione democratica, incapace di mettere in discussione
seriamente gli alti comandi militari e politici guerrafondai,
mentre al contempo offre a costoro loccasione di mostrare
un aspetto che per principio non appartiene loro, di essere
cioè dei difensori delle libertà di espressione.
Dal canto suo, il pacifismo, anche se sempre più agguerrito
e determinato, per come continua a porsi non riesce ad essere
incisivo come vorrebbe e sillude. Certamente, riesce ad
imporre la spettacolarità della propria immagine e delle
proprie azioni, inducendo con sapienza i mass-media ad occuparsene,
quindi a gestire un ruolo estremamente importante come opinion
maker, capace dinfluire con efficacia nellopinione
pubblica e di spostare i risultati dei sondaggi a proprio favore,
cosa che in una democrazia mediatizzata risulta fondamentale
nella gestione della propaganda politica. Ma al contempo questa
sua capacità si trasforma in unarma a doppio taglio,
in quanto in tal modo rientra perfettamente nel gioco dinduzione
e dinglobamento della società dello spettacolo,
divenendo così strumento di garanzia di perpetuazione
dellordine esistente, mentre nelle proprie dichiarazioni
dintenti vorrebbe invece combatterlo. Infatti, non è
in alcun modo in grado di realizzare ciò che propaganda,
cioè la pace, né di impedire il sorgere delle
guerre.
È invece soltanto in grado di porre con grande forza
unopzione teorica, fra laltro non compiuta, di superamento
dello stato di guerra. Perché dico non compiuta? Perché
lalternativa che pone si fonda sulla richiesta di agire
attraverso gli strumenti e il linguaggio della politica in alternativa
allo scontro armato, nellillusione che la politica sia
in grado di sotterrare le logiche della guerra. Non può
che trattarsi di unillusione, primo perché la guerra
è un classico strumento principe dellazione politica,
anzi ne rappresenta una delle opzioni fondamentali, secondo
perché i gestori legittimi dellagire e della volontà
politica sono gli stessi che alloccorrenza decidono di
scendere nel campo di battaglia. Supporre che possa esistere
una contraddizione insanabile, fondata sul principio che luna
nega laltra, tra la logica politica e la logica di guerra,
vuol dire a mio avviso non esser riusciti a comprendere appieno
né luna né laltra.
La politica vigente, infatti, si fonda sullesercizio del
potere a tutti i livelli per esercitare il dominio, per mantenere
la gestione e il comando delle situazioni economiche, politiche
e militari. La democrazia parlamentare è una delle modalità,
quella maggiormente in auge nel mondo occidentale, di questo
esercizio, ma verrebbe abbandonata se non risultasse funzionale
aglinteressi degli uomini di potere; non a caso più
volte gli stessi governanti statunitensi in passato hanno appoggiato,
o addirittura favorito, brutali regimi dittatoriali perché
li consideravano funzionali alle loro scelte strategiche. Lesercizio
del potere si fonda sulluso legittimo, come sostiene Weber,
della forza, dove tale legittimazione è in realtà
autoconclamata e autoreferenziale, perché le decisioni,
le informazioni e le scelte delle forze armate e dellordine
ovunque sono protette dai segreti di stato e militare, senza
quindi dover rendere conto al popolo, che formalmente dovrebbe
essere lunico vero depositario della sovranità.
Così, comè facile intuire, la guerra è
un momento fondamentale e culminante delluso, ritenuto
legittimo, della forza, quindi una componente fondamentale e
non eliminabile dellesercizio politico del potere. Ecco
perché pretendere di sostituire la politica alla guerra,
ritenendole alternative luna allaltra, è
un non senso sia teorico sia di fatto.
Gestione politica non centralizzata
Se si vuole porre davvero, come sarebbe duopo, listanza
di una rinuncia alla logica bellica quale strumento di regolazione
politica, diventa necessario risalire alla radice vera del problema.
Lessenza della gestione politica nel mondo risiede nelle
decisioni e nel comando centralizzati, sia che si tratti di
stati totalitari, di oligarchie militari, di tirannie monocratiche,
di dispotismi teocratici, di lobby dinteressi, o di democrazie
parlamentari. Tutto è sotto legida di direzioni
verticistiche e di imposizioni dallalto, secondo una logica
basata sullimposizione e la sottomissione, sul comando
e la conseguente obbedienza, legittimate, a seconda dei casi,
dalla volontà imperscrutabile di dio o da quella astratta
del popolo, che nei fatti non interviene mai. Il comando dallalto,
per essere esercitato, ha bisogno del controllo sui suoi sottoposti
e di strutture di guerra per luso eventuale della forza.
In altre parole, la politica del comando centralizzato si fonda
sul militarismo, quale concezione della gestione politica della
società, e non ne può fare a meno, quindi comprende
la guerra come elemento fondamentale della propria stessa gestione.
Bisognerebbe perciò cominciare a mettere seriamente in
crisi, sia nei fatti sia come acquisizione teorica, la gestione
politica verticale e centralizzata e il militarismo, luno
conseguenza dellaltra e viceversa, luno indispensabile
allaltra e viceversa. Bisognerebbe cominciare a porre
con forza e a sperimentare lopzione di una gestione politica
non centralizzata, non verticale e non gerarchica, fondata su
principi di organizzazione orizzontale, dove le decisioni vengono
prese col concorso e la presa di coscienza di tutti, dove veramente
il dibattito, il dialogo, la cooperazione e il rispetto, il
riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, siano
la sostanza per la definizione di norme sociali capaci di regolare
la convivenza tra gli individui componenti la società,
sulla base della reciprocità e di una concreta solidarietà.
Allora non sapremmo che farcene del militarismo, quindi della
guerra, perché non sarebbero più funzionali in
alcun modo alla gestione sociale e alla convivenza tra esseri
della specie umana.
Andrea Papi
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