Rivista Anarchica Online


Messico

Lo specchio del Messico
di Claudio Albertani

 

Oaxaca un anno dopo.

La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.
George Orwell (1984)

Oaxaca si trova in pace e riflette un clima di tranquillità.
Ulises Ruiz, 10 maggio 2007

A un anno dallo scoppio del conflitto nel mondo della scuola, Oaxaca sembra essere diventata lo specchio del Messico. Il processo di “destrizzazione” procede a passi giganti, ma avanza anche la ribellione che cerca, e a volte trova, nuovi cammini. La povertà in cui vive all’incirca il 67% degli abitanti di Oaxaca (secondo le stime ufficiali si tratterebbe di 2.349.570 persone su un totale di 3.506.821) e la disuguaglianza “sono delle caratteristiche che impediscono loro di prendere parte attivamente alla società”, secondo la Banca Mondiale (1).
Crocevia di culture indigene e meticcie, negli ultimi anni la capitale dello stato si è trasformata in un immenso parco per turisti, assai redditizia per gli investitori locali, nazionali e stranieri, ma molto poco per i suoi normali cittadini. Con la vittoria del governatore Ulises Ruiz Ortiz (URO), verso la fine del 2004, la situazione si è resa esasperata per un rinnovato ciclo autoritario, caratterizzato dall’uso discrezionale delle risorse pubbliche, dall’incremento del narcotraffico, dalla distruzione del patrimonio storico e naturale, dalla messa al bando dei mezzi di comunicazione indipendenti e da ogni tipo di repressione. Uomo brutale e senza pietà, Ruiz Ortiz non aveva riportato un trionfo elettorale, ma come Felipe Calderón aveva vinto con la frode.

Le guerre di Ulises Ruiz Ortiz

Piuttosto che considerarlo come un retaggio del passato, il dispotismo imperante oggi a Oaxaca rappresenta ed esemplifica le acute contraddizioni del Messico contemporaneo. Alcuni parlano, a questo proposito, di un incipiente processo di fascistizzazione (2). Se ci addentriamo nel dibattito, vediamo che la destra arcaica e oligarchica al potere spinge verso una modernizzazione aggressiva e arroccata in se stessa mentre, allo stesso tempo, emerge un’ampia insurrezione sociale, fenomeno nuovo e minaccioso. Questa destra vuole tutto; non cerca legittimità né accordo ma solo arricchimento e perpetuazione. Il suo programma è sempre lo stesso, a Oaxaca come ovunque: smantellare le ultime vestigia dello Stato sociale, sottomettere il paese alle necessità del capitale transnazionale e mettere fine una volta per tutte a quanto può anche solo essere in odore di sinistra. Le sfumature politiche e le guerre intestine – che, ricordiamo, esistono – importano ben poco perchè, lasciando da parte le dispute, quando è necessario questa destra è capace di agglutinare non solo il PAN (3) ma anche buona parte del PRI (4) e perfino la cosiddetta sinistra istituzionale.
La perpetuazione al comando di Ulises Ruiz Ortiz e l’appoggio che ha ricevuto da parte di due esecutivi federali (quello di Vicente Fox e quello di Felipe Calderón) non stonano affatto con il panorama nazionale: i primi mesi della nuova amministrazione capeggiata dal PAN sono stati caratterizzati dalla militarizzazione delle principali regioni indigene del paese, da numerosi omicidi perpetrati dall’esercito e dalla richiesta agli Stati Uniti di implementare in Messico un “Plan Colombia” con la scusa della lotta al narco-traffico (5).
Nel caso del governatore di Oaxaca, si era percepito il suo carattere arbitrario fin dalla campagna elettorale. Il 27 luglio del 2004, in un meeting proselitista a Huautla de Jiménez, i suoi seguaci avevano infatti ucciso a bastonate il professor Serafín García, colpevole unicamente di essersi opposto alla sua candidatura. Come in molti altri casi, il delitto rimase impunito (6).
Il 1° agosto, giorno dei comizi, il sistema di conteggio dei voti si era interrotto per tre volte, in modo tale che il “trionfo” di Ulises Ruiz Ortiz – detto il mapache mayor (7) – era stato impugnato dalla coalizione “Todos Somos Oaxaca”, guidata da Gabino Cué. Tutto inutile: il risultato era già stato deciso perchè, a quanto sembra, la nomina al governo era il prezzo di una guerra sporca che anni prima Ulises Ruiz Ortiz aveva condotto a Tabasco contro Andrés Manuel López Obrador, acerrimo nemico del pre-candidato presidenziale del PRI, Roberto Madrazo.
La prima azione del fiammante governatore fu però quella di scatenare un’altra guerra, ora contro un giornale locale indipendente, “Noticias de Oaxaca”, giudicato colpevole del reato di dissidenza. Il 17 giugno 2005, uomini armati di manganelli guidati da David Aguilar, deputato del PRI e “leader sindacale”, fecero irruzione nei locali del giornale. Davanti al rifiuto della redazione di aderire a uno “sciopero”, gli assalitori arrestarono i trentuno giornalisti presenti, rimasti in carcere per più di un mese (8).
Ciononostante “Noticias” continuò a circolare perchè i sequestrati trovarono il modo di far uscire le informazioni grazie a Internet e si iniziò a stampare il giornale a Tuxtepec, a più di 200 chilometri da Oaxaca. Quando la polizia di Ruiz Ortiz ordinò di intercettare i furgoni che lo stavano trasportando, il proprietario, Ericel Gómez, prese a noleggio un aereo per farsi venire a prendere dai giornalisti direttamente all’aeroporto, grazie all’aiuto del sindacato dei maestri. La lotta è continuata, il tiraggio è sceso considerevolmente ma alla fine “Noticias” è riuscita a sopravvivere all’attacco ufficiale. La sua linea editoriale è diventata piuttosto sempre più radicale, e nel suo genere è il giornale più venduto. Ulises Ruiz Ortiz ha raccolto così la sua prima sconfitta.


Un altro evento sistematico è l’aggressione a Santiago Xanica, una comunità indigena zapoteca insediata nella Sierra Sur in lotta da anni per il rispetto dei suoi diritti collettivi. Nel dicembre del 2004, pochi giorni dopo l’insediamento al potere di Ulises Ruiz Ortiz, l’esercito iniziò a pattugliare la località e il 15 gennaio 2005 la polizia di stato aprì un fuoco incrociato contro un’ottantina di indigeni che stavano lavorando (tequio) (9) vicino al panteon municipale. Nell’azione rimase gravemente ferito Abraham Ramírez Vázquez, dirigente del Comité por la Defensa de los Derechos Indígenas (Comitato per la Difesa dei Diritti Indigeni, CODEDI). Ma dato che nel tempo degli assassini le vittime sono sempre colpevoli, il militante sociale venne arrestato senza capi d’accusa e tuttora si trova in stato di fermo, detenuto presso il carcere penale di Pochutla (10).
Poco dopo Ulises Ruiz Ortiz si imbarcò in una costosa ed ecologicamente nociva ristrutturazione della piazza principale di Oaxaca, operazione grazie alla quale si è conquistato l’antipatia della classe media locale, ma che gli ha permesso anche di ripartire enormi quantità di denaro tra i suoi affiliati.
Verso la fine del maggio del 2006 a Oaxaca c’erano all’incirca già una settantina di prigionieri politici. Non soddisfatto, il governatore fece fuoco contro la Sezione 22 del Sindacato Nazionale dei Lavoratori dell’Istruzione, che annovera all’incirca 20.000 iscritti e una lunga tradizione di lotte indipendenti.
Da molti anni, quando si avvicina il Giorno del Maestro (15 maggio), i professori si ritrovano nel centro della città per affermare le loro rivendicazioni. La cittadinanza si lamentava, faceva buon viso a cattivo gioco, ma raramente non dimostrava simpatia nei loro confronti. Catalizzatori della realtà locale, i maestri sono generalmente molto rispettati.
In quella particolare occasione richiedevano l’omologazione del loro magro salario allo standard nazionale, richiesta che riguardava anche le autorità federali. Nella primavera del 2006 ogni possibile spiraglio per la negoziazione venne chiuso. Ulises Ruiz Ortiz iniziò a minacciare cercando di mettere le diverse realtà del movimento l’una contro l’altra, mentre il governo federale, guidato dal PAN, si disinteressò del tema pensando di assestare in questo modo un sicuro colpo al PRI.
Il presidio iniziò il 22 maggio senza suscitare nessuna eco tra la popolazione. Rassicurato da questa risposta, il 14 giugno, Ulises Ruiz Ortiz ordinò lo sgombero, puntando molto sull’effetto sorpresa. Verso le 4.50 dell’alba, agenti di diverse corporazioni supportati da elicotteri che gettavano granate tossiche aggredirono i professori sparando loro con armi da fuoco. Oltre a causare il panico tra la popolazione, la polizia distrusse tutto, incluse le installazioni dell’emittente dei maestri, “Radio Plantón”. Alla fine i feriti erano all’incirca 200, oltre a un numero non precisato di desaparecidos.
Ulises Ruiz Ortiz manifestava in questo modo la sua volontà nei confronti di quella parte della società non conforme allo status quo, esattamente come aveva fatto alcune settimane prima ad Atenco il governatore dello Stato del Messico, Enrique Peña Nieto, – anch’egli appartenente al PRI – con l’entusiasta collaborazione dell’esecutivo federale panista (11). Alla vigilia delle elezioni presidenziali, il governatore di Oaxaca inviava, inoltre, il messaggio del suo leader, Roberto Madrazo: il PRI è il partito dell’ordine. In quel momento le elezioni erano già grondanti di sangue.


L’incendio

I fatti che seguirono evidenziano, ancora una volta, che quando i potenti si dimostrano troppo avidi finiscono per compromettere i loro stessi interessi (12). La popolazione che fino a quel momento si era dimostrata passiva – quando non dichiaratamente ostile – cambiò la sua opinione e scese in strada, in solidarietà verso i professori.
Questi ultimi a loro volta si erano uniti affrontando gli uomini in uniforme con pietre e bastoni, sostenuti in un secondo momento dagli universitari, da organizzazioni sociali e dai cittadini. Nel giro di poche ore la popolazione infiammata riconquistò la piazza principale ricostituendo il presidio nonostante Ulises Ruiz Ortiz. I professori dichiararono di non riconoscere più il governatore, esigendo, da quello stesso momento, la sua rinuncia all’incarico come condizione previa ed essenziale per risolvere il conflitto lavorativo.
Il giorno 16, una grande manifestazione di circa 300 mila persone fece vedere la grande forza della classe insegnante. La cittadinanza – studenti, padri di famiglia, lavoratori, burocrati e perfino i commercianti – li accoglieva battendo le mani e quando uno di loro tirò fuori uno striscione che diceva “Ulises fuori” tutti applaudirono.
Nel frattempo, la Unión de Comunidades Indígenas de la Zona Norte del Istmo (l’Unione delle Comunità Indigene della Zona Nord dell’Istmo, l’UCIZONI) protestava a Matías Romero, interrompendo per diverse ore il transito lungo la strada che attraversa l’istmo. Entrambi questi avvenimenti erano un anticipo di quello che presto sarebbe successo: le grandi manifestazioni nella capitale e la ramificazione del movimento nel resto dello stato.
Il movimento subì una svolta quando, il 18 giugno, venne annunciata l’Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca (l’APPO) in cui, oltre ai maestri, si riunirono all’incirca 350 organizzazioni di diverso tipo: sindacati, collettivi libertari, vecchi raggruppamenti della sinistra marxista-leninista, organizzazioni cittadine, indigeni, lavoratori, artisti, studenti e persone lontane dalla logica dei partiti.

L’APPO sorse così per iniziativa dei maestri come un modo per canalizzare l’appoggio sociale verso il loro movimento rivendicativo, ma presto si spinse molto più in là. Il giorno 20 i suoi membri decisero di creare una direzione collettiva provvisoria formata da trenta persone per cercare di organizzare un fronte comune “per iniziare una lotta senza sosta, fino ad ottenere la sparizione dei poteri personali, la destituzione di Ulises Ruiz Ortiz e la conquista del potere popolare” (13).
Anche se il termine “potere popolare” può far storcere il naso per le esperienze storiche che rievoca, esprimeva l’idea di trasformare le condizioni di vita gettando le basi di una nuova relazione tra la società e il governo.
Nacquero presto delle commissioni interne, come quelle della stampa, delle barricate e della propaganda. “Cominciammo a costruire una rete di organizzazioni, e ogni azione che volevamo realizzare doveva passare attraverso una consultazione delle basi, sia quella dei maestri che quella dell’APPO” (14).
In ogni modo, le richieste lavorative erano già passate in secondo piano di fronte all’esigenza delle dimissioni di Ruiz che, a sua volta, stava organizzando una richiesta di democratizzazione.

Secondo Gustavo Esteva all’interno dell’APPO sono confluite tre diverse lotte democratiche (15). La prima lotta era per la democrazia formale: come migliorare le condizioni di rappresentazione, come mettere fine agli imbrogli e alle frodi del sistema elettorale, come cercare di circoscrivere la manipolazione dei media e come assicurare il corretto funzionamento delle istituzioni dello Stato di diritto. Queste richieste hanno molto impatto a Oaxaca e all’interno dell’APPO hanno molta visibilità. Una seconda corrente richiede la democrazia partecipativa, ossia il rafforzamento dell’iniziativa popolare, l’istituzione delle figure giuridiche del referendum e del plebiscito, la possibilità di revocare i mandati e l’opzione del cosiddetto “presupposto partecipativo”, ossia fare in modo che le opere e i servizi pubblici si realizzino con la partecipazione dei cittadini e non arbitrariamente. La terza, che si potrebbe definire democrazia radicale, afferma che non abbiamo bisogno di nessun potere politico al di sopra di noi; possiamo avere bisogno di forme di coordinazione amministrativa, ma niente di più. Questa corrente lotta per una società in cui l’origine della legge risieda nell’autonomia individuale e collettiva di tutti gli esseri umani. È una corrente trasversale che in Messico si ispira sia all’esperienza dei popoli indigeni che alle lotte urbane e dell’anarchismo.
Secondo le parole del consigliere dell’APPO David Venegas, “el Alebrije”, in carcere dal 13 aprile 2007 presso la casa circondariale di Ixcotel, “è possibile vivere e convivere in un ordine sociale proprio, emanato dalla volontà collettiva e non dall’imposizione di un governo lontano dagli interessi e dai bisogni di un popolo, un ordine sociale in cui i valori principali [...] siano la fraternità, la solidarietà, la cooperazione e la difesa comunitaria e non più un ordine sociale basato sulla paura del castigo, sull’autorità, sulla beffa pubblica o sul carcere” (16).
Il pensiero di David riguarda la richiesta di auto-organizzazione e auto-governo delle masse che si incorporano al movimento e l’aspirazione a creare un mondo nuovo dalle viscere di quello vecchio. Oltre a spiegare lo spostamento delle organizzazioni marxiste-leniniste, queste aspirazioni continuano a essere la migliore garanzia che il pericolo di fascistizzazione si deve scontrare con una barriera invalicabile.
Lontana dall’estremismo, la “democrazia radicale” ha una posizione realista, ossia, non lontana dai fatti. Non è ideologica, perchè non si identifica con nessuna organizzazione in particolare. Allo stesso tempo è cosciente che non è dominante nel contesto d’insieme del paese. In Messico esiste una democrazia formale assolutamente caricaturale, c’è una lieve democrazia partecipativa, mentre la democrazia radicale si realizza solo nelle comunità indigene, tra gli zapatisti e, a livello di aspirazione, in alcune lotte urbane. “Per questo – conclude Esteva – noi coesistiamo con le prime due correnti, perchè viviamo in Messico. Non vogliamo separarci dal Messico. Continuiamo a stare qui e accettiamo alcune cose della democrazia formale, anche se cerchiamo di fare le cose a modo nostro”.


La festa

Alla fine del giugno 2006 confluirono nell’APPO non solo una molteplicità di organizzazioni, ma anche di punti di vista, di individui e di diverse sensibilità che in un certo qual modo rimandano anche alla vecchia tradizione libertaria di Flores Magón che continua a sopravvivere.
Man mano che cresceva l’indignazione, il movimento si rafforzava, acquistando ricchezza e creatività. Nelle elezioni presidenziali del 2 luglio, l’APPO si schierò per un voto di protesta nei confronti di Ulises Ruiz. Anche se molti membri difendevano una chiara posizione astensionista – e nonostante le solite manovre e i sotterfugi –, il risultato fu schiacciante: López Obrador vinse con un margine molto ampio e il PRI ottenne solo il terzo posto, cosa che non si era mai verificata.
I fatti dei giorni successivi rappresentano una storia molto complessa e che deve essere ancora spiegata, anche se ora ne vogliamo illustrare solo alcuni punti principali. Fin dall’inizio, l’APPO si era ispirata alle pratiche democratiche degli zapotecos, mixtecos, mixes, amuzgos e degli altri popoli originari. Per questo, cambiò presto il suo nome – un po’ anarcronistico – di “Assemblea Popolare del Popolo” (al singolare) con “Assemblea Popolare dei Popoli” (al plurale), che contiene in sé diversi propositi. Se l’idea dell’”assemblea” alludeva alle forme auto-gestionali che continuano ad essere vigenti nell’80 per cento dei 570 comuni di Oaxaca, era necessario capire che certe assemblee hanno espressioni molteplici e diverse.
La stessa capitale dello stato è, tra le altre cose, una metropoli indigena, dato che numerose sue colonie sono composte basicamente da migranti che vanno e vengono dai loro paesi d’origine. Molti di loro si sono uniti alle proteste; alcuni erano maestri, ma la maggior parte artigiani e venditori ambulanti (17). Venute a conoscenza dei fatti, le comunità si sono unite apportando la loro enorme esperienza e il loro inesauribile memoriale di offese: miseria, oppressione, emarginazione, sfruttamento da parte dei proprietari terrieri, spoliazione della terra, oblio...
Arrivarono anche giovani della città la cui identità collettiva si costruisce nel quartiere, nella musica, nel modo di vestire e nell’arte. “Gruppi emarginati e discriminati, non solo dal governo, come chi si prostituisce, gli omosessuali, le lesbiche e i gay, si fecero presenti, anche se in maniera discreta” riuscendo ad ottenere che “le offese che loro subiscono facciano parte del grido collettivo di giustizia e libertà per tutti” (18).


Tra il giugno e l’ottobre del 2006 centinaia di migliaia di persone scesero in strada in una dozzina di grandi manifestazioni dalle dimensioni mai viste prima. Insieme hanno portato avanti una lotta plurale in cui vari segmenti della società hanno imparato a convivere, senza rinunciare mai alle loro differenze e peculiarità. Insieme sono riusciti a obbligare Ulises Ruiz alla clandestinità, eclissando nei fatti tutti i poteri ufficiali. Insieme hanno occupato gli uffici pubblici, hanno creato organi di auto-governo e hanno amministrato la giustizia con l’”Honorable Cuerpo de Topiles”, una milizia popolare che si ispira alla tradizione indigena (19).
Non si è trattato di un movimento classista nel senso tradizionale, essendo la classe operaia di Oaxaca quasi inesistente (20). È stato, probabilmente, un movimento di movimenti. C’era gente con la falce e il martello accanto alle immagini della vergine di Guadalupe e agli striscioni con Viva l’anarchia, anche se la maggior parte di loro si identificava con la propria appartenenza territoriale: il quartiere, la colonia o la comunità.
Non è stato però nemmeno un movimento esclusivamente locale: “L’esperienza che noi oggi abbiamo è debitrice verso quanto è stato fatto in Ecuador, in Brasile e in Argentina. Siamo stati attenti a tutti i processi dell’America Latina, e anche a quelli degli Stati Uniti dei nostri compagni migranti” (21).
Anche se i media hanno trovato immediatamente persone come Flavio Sosa a cui affibbiare un ruolo, l’APPO non è stato tuttavia nemmeno un movimento di leaders. In un’intervista che mi ha rilasciato pochi giorni prima di essere arrestato lo stesso Flavio ha smentito questa sua funzione: “Quando iniziò a circolare questa voce qualcuno fece un cartellone che diceva: ‘Questo movimento non è dei leader ma delle basi’, e lo firmava come gruppo. Alcuni ragazzi aggiunsero immediatamente a penna una scritta molto intelligente: ‘Non è dei leader ma nemmeno dei gruppi’” (22).
Ancora meno è stato un movimento che cercava di conquistare il potere, nonostante i deliri stalinisti di alcuni membri. Si vede chiaramente, ad esempio, in un graffito che si poteva leggere verso la fine di ottobre del 2006 nelle vicinanze di calle Tinoco y Palacios del centro storico di Oaxaca: “Ci vogliono obbligare a governare, non cadiamo in questa provocazione”. Che significa? Risponde Gustavo Esteva: “Che non ci interessa prendere il governo; che questo governo è una struttura di dominio per controllare la gente e noi non vogliamo svolgere questa funzione” (23).
Di fronte alla brutalità di Ulises Ruiz Ortiz, la gente ha iniziato un nuovo processo di auto-organizzazione e per molti mesi la città ha attraversato la singolare esperienza di una vita senza governo e senza burocrazia, ma aperta al dialogo e all’innovazione. La saggezza collettiva si è imposta in modo pacifico alle carovane della morte, alle desapariciones forzate e agli “incidenti” ampiamente documentati dalle organizzazioni di diritti umani nazionali ed internazionali.

Come in una vera e propria rivoluzione sociale molte persone hanno scoperto nel momento dell’azione le loro capacità più nascoste e inaspettate. La partecipazione delle donne è stata intensa. Alcune partecipanti avevano addirittura votato per il PRI, ma il movimento ha risvegliato in loro una nuova coscienza. Una signora, già avanti con gli anni, completamente sola e senza altre armi che la propria dignità ribelle, prese un autobus per metterlo a servizio della causa. E fu proprio un collettivo di donne che gestì la televisione per 20 giorni dimostrando con i fatti che la comunicazione alternativa esiste.
Bisogna studiare il ruolo dei media utilizzati, arma d’attacco della mobilitazione. L’occupazione di dodici catene radiofoniche commerciali e di Canal 9 della televisione locale furono all’inizio delle misure difensive contro la distruzione di Radio Plantón e i danni subiti da Radio Universidad, le uniche voci indipendenti della città. È evidente che il movimento non si sarebbe sviluppato tanto velocemente senza la radio, lezione importante sia per Oaxaca che per le altre realtà.
Ci sono state molte speaker. Una delle più note è stata una dottoressa di 58 anni – ora nota a livello mondiale come la dottoressa Berta – che trasmetteva da Radio Università giorno e notte, bevendo caffé e fumando sigarette Delicados. Usciva solo per prestare soccorso alle vittime della repressione: l’ho vista con i miei occhi distribuire acqua ai manifestanti da una vettura della croce Rossa.
Abbiamo imparato a riconoscere la sua voce roca che con calma e serenità riportava le necessità dei manifestanti mentre piovevano su di loro pallottole e lacrimogeni. Il 3 novembre, il giorno dopo la battaglia di CU che ha visto la vergognosa sconfitta della PFP, mi disse: “A Radio Universidad, come prima a La Ley, a Radio Plantón, a Canal 9, la comunicazione è come deve essere: d’andata e ritorno, con telefono aperto e connessione via Internet per l’estero. Se ora venisse un signore e dicesse: ‘Voglio lanciare un messaggio’, gli direi, ‘D’accordo, prego, faccia pure, dica pure quello che vuole’. La gente viene e parla con le sue parole, con le sue idee, ma è molto obiettiva. Forse non parla correttamente lo spagnolo, ma sa quello che vuole. Non la ferma più nessuno” (24).
Molte parole sono state spese sulle barricate, interpretandole come una prova della “violenza” esercitata dall’APPO. La realtà è che le barricate sono nate come una misura difensiva per contenere gli omicidi commessi dalle cosiddette “carovane della morte”, convogli di camion della polizia statale che circolavano di notte senza targa, sparando indiscriminatamente contro i passanti.
A partire dal 21 agosto, dopo l’assassinio dell’architetto Lorenzo Sanpablo, uomini, donne, bambini ed anziani hanno montato delle barricate a forma di circoli concentrici che occupavano tutta la città e soprattutto le colonie periferiche, più esposte alla violenza dei sicari. Le montavano di notte e le ritiravano durante il giorno.
Ce ne sono state almeno 1.500, anche se nessuno le ha mai contate e non sapremo mai esattamente il numero preciso. A volte i partecipanti non erano membri dell’APPO, ma cittadini comuni e casalinghe che esprimevano in questo modo la loro simpatia per il movimento. La mattina dovevano andare al lavoro, ma passavano le notti intere svegli difendendo una barricata e scoprendo contemporaneamente il significato di una vera festa collettiva (25).
La componente festosa suggerisce, a mio parere, l’unico confronto pertinente con la Comune di Parigi, che, a sua volta, è stata definita la più grande festa del XIX secolo. Effettivamente la Comune di Oaxaca è rimasta isolata come la sua illustre predecessora: non ci sono state in Messico – ne tanto meno fuori – grandi mobilitazioni in favore dell’APPO.
Bisognerebbe aggiungere però che la gente di Oaxaca non parla di una “comune”, ma di una “comunalità”, termine che rimanda alle esperienze indigene locali. In ogni modo è evidente che i ragazzi delle barricate, quelli che hanno sostenuto gli scontri urbani, non erano dei “professionisti” né tanto meno dei militanti nel senso tradizionale del termine. Erano puro popolo – perfino bambini della strada come quello che si può vedere nel video del collettivo “Mal de ojo” (26) –, gente che non sapeva niente di guerriglia urbana e ha imparato nel bel mezzo dei fatti.

E ora?

Il grande movimento sociale che ha scosso la società di Oaxaca è uno degli avvenimenti più importanti della storia recente del Messico, fatto che può essere comparato unicamente con l’insurrezione zapatista del 1994. La risposta popolare agli abusi di Ulises Ruiz Ortiz è stata tanto inaspettata come di massa, creativa e piena di speranza. All’ecologia della paura gli abitanti di Oaxaca hanno risposto con l’ecologia della festa che è decisamente salda nella tradizione locale. Contro i deliri del potere, hanno riaffermato il loro diritto al tirannicidio non violento che si riassume nel motto: “è caduto, Ulises è caduto”.
L’APPO è il risultato di un lungo processo di una somma di esperienze storiche – di errori e di conquiste – che convergono nell’obiettivo comune di democratizzare le strutture del potere. Anche se abbiamo visto che il contenuto di questa democratizzazione è in discussione, è stato però sicuramente l’asse capace di agglutinare un movimento eterogeneo che non può essere compreso partendo dalle analisi tradizionali marxiste o sociologiche.
“Oaxaca si colloca in linea di continuità con la Comune di Parigi e con le collettività andaluse, catalane e aragonesi createsi durante la rivoluzione spagnola del 1936-1938, in cui l’esperienza di auto-gestione gettò le basi di una nuova società”, ha scritto Raoul Vaneigem in un appello alla solidarietà internazionale pubblicato in Messico sulle pagine del quotidiano “La Jornada” (27).
Vaneigem ha ragione, nel senso che quanto successo a Oaxaca nel 2006 è una speranza per tutti noi che cerchiamo alternative alla barbarie imperante dentro e al di fuori del Messico. Indubbiamente è anche vero che la repressione ha annichilito queste speranze. Non voglio ricordare ora il calvario che ha vissuto il popolo di Oaxaca a partire dal 27 ottobre 2006, giorno in cui sono stati uccisi il giornalista Brad Will a Santa Lucía del Camino e un numero indeterminato di persone a Santa María Coyotepec.
A questo proposito la fonte principale continua ad essere la già citata relazione della CCIODH che conclude affermando che: “la Commissione considera che i fatti avvenuti a Oaxaca rappresentano una scivolata di una strategia giuridica, poliziesca e militare, con componenti psico-sociali e comunitari il cui ultimo obiettivo è riuscire ad arrivare al controllo e all’intimidazione della popolazione civile in zone in cui si sviluppano processi di organizzazione cittadina o movimenti dal carattere sociale non legato ai partiti” (28).
Ho partecipato all’esperienza e sono testimone che questa conclusione non solo è da ritenersi moderata ma che, addirittura, è ancora poco generosa nei confronti della realtà. Pur se è possibile comprovare che fino alla metà del gennaio 2007 ci sono state per lo meno ventitre vittime (tutte vicine al movimento), non possiamo però documentare il grande numero di desaparecidos iniziato fin dai primi giorni del conflitto. Perchè? Perchè il terrore è tale che la gente non osa denunciare la scomparsa dei loro cari, nemmeno di fronte a una realtà sicura come la CCIODH.
Gli abusi della forza pubblica non sono stati “eccessi” o “errori” ma un freddo esperimento di ingegneria sociale in cui i poteri federali hanno agito in maniera coordinata con quelli locali. Cosa volevano?
Probabilmente misurare quanta repressione può sopportare un popolo senza farsi scappare di mano la situazione. Come sostiene giustamente Armando Bartra: “Prepararsi per affrontare masse infuocate vuol dire supporre che stanno per sollevarsi” (29).


A Oaxaca le masse hanno fatto la loro comparsa e, come in America Centrale negli anni Ottanta, il proposito è stato quindi quello di “togliere l’acqua al pesce” (come predicano i manuali di contro-insurrezione), seminare il terrorismo e mostrare al cittadino comune cosa gli può succedere se oltrepassa una determinata linea. L’inaudita pena di 67 anni inflitta di recente a Ignacio del Valle, a Felipe Álvarez e a Héctor Galindo – leaders del Frente de Pueblos en Defensa de la Tierra (Fronte dei Popoli in Difesa della Terra, FPDT) di Atenco – rei come i loro fratelli di Oaxaca dell’orribile reato di dissidenza, getta una luce sinistra sul Messico calderonista (30).
Qual è il bilancio di sette mesi di contro-insurrezione? Lo stato di terrore prosegue, nonostante le dichiarazioni ufficiali vadano in senso contrario. I prigionieri vengono liberati in modo arbitrario e con il contagocce, come parte della stessa strategia contro-insorgente con cui sono stati arrestati (31).
C’è stata una graduale ritirata delle masse e mentre tacevano le voci partecipative della pluralità, i gruppi della vecchia sinistra hanno conquistato spazi che prima non avevano. O, meglio detto, li avevano i loro integranti in quanto partecipanti legittimi al movimento, non come dirigenti di tale o tal altro gruppo.
Alcuni di loro lavorano giorno e notte per trasformare l’APPO in una organizzazione politica verticale di stampo stalinista. Questo lo si è visto, ad esempio, nel Congresso Costitutivo dell’APPO (10-12 novembre 2006) o durante l’”Assemblea Popolare dei Popoli del Messico” – tentativo in gran parte fallito di “esportare” il modello APPO – quando un noto esponente del “Fronte Popolare Rivoluzionario” (FPR) ha affermato senza alcun problema che “il movimento di Oaxaca è un movimento di dirigenti” (32).
Alle lotte tradizionali tra le vecchie organizzazioni che hanno alle spalle trent’anni di sconfitte, si è aggiunta a partire dal febbraio 2007 la scissione sul tema elettorale: partecipare o no alle elezioni locali che si sarebbero celebrate alla fine di giugno. Si è formato, all’interno dell’APPO, un blocco elettorale (FPR, FALP, NIOax, ecc.) che ha intrapreso una battaglia mortale con il blocco astensionista (VOCAL, CODEP, CIPO, POS, ecc.). A sua volta, il blocco elettorale si è diviso per conflitti interni: chi voleva stare con un partito, chi con un’altro.
Alla fine nessuno ha avuto molti risultati perchè, con la sua solita generosità, il PRD (33) ha concesso loro una sola candidatura. I danni, invece, sono stati incalcolabili. Uno è, probabilmente, la detenzione di David Venegas – consigliere dell’APPO, eletto dal settore barricadero – appartenente al VOCAL, libertario e astensionista. Il 13 aprile David è stato arrestato mentre si dirigeva a una riunione dell’APPO, con la fantasiosa accusa di essere in possesso di trenta grammi di cocaina e di due bustine di eroina.
Alcune settimane dopo, ha lanciato dal carcere gravi accuse contro alcuni noti dirigenti del blocco elettorale a cui ha attribuito la responsabilità del suo arresto. Senza entrare nel merito della questione, rimane il fatto che David è stato fermato con lo stesso capo d’accusa che questi avevano fatto circolare contro di lui ben prima del suo arresto (34). Come se non bastasse, nel mese di marzo, come parte della sua controffensiva, la polizia aveva seminato esplosivi nelle vicinanze di quella che era stata la barricata di Brenamiel, accusa immediatamente smentita dallo stesso David in conferenza stampa (35).
Stando così le cose, sarebbe inutile cercare le organizzazioni pure, separare quelle “buone” da quelle “cattive” o quelle “rivoluzionarie” da quelle “riformiste”. Le linee di divisione non passano dalle organizzazioni, le attraversano. Anche tra gli stalinisti del FPR si trovano dei compagni e delle compagne coraggiosi. Ridare vigore al movimento non è nemmeno un compito etnico. Il contributo degli indigeni è fondamentale, al di fuori di ogni dubbio, ma nemmeno loro sono immuni dalla corruzione né dalla funesta seduzione della politica professionale, come diverse persone mi hanno personalmente riferito.
David suggerisce che “se il cammino che offre l’APPO [...] è stretto e accidentato, questo popolo eroico saprà cercare e trovare altrove la strada per la sua liberazione” (36). La diagnosi è severa, ma non ci appare molto lontana dalla realtà. Ma anche così non è tutto perduto. A Oaxaca circola una domanda: come ricreare il magico movimento dell’anno scorso? Solo le donne e gli uomini che hanno partecipato al movimento possono trovare la risposta.

Claudio Albertani
(traduzione dal castigliano di Arianna Fiore)


Note

  1. Luis Arellano Mora, “Oaxaca: la pobreza en cifras”, in: http://www.transicionoaxaca.com.mx/index.php?option=com_content&task=view&id=42&Itemid=75.
  2. Carlos Fazio, ¿Hacia un estado de excepción?, in “La Jornada”, 4 dicembre 2006.
  3. Partido Acción Nacional.
  4. Partido Revolucionario Institucional.
  5. “La Jornada”, 9 giugno 2007. Si vedano i casi paradigmatici di violenza ed assassinio dell’anziana Ernestina Ascensión a la Sierra de Zongolica, a Veracruz (“La Jornada”, 27 febbraio) e il massacro di una famiglia di cinque persone a Sinaloa. Colpevole di “non essersi fermata davanti a un altolà” (“La Jornada”, 3 giugno).
  6. Si veda: Comisión Civil Internacional de Observación por los Derechos Humanos (CCIODH), Informe sobre los hechos de Oaxaca, http://cciodh.pangea.org/quinta/informe_oaxaca_cas.shtml.
  7. In Messico si chiamano “mapaches” non solo gli orsetti lavatori, ma anche gli operatori delle frodi elettorali che grazie alla manipolazione dei voti depositati nelle urne trasformano una sconfitta in vittoria, o annullano il trionfo di un partito, generalmente all’opposizione.
  8. Intervista a Ismael Sanmartín Hernández, direttore editoriale di “Noticias de Oaxaca”, 29 dicembre 2006.
  9. Il tequio o servizio comunitario obbligatorio sovente è il pilastro del lavoro comunale. Gli uomini hanno l’obbligo di offrire alcune giornate di lavoro per la costruzione di opere pubbliche: strade, scuole... Chi non può prendervi parte paga una persona come personale forma di contributo. Questa forma tradizionale di organizzazione era ed è un elemento centrale della coesione sociale comunale (n.d.t.).
  10. Si veda: mexico.indymedia.org/tiki-download_file.php?fileId=62.
  11. Atenco è un paese della valle del Messico che nel 2002 vinse una lotta contro la costruzione di un aeroporto nei suoi territori comunali. Come rappresaglia, nel maggio del 2006, subì una vera e propria aggressione militare, in cui due persone morirono, decine riportarono ferite e 150 vennero arrestate; ventotto di loro permangono tuttora in carcere. Si veda: Comisión Civil Internacional de Observación por los Derechos Humanos, Informe preliminar sobre los hechos de Atenco, 2006, http://cciodh.pangea.org/cuarta/informe_preliminar.htm.
  12. Per questa rapida ricostruzione mi sono basato sulle mie stesse interviste, nell’Informe sobre Oaxaca, op. cit. e sulla narrazione di Gustavo Esteva in occasione della “Reunión de análisis sobre el movimiento social en Oaxaca. Diálogo entre miembros de organismos civiles e instituciones académicas de Oaxaca y la Ciudad de México”, Universidad de la Tierra, Oaxaca, 18 marzo 2007.
  13. “La Jornada”, 19 giugno 2006.
  14. Intervista a Miguel Linares Rivera, realizzata da Hernán Ouviña, Città del Messico, 29 ottobre 2006, http://www.espacioalternativo.org/node/1731.
  15. Intervista a Gustavo Esteva, Universidad de la Tierra, Oaxaca, 3 novembre 2006.
  16. David Venegas Reyes, “Alebrije”, lettera da Ixcotel, 23 aprile 2007, http://chiapas.indymedia.org/display.php3?article_id=144954.
  17. Intervista a Nicéforo Urbieta, 3 maggio 2007.
  18. David Venegas, lettera citata.
  19. Nelle comunità indigene i “topiles” vengono eletti in assemblea ed esercitano gratuitamente la giustizia con il bastone di comando e senza la necessità di portare le armi.
  20. Questo ha dato luogo alle aspre critiche di un gruppo anarchico che ha visto nell’APPO un movimento della piccola borghesia (!). Si veda: Oaxaca: APPO y el reformismo de siempre, http://argentina.indymedia.org/news/2006/11/463625.php.
  21. Miguel Linares Rivera, intervista citata.
  22. Intervista a Flavio Sosa, 4 novembre 2006.
  23. G. Esteva, intervista citata.
  24. Intervista alla dottoressa Berta Muñoz, Oaxaca, Città Universitaria, 3 novembre 2006.
  25. Las barricadas fueron la manera en que el pueblo mantuvo al movimiento, intervista a “Drak”, pseudonimo di un membro del Consiglio Statale dell’APPO e alla barricata di Soriana: http://lavoladora.net/content/view/690/82/.
  26. Questo collettivo ha realizzato un magnifico lavoro di catalogazione dei successi di Oaxaca. Si veda: http://www.maldeojotv.net.
  27. Raoul Vaneigem, Llamado de un partisano de la autonomía individual y colectiva, in “La Jornada”, 11 novembre 2006.
  28. CCIODH, Conclusiones y recomendaciones preliminares, in: http://cciodh.pangea.org/quinta/070120_inf_conclusiones_recomendaciones_cas.shtml.
  29. Armando Bartra, El tamaño de los retos, in “La Guillotina”, n. 56, primavera del 2007.
  30. ”La Jornada”, 6 maggio 2007.
  31. Secondo “Noticias de Oaxaca” del 9 giugno 2007 rimangono unicamente sei detenuti e una ventina di ordini di cattura verso i membri dell’APPO. A questi bisogna aggiungere un numero indeterminato di prigionieri politici di altri conflitti, soprattutto nella regione dei Loxicas e di Santiago Xanica.
  32. 11-12 novembre 2006, locale del SITUAM, Città del Messico.
  33. Partido de la Revolución Democrática.
  34. David Venegas, lettera del 15 maggio 2007, http://www.vocal.lunasexta.org/davidvenegas/carta-de-david-15-de-mayo.html.
  35. ”La Jornada”, 14 aprile 2007.
  36. David Venegas, 23 aprile, lettera citata.