Ma forse possediamo altri organi
oltre alla ragione, organi che
allora non conoscevamo
e che potrebbero farci capire
questa realtà sconcertante. (1)
Etty Hillesum, “Lettera a due sorelle dell’Aja”
(Amsterdam, dicembre 1942).
Nel 1981 quando l’editore De Haan pubblicò il Diario di Etty Hillesum questo era stato letto da molte persone. Il Diario si salvò quindi perché qualcuno fu fedele a un mandato non scritto: conservare pagine che si lasciano leggere non “sulla” ma sopra la pagina, sopra l’abrasione che queste producono a un primo contatto e alla presa d’atto che è la nostra umanità ad essere impegnata in una lettura che non ci nasconde a noi stessi ma ci rivela. Ogni rivelazione si fa apprendimento nei giorni, diviene equilibrio per affrontare quel radicale male che è ogni ideologia e ancor più è necessità di rivelazione se l’ideologia è aberrante come lo fu il nazismo.
Etty Hillesum scavò con parole di tenerezza chiarissima l’impossibilità che pervadeva il suo tempo. Strinse quel tempo come se dovesse spogliarsene stringendolo, come se non fosse un tempo quotidiano ma tutto il tempo di ogni vita. Quello che ci è rimasto sono un diario e poche lettere che senza sfida ci sfidano, ci interrompono nel nostro accanimento a farci sovrumanamente adatti al mondo e ci lasciano invece soli in un compiersi di presente che ha domande a cui non c’è risposta o non una sola e non sempre questa risposta è voce – parola, grido – gridato. (2)
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Etty Hillesum (1914-1943) |
Senza riparo
Non mi soffermerò in questo scritto sul Diario, rimandando a un mio precedente testo su Hillesum uscito nella rivista “A” nel 1999 (3). Sarà un percorso di lettura attraverso alcune delle lettere che ci sono pervenute, in Italia pubblicate da Adelphi nel 1990 con il titolo Lettere 1942-1943. (4)
Mentre scrivo il muro delle ideologie sembra rafforzare la sua presa sul mondo. Il caos che in parte occulta in parte rivela i meccanismi di manipolazione della mente pare farsi più denso. E nel distacco dalla parola posso solo trovare una parola che aiuti la mia a dirsi. A mia volta conto su questa reciprocità ideale e forse etica con Hillesum per restituire ciò che prendo e per tentare quell’apprendimento di significato che è senza resa di fronte alla violenza.
Etty Hillesum affrontò vita e scrittura senza riparo. Intese molto presto che non c’era salvezza e che una promessa in tal senso era un buio più profondo, un’illusione per strapparsi al dominio degli eventi più tragici senza che fosse intaccato il potere della realtà di essere in quel momento una macchina che produceva dolore, sofferenza, sterminio. La realtà era il destino che i più forti decretarono per il popolo ebraico e per altri popoli, nonché per avversari politici e altri gruppi definiti come “inferiori”. La realtà era la sopravvivenza nel campo di Westerbork dove un’umanità scossa si parlava non sapendo forse fino in fondo che cosa in quel parlare era necessità o solo frase e cosa era resistenza prima ancora che pietas. Testimoni di se stessi senza sguardo amico di cui potessero dire con certezza che sarebbe rimasto a convalidare le loro vite, gli internati del campo di Westerbork si sono fermati nelle lettere di Etty Hillesum come figure irrevocabili o come umanità che non può spiegarsi.
Tutto questo ce li avvicina. Non si può fare a meno di cercare la persona più piccola e il gesto più piccolo trascritto da Etty, come per riempirsi di una consistenza che lascia un sapore di cose un po’ dure e agre, ma inestinguibili: cose che ci disarmano nella stessa fame di domanda e risposta.
Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore non diventerà così sfinito e consunto da non poter più volare liberamente come un uccello. (5)
L’Europa è ridotta a un immenso campo di concentramento quando il 2 dicembre 1942 Etty Hillesum scrive la sua lettera a due sorelle dell’Aja. È una delle due lettere che verranno pubblicate dalla resistenza olandese. L’espediente della lettera è il modo scelto per parlare e far parlare il “campo”, quell’agglomerato di baracche e fango nel Drenthe, regione dimenticata, luogo non-luogo da sempre, di cui fino a poco tempo prima la stessa Hillesum confessava di aver saputo ben poco. In quello spazio esausto, in cui decenni prima si era smarrito e trovato quel Vincent Van Gogh che lì scoprì la propria vocazione pittorica, vi è un filo che unisce e separa in modo netto: il filo spinato che chiude il campo e lo delimita.
