Soltanto in
Italia si può passare l’intero mese di agosto
discutendo sull’opportunità che i cittadini paghino
o meno le tasse. E non in sede privata, per occupare le lunghe
ore tediose sotto l’ombrellone o davanti al bivacco
dei rifugi alpini, ma al livello politico e istituzionale
più alto possibile, servendosi delle più prestigiose
testate giornalistiche nazionali, con la partecipazione entusiastica
delle massime gerarchie civili ed ecclesiastiche.
L’elemento ecclesiastico può apparire incongruo,
ma è stato (incautamente) introdotto dallo stesso presidente
Prodi, che aveva dato inizio al bailamme auspicando,
in luglio, che i pastori della chiesa, come richiesto da un
noto passaggio di San Paolo, esortassero dal pulpito i cittadini
allo zelo fiscale. Il riferimento all’Apostolo non era
tra i più precisi, se non dal punto di vista teologico,
almeno da quello della sintassi latina, visto che non esiste
politico italiano capace di citare la più semplice
frase nella lingua dei padri senza inserirci qualche svarione
da matita blu, a prova della funzionalità educativa
dei nostri licei, ma l’intervento, nella sua pochezza,
è bastato a scatenare un mezzo finimondo.
L’unico principio
In un paese serio, naturalmente, gli avrebbero risposto tutti
che non spetta a un politico suggerire al clero cosa fare
e cosa dire, esattamente come non spetta al clero raccomandare
ai politici cosa dire e cosa fare. Ma si sa che il nostro
paese, da questo punto di vista, proprio serio non è
e le reazioni, come da copione, sono state svariate e molteplici.
La maggior parte dei commenti di parte ecclesiastica si sono
rivelati sorprendentemente sprezzanti (basta pensare alle
cose cattive che ha scritto la rivista dei padri paolini),
nel senso che l’unico principio fatto proprio dal cattolicesimo
istituzionale in materia di tasse è quello per cui
la chiesa non deve pagarne affatto, come peraltro il governo
Prodi, in perfetta continuità con i precedenti, ha
da tempo provveduto a disporre.
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Papa Benedetto XVI |
Un po’ di ricatto
Ne hanno preso spunto, comunque, gli oppositori di centrodestra,
che sull’asserita esosità tributaria del governo
in carica giocano da tempo tutte le proprie carte. Così,
l’onorevole Bossi non si è lasciata sfuggire
l’occasione di spiazzare i colleghi rispolverando la
sua vecchia proposta di sciopero fiscale a oltranza. I colleghi
in questione, invece di raccomandargli, da amici solleciti
quali dovrebbero essere, di stare calmo e non sforzare troppo
un cervello già provato dalla malattia, hanno fatto
a gara nel cercare una qualche quadra che permettesse di lasciar
cadere la proposta, notoriamente fallimentare (come già
sperimentato da Bossi una decina di anni fa), senza trarne
le ovvie conclusioni sulla sagacia politica del proponente.
Straordinario, da questo punto di vista, è stato l’ex
ministro Tremonti, che, rivelando un insospettabile cotè
gandhiano, ha citato il precedente della “marcia del
sale” indiana del 1930. E se i laici del centrosinistra,
tanto per dimostrare la loro nota capacità propositiva,
hanno tenuto la bocca ben chiusa (e forse è stato meglio
così, visto che qualsiasi cosa dicano, su questo come
su altri temi, di solito fan danno) sul carro della proposta,
per un motivo o per l’altro, hanno continuato a saltare
vari esponenti del clero, della società civile e della
confindustria, senza che nessuna voce veramente autorevole
ne denunciasse l’intrinseca immoralità, con il
risultato che alla fine ha dovuto scomodarsi di persona il
cardinale segretario di stato, Tarcisio Bertone, che ha solennemente
dichiarato, in occasione del suo intervento al meeting
di Comunione e Liberazione a Rimini, che sì, i buoni
cristiani le tasse le devono proprio pagare. Sempre, naturalmente,
che l’obbligo relativo sia sancito da “leggi giuste”.
Bertone, ovviamente, parlava ai seguaci del pio Formigoni,
che, tra tutti i colonnelli del centrodestra è probabilmente
il più ostile a Bossi, il che può spiegare molte
cose. In ogni caso, è difficile che Prodi si sia rallegrato
più di tanto delle sue parole, che pure sembravano
venir incontro alla sua originaria richiesta. Di fatto, bastava
quella chiosa sulle leggi giuste, per quanto banale e superflua
(difficilmente un ecclesiastico potrebbe esortare a rispettare
delle leggi ingiuste), a sminuirne di parecchio la portata,
offrendo una facile scappatoia a quanti hanno sempre motivato
la nota riluttanza fiscale dei propri elettori proprio con
il mettere in dubbio l’equità della legislazione
vigente in materia.
Così, al pronto compiacimento del capo del governo
si è contrapposto quello, affatto speculare, dei senatori
Calderoli e Castelli, che hanno letto l’intervento cardinalizio
nell’ottica, per lo meno, di una non sconfessione dell’alzata
d’ingegno del loro malconcio leader. Né
è mancato un vescovo, quello di Rimini e San Marino
(quindi, in un certo senso, il padrone di casa), che ha cercato
di sciogliere l’ambiguità della dichiarazione
del segretario di stato nel senso di una “storicizzazione”
del principio evangelico del dare a Cesare quel che è
di Cesare, esplicitando che se uno stato non serve, obiettivamente,
il bene comune, non si vede perché esortare i cittadini
a pagargli un qualsiasi tributo. L’affermazione era
accompagnata da una serie di riferimenti alla scuola e alla
famiglia che, se non provenissero da un successore degli apostoli,
saprebbero un po’ di ricatto (dateci quel che chiediamo
e vedrete che le tasse le pagheremo al volo…), ma sono
cose che succedono nel dibattito avvelenato di questi tempi.
Nessuno, naturalmente, si è preso il disturbo di spiegare
o di rilevare come il dibattito sulle tasse, in sé,
non sia altro che un’applicazione del dibattito generale
sullo stato e che solo nel suo ambito può essere portato
a una conclusione qualsiasi. E che il problema vero, nonostante
quanto vanno blaterando in tanti, a destra e a sinistra, sul
“federalismo fiscale”, non è quello della
destinazione geografica delle risorse raccolte – una
tematica che avrebbe senso solo nella prospettiva di una rottura
dell’unità nazionale cui nessuno, leghisti a
parte, è interessato davvero – ma quello della
struttura democratica dello stato stesso.
Eppure il principio è stato affermato oltre due secoli
fa dai fondatori della democrazia americana, che, in occasione
di uno dei pochi scioperi fiscali veramente significativi
della storia, quello del “tè di Boston”,
che ben si può accostare alla “marcia del sale”
correttamente richiamata da Tremonti, lo hanno formulato una
volta per tutte nei termini, tutt’ora ineccepibili,
del “nessuna tassazione senza rappresentanza”.
Tanto è vero che entrambe le iniziative, e le poche
altre che possono essere loro accostate (che so, lo “sciopero
del fumo” nella Lombardia asburgica prerisorgimentale)
si possono inquadrare in una prospettiva rivoluzionaria, in
un quadro di eventi mirati a sostituire, se necessario con
la violenza, il regime vigente con un altro che si auspica
migliore. Basta questo per capire che tra tutti i sommovimenti
che ci sovrastano minacciosi, quello di uno sciopero fiscale
è l’ultimo di cui avere paura. La prospettiva
di un moto rivoluzionario promosso dai vescovi o dall’ex
ministro Tremonti non è, francamente, tra quelle che
tolgono il sonno.
Carlo Oliva
Una chiosa. Il tè, il fumo, il sale…
gli esempi storici di riluttanza fiscale organizzata si limitano,
come è evidente, al campo delle imposte indirette. Un
intervento sulla tassazione vera e propria è molto più
difficile da organizzare e gestire, non soltanto per via del
carattere automatico delle ritorsioni cui gli aderenti andrebbero
senz’altro incontro, ma anche perché non sarebbe
praticabile dalla maggior parte della popolazione, che, sui
redditi da lavoro dipendente (e su quelli finanziari) viene,
notoriamente, tassata alla fonte.
La possibilità di ribellarsi esplicitamente al fisco
resterebbe aperta soltanto ai percettori di reddito da lavoro
autonomo, tutta gente che, in materia, ha fin troppe possibilità
di elusione, più o meno legittima, per essere tentata
di scendere in campo in quel senso. La prospettiva, paradossalmente,
sarebbe preclusa allo stesso Bossi, che vive, a quanto ne so,
della sua indennità di parlamentare, sulla quale, al
momento della corresponsione, sono già state applicate
le debite trattenute. L’intervento sulle imposte indirette,
invece, è anche un intervento di autolimitazione sui
propri consumi (non bevo tè, non fumo, non compro il
sale nei negozi…), che comporta quel tanto di sacrificio
personale che è insito in ogni vero sciopero e ben si
inquadra, appunto, in un ethos di tipo rivoluzionario.
Il che significa che quello di sciopero fiscale guidato dalla
destra è un concetto in sé contraddittorio, ma
questo lo avevamo capito già.
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