L’imolese Massimo Ortalli è uno dei responsabili dell’Archivio storico della FAI (louisemichel@fastmail.it) la Federazione Anarchica Italiana: nella nuova sede gli scaffali ospitano oltre 6.000 libri, circa 600 testate in italiano e altrettante in lingue straniere, 1.500 manifesti e un’enorme documentazione cosiddetta grigia – cioè lettere, volantini, bozze – in gran parte da catalogare perché si tratta di donazioni straordinarie, arrivate da poco. Con lui ragiono sul movimento libertario all’epoca di Nick e Bart (Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti) ma anche su differenze, alleanze e rotture. D.B. |
Un luogo comune vuole i libertari contro ogni forma di organizzazione. Anche quando sono tanti, come nella migrazione italiana negli USA, non lavorano di concerto. Sono sciocchezze?
Sì. Noi anarchici ci siamo sempre opposti ai partiti e ad ogni burocrazia ma la volontà di organizzarsi è fortissima. La realtà degli anni ’20-’30 negli Stati Uniti lo conferma. Basta sfogliare “L’adunata dei refrattari” che esce in italiano dal 1922 al ’71: settimanale per oltre 40 anni, poi quindicinale. Ne fu l’anima il ferrarese Raffaele Schiavina, noto come Max Sartin: “clandestino” diremmo oggi – in realtà non registrato – per tutta la vita, eppure attivissimo nel comitato per Nick e Bart. Il movimento anarchico promosse tante reti di solidarietà: non gestite in modo verticistico e spesso neppure centralizzate però estese a livello mondiale.
Non è l’unica testata del genere…
Escono moltissimi giornali: “La questione sociale”, “Germinal”, e “Cronaca sovversiva” sulla costa orientale (Boston, Chicago, New York…) e altri nelle zone minerarie o in California. Tutto ciò è ignoto o calunniato. Non vi fu un’organizzazione (tipo FAI) che negli USA raccogliesse i vari gruppi. Almeno sino alla seconda guerra mondiale gli anarchici erano presenti in quasi ogni lotta operaia, attraverso gli IWW – Industrial Workers of the World – i temutissimi wobblies del sindacato orizzontale. Forse un po’ isolati nella società; la scelta di fare giornali in italiano da una parte favorì una forte identità comunitaria ma dall’altra isolò dai nativi o da altri migranti. Una rete non solo politica. Esistevano tantissimi momenti ricreativi. Un po’ come le feste de “l’Unità” per capirsi ma più spontanee e molto impegnate: teatro, letture e musica. C’era anche la riffa: di solito erano libri o abbonamenti, però talvolta il primo premio era… una rivoltella, del resto negli USA era del tutto legale possedere armi.
Numeri?
Prendiamo un centro tessile importante come Paterson (la città da cui partì Gaetano Bresci per uccidere Umberto I dopo le stragi del generale Bava Beccaris a Milano): su 10 mila operai italiani vi erano circa 500 militanti anarchici, un numero impressionante, ma i simpatizzanti arrivano a 2.500: concordano le fonti di polizia e gli abbonamenti alla rivista. Anche a New York migliaia di persone partecipano alle iniziative libertarie. Una valutazione realistica oscilla fra 50 mila e 100 mila anarchici all’epoca negli USA.
“Nostra patria è il mondo intero” si cantava ma i migranti non facevano gruppo a sé?
I rapporti con autoctoni e altri migranti erano complessi: legami più saldi con i libertari ebrei, forti negli USA (a tutt’oggi il più longevo giornale anarchico è stato “Freie Arbeiter Stimme” in yiddish, stampato a New York) e spagnoli. Nessun compartimento stagno però la collaborazione non è automatica, mancano gruppi davvero multietnici. In occasioni gravi ovviamente si manifesta insieme.
Nel bel romanzo Noi saremo tutto di Valerio Evangelisti si capisce che il momento unificante è l’IWW.
I volantini sindacali sono pluri-lingue ma i giornali si rivolgono alle comunità. “Il proletario” che ha per slogan “conquistando la fabbrica, conquisteremo il mondo” è l’organo settimanale degli IWW in lingua italiana.
Fuori dagli USA quali punti di forza? E come organizzati?
In Europa gli anarchici italiani (emigrati per lavoro o poi in esilio) di solito mantengono le proprie strutture. Questo non significa disaccordo. È opportuno ricordare le condizioni dure dell’epoca: si lavorava anche 12 ore al giorno, il tempo per socializzare era ben poco. All’epoca il movimento anarchico è forte soprattutto in Francia, Spagna e Inghilterra dove in prima fila ci sono gli ebrei, i più reietti nella scala sociale. Diverso il caso della Russia dove i bolscevichi decapitano un forte movimento: un solo dato, quando nel ‘21 muore Kropotkin per andare ai funerali viene dato un permesso speciale a migliaia di anarchici… incarcerati. In Argentina il più forte sindacato è anarchico, stampa un quotidiano; lì però la mescolanza fra etnie è più semplice. In Messico invece, come si legge nei due romanzi di Evangelisti – Il collare di fuoco e Il collare spezzato – c’è poca migrazione; grazie ai fratelli Magón si sviluppa però un originale anarchismo.
Per evitare che si cristallizzi un gruppo dirigente, gli anarchici (di ieri e di oggi) rifiutano l’idea dei “militanti di professione”.
Basta pensare che nel 1920 l’USI (300 mila iscritti, secondo sindacato italiano) aveva un solo funzionario pagato. Stesso discorso per la stampa anarchica. Secondo me non si arriva a 10 “militanti professionali” in 100 anni, anche per la scelta di ruotare le cariche (come oggi nella FAI). Qui c’è una grande diversità con socialisti e comunisti ma sino alla guerra civile in Spagna le differenze non impediscono di pensarsi sulla stessa barricata. La critica al bolscevismo parte dal ’19 (appena si sa delle repressioni contro Makhno e la seconda insurrezione di Kronstadt) e viene formalizzata da Errico Malatesta e Luigi Fabbri già nel 1920 ma quando gli USA, proprio nel ’20, espellono Emma Goldman lei è felice di finire in URSS, ignorando quanto la rivoluzione sia già degenerata. All’epoca gli anarchici sono consapevoli di avere una base comune (Marx e Bakunin nella Prima Internazionale; leggono in Stato e rivoluzione di Lenin che la macchina statale va distrutta) con socialisti e comunisti. Nella sinistra italiana è naturale ritrovarsi tutti insieme al confino, in esilio o poi nella Resistenza.
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Al di là della persecuzione contro Nick e Bart davvero fra gli emigrati anarchici vi fu una deriva terroristica?
Bisogna ricordare il diverso contesto storico. La repressione dei federali e degli agenti privati (i Pinkerton) si poteva affrontare solo con forme di autodifesa. Questo facilita in alcune frange la tentazione. Nell’ambiente italo-americano ha influenza Luigi Galleani: gran giornalista (un po’ roboante forse) e trascinatore, arrivato negli USA a inizio ’900 intacca l’influenza di Malatesta e forse a volte incoraggia la violenza d’attacco. Quando vi sono attentati contro i centri del potere fra i libertari nessuno si sente obbligato a dissociarsi ma critiche (“può essere nocivo per il movimento”) vi sono.
Nick e Bart cascano in una trappola ma avevano davvero una pistola in tasca.
Come quasi tutti all’epoca. Sprovveduti non erano, “compagni d’azione” piuttosto. In quei giorni le spedizioni punitive del procuratore Palmer distruggevano le sedi dei “rossi” e chi era trovato lì veniva rispedito in Italia. Probabilmente Nick e Bart nascondevano stampa “incendiaria” (sulla defenestrazione dell’anarchico Salsedo nella sede della polizia federale o sulla brutta storia di una bomba a Wall Street con una trentina di morti) e questo spiega le iniziali bugie. Alla fine degli anni ’60 qualche storico ristudia tutte le carte e sostiene che solo Nick prese parte alla rapina: ricostruzione che non mi convince, secondo me erano entrambi innocenti. All’epoca, infatti, la totale illegalità di quel processo non scuote solo gli intellettuali di sinistra ma tutti i più seri giuristi a livello internazionale.