Il margine rivela sempre ciò che sta da un lato e dall’altro e lo rivela da entrambi i lati mostrando che chi chiude è chiuso, che ciò che è limite qui è limite anche dall’altra parte. “Noi dietro il filo spinato!” dice un vecchio del campo, “sono piuttosto loro a vivere dietro il filo spinato” (6) e se questo dietro il filo spinato è chiaro quando si parla come in questo caso di olandesi ed ebrei (i portatori di cittadinanza e gli espulsi dalla cittadinanza), più arduo è vedere i fili che attraversano il campo stesso, le persone una ad una, le coscienze e gli smarrimenti di ognuno: “ma anche nel campo stesso, intorno e fra le baracche, si snodano questi fili del ventesimo secolo […]. Di tanto in tanto si incontrano persone con graffi sul viso e sulle mani”. (7) L’espulsione dalla cittadinanza è il preludio all’espulsione dall’umanità.
A questa cancellazione la Hillesum fa una resistenza di tipo nuovo. Si alza sopra il coro delle lamentazioni e pare suggerire, in verità afferma, che i duri fatti e gli eventi che loro stanno affrontando e affronteranno con la deportazione non vanno abbandonati al proprio destino, ma ospitati nella coscienza profonda perché divengano un crescere e un comprendere forti. Solo in questo modo potrà accadere che la loro generazione sia “una generazione vitale” (8), solo questo darà significato alla sofferenza, solo una coscienza attenta restituirà la vita tolta.
Lo sguardo di Etty Hillesum è solitudine. C’è questa solitudine di vedere e di non avere che il disarmarsi davanti all’impossibilità. Dovrei usare parole come orrore, abominio, aberrazione, ma non è il carico delle parole a fare una tragedia o a farcela comprendere, è il modo in cui le trascriviamo, il modo in cui ci impegniamo con loro. Impegnarsi ha nel suo etimo il “pegno”, dare in pegno qualcosa, una parte di noi da di sé qualcosa che deve essere riscattato. Il riscatto non è una mera questione di riprendersi ciò che è dato, ma di renderlo a tutti, di lasciare che ognuno possa farne un personalissimo percorso che sia nello stesso tempo un cammino di vicinanza. Anche le parole chiedono un riscatto, hanno un margine, un qui e un là che dicono una cosa e quello che ne sta fuori o oltre. È quell’oltre che noi dobbiamo cercare di riprenderci.
Il campo di Westerbork fu creato nel 1939 dal Dipartimento di Giustizia olandese per “ospitare” i profughi che arrivavano dalla Germania nazista. Uomini e donne dalla vita spersa, sperduti anche nella voce, inascoltati dal mondo, invisibili perché resi afoni nel loro spiegarsi, mai bene accetto dal perbenismo che ogni epoca usa per rendersi cieca. La cecità è l’altro lato del vedere. In verità quella società ha visto completamente quelli che sottrae allo sguardo, ha però deciso di non domandarsi che fine faranno quei profughi e cos’è la loro fuga e il loro trovarsi fuori posto così visibile da dover essere occultato. Le domande premono e la risposta è disumanizzare il profugo perché se ci si impegnasse con lui/lei, questo impegno potrebbe rivelarci a noi stessi in molti modi dei quali alcuni non piacevoli.
Potremmo scoprire che per noi quell’impegno-pegno è nell’accezione più deteriore una forma di usura: do ma in cambio avrò gli interessi. La nostra stessa società è in un frangente in cui si giocano sulla ridefinizione del concetto di cittadinanza istanze molto diverse e alcune di queste sono mero calcolo politico da parte di tutti gli schieramenti. Inoltre abbiamo i nostri campi che sigle postmoderne (Cpt, ecc.) tentano di occultare. Abbiamo i nostri “ebrei buoni” