Ho cercato
con una certa caparbietà, tra le pieghe degli eventi
di questo pazzo mondo contemporaneo, qualcosa che servisse
a risollevare il morale, che valesse ad iniziare con ottimismo
questa nuova stagione della mia collaborazione con la Rivista.
E mi sembrava di averla trovata, questa nota di ottimismo,
nelle analisi di accreditati centri di ricerca, quali il Goldman
Sachs, che danno il PIL planetario, cioè la ricchezza
prodotta dall’economia globalizzata, in crescita impetuosa.
Secondo tali dati, in dieci anni, a partire, cioè,
dal 1998, la crescita è passata dal 2,8 al 4,9%, con
punte del 5,3 e del 5,1% rispettivamente negli anni 2004 e
2006. Se si analizzano gli apporti delle singole economie
a questo straordinario rilancio, si vedrà che i paesi
emergenti (Cina, India, Brasile e Russia inclusi) hanno contribuito
con il 47,7%, mentre hanno rallentato le tradizionali economie
avanzate, quella americana in particolare.
Tutto bene – si dirà – è normale
che paesi condannati per secoli al sottosviluppo e all’emarginazione
si riscattino da questa loro condizione e si affermino nella
competizione internazionale, soprattutto nell’acquisire
quote significative nei mercati mondiali.
Ma occorre verificare anche che questi processi, apparentemente
di normale avvicendamento nella storia dei popoli, non siano
malati, avvengano cioè nel contestuale mutamento delle
ottiche che nei contesti che si soppiantano hanno provocato
squilibri insostenibili. Su questo piano le cose non sembrano
procedere nel modo migliore. Se le economie occidentali, quelle
tradizionali basate sulle logiche di mercato (un mercato esistente
sui testi accademici piuttosto che nel concreto dei processi
produttivi e distributivi) hanno certamente contribuito a
migliorare le condizioni di un’area popolata da poco
più di ottocento milioni di anime, è altrettanto
vero che di tale miglioramento non hanno risentito, se non
molto marginalmente, i rimanenti cinque miliardi e mezzo della
popolazione mondiale.
Non solo, ma anche all’interno di quest’area privilegiata
del benessere, il gap tra i ricchi e i poveri è cresciuto
e non vi è chi non veda nelle città della ricca
Europa e dell’opulenta America zone di sofferenza insostenibili,
un degrado crescente che nessuna politica solidaristica riesce
ad arginare.
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Illustrano questo articolo alcune immagini scattate a Wall Street |
La Cina, per esempio
La speranza era, quindi, che i paesi emergenti sfuggissero
alle dinamiche di sviluppo del capitalismo maturo e imboccassero
strade diverse, si inventassero insomma processi politico-economici
che consentissero, insieme alla crescita complessiva, di bonificare
i grandi squilibri tra le vaste zone di povertà esistenti
al loro interno e la parte più ricca dell’imprenditoria
produttiva e finanziaria, concentrata normalmente nelle grandi
metropoli (sorte anch’esse, purtroppo, sui modelli verticalizzanti
dei grandi centri urbani statunitensi ed europei).
Le aspettative in questo senso sembrano largamente disattese.
Se si pensa alla Cina, è del tutto evidente che le
fonti principali della sua crescita sono lo sfruttamento della
propria forza-lavoro, e le grandi risorse investite per acquistare
valuta e titoli esteri per mantenere basso il valore della
propria moneta.
Con lo sfruttamento del lavoro, oltre a mantenere basso il
livello dei redditi familiari, la Cina (ma non soltanto la
Cina) offre alle grandi imprese multinazionali l’opportunità
di delocalizzare le proprie attività imprenditoriali,
di moltiplicare i loro utili e di sottrarsi contemporaneamente
a quei vincoli che le legislazioni nazionali in Occidente
hanno messo a punto, nel tempo, per salvaguardare il lavoro.
Di questa situazione sono esempi quotidiani lo sfruttamento
del lavoro minorile, l’inesistente normativa sulla sicurezza
del lavoro, l’utilizzo di materie prime a basso costo
che restituiscono prodotti finiti di infima qualità
quando non addirittura nocivi per la salute dei consumatori.
La seconda fonte di crescita cui avevamo accennato è
la destinazione di imponenti risorse per l’acquisto
di valuta e di titoli pubblici stranieri. Con questa misura
si mira prevalentemente a mantenere basso il livello della
moneta nazionale, favorendo le esportazioni dei beni prodotti,
ma soprattutto si detengono nel proprio portafoglio strumenti
di pressione (se non di ricatto) utili per qualsiasi emergenza.
È noto che se la Cina dovesse chiedere il saldo dei
titoli del Tesoro americano posseduti, gli Stati Uniti si
troverebbero a mal partito.
Tuttavia questa scelta di puntare tutto sul volume delle esportazioni
e sul possesso di valuta straniera lascia ai margini gli investimenti
per estendere la base del benessere, sicché immense
aree della Cina contemporanea sono ai limiti della sopravvivenza,
esposte per la precarietà delle loro abitazioni alle
calamità naturali, che in quelle latitudini sono frequenti,
e non avvertono, se non in misura marginale, gli effetti dei
grandi progressi delle isole metropolitane, isole tutto sommato
infelici, con i loro grattacieli inutilmente protesi verso
il cielo.
Quindi, le formule che regolano l’emergere di queste
nuove potenze economiche, sono le vecchie formule di un capitalismo
occidentale in rapido declino e il dirigismo politico che
caratterizza paesi come la Russia e la stessa Cina non attenua
gli effetti perversi che il neoliberismo imperialista ha provocato
negli Stati Uniti e, per fortuna in misura minore, in Europa.
Qualcuno ha trovato un’analogia tra la situazione attuale
e quella verificatasi a partire dal 1890 con l’emergere
di nuove potenze economiche, quali gli Stati Uniti, la Germania,
il Giappone e la stessa Italia a discapito di vetuste potenze
coloniali quali la Gran Bretagna e la Francia. Anche allora
a prevalere non fu una nuova visione del mondo ma una più
giovane massa muscolare dei paesi emergenti. L’epilogo
di questo scontro fu, prima la grande crisi del 1907 che,
innescatasi negli USA, si irradiò presto in tutto il
mondo occidentale, poi l’enorme tragedia del primo conflitto
mondiale.
Come si vede l’incremento significativo del PIL planetario
non è di per sé una notizia consolante, soprattutto
se, collateralmente, gli spiriti si infiammano, il mondo si
riarma e si moltiplicano i conflitti regionali. Così
come avviene purtroppo nell’inquieta stagione che attraversiamo.
Politiche clientelari
Ma vi è un ulteriore elemento di seria preoccupazione
a bilanciare l’euforia per l’aumento del PIL mondiale
ed è la crescita esponenziale del debito pubblico che
si verifica nei bilanci della maggior parte dei paesi, siano
essi in via di sviluppo che tradizionalmente avanzati.
Per fare un esempio a noi vicino, in Italia il livello di
indebitamento è pari al 106% del prodotto interno lordo:
un’enormità! Questa situazione, in tutta evidenza,
è determinata in buona parte dalla necessità
(spesso elettoralistica) di politiche clientelari che sono
restie a frenare e a razionalizzare le spese dei vari livelli
della pubblica amministrazione, ma anche ad un’eccessiva
espansione del credito, che non è sempre una misura
virtuosa per la corretta gestione valutaria. E questa considerazione
ci consente di introdurre il tema che ha infiammato il già
torrido clima dell’agosto appena trascorso: il crollo
del mercato immobiliare americano, con conseguenze che si
sono irradiate in tutte le borse mondiali e i cui effetti
sono ancora oggi difficili da valutare.
Non è in chiusura di questo articolo che si possa affrontare
un argomento così complesso, ma voglio solo accennare
alle incomprensibili misure che le banche centrali hanno messo
in atto per fronteggiare l’emergenza, soprattutto l’immissione
di un volume immenso di liquidità nel sistema finanziario.
La misura è curiosa, se non proprio originale, considerato
che proprio dal sistema bancario è stato attuato un
esercizio del credito che ha favorito un eccesso di indebitamento
pubblico e privato. A prescindere, infatti, dal fatto specifico
del crollo della bolla speculativa immobiliare, la situazione
dell’intero sistema economico americano è a dir
poco irreale: il debito pubblico è alle stelle, il
livello di indebitamento verso l’estero è tale
che, se i creditori volessero improvvisamente rientrare dei
capitali investiti soprattutto sui titoli del Tesoro americano,
il governo di quel paese sarebbe costretto (si fa per dire)
a portare i libri in tribunale; su ciascuna famiglia americana
grava un debito medio di 84mila dollari (in Italia è
di 14,800) e tale debito prescinde relativamente dalle contingenti
vicende borsistiche per investire il settore dei consumi,
il che è un segnale assai pericoloso perché
testimonia di una relazione diretta tra indebitamento e livello
dei consumi. In parole povere: si deve dedurre che la capacità
di alimentare i consumi non deriva da un incremento del reddito
familiare ma dalla facilità di attingere al credito.
L’immissione così massiccia di liquidità,
così, serve solo a ripianare i debiti degli speculatori,
delle banche e delle assicurazioni che hanno illecitamente
riversato sui risparmiatori, spesso ignari, una massa enorme
di carta straccia che non sarà mai esigibile.
Questo per dire che il capitalismo non cambia mai rotta: salva
i ricchi ed i corrotti e aumenta l’area della povera
gente che è costretta a pagare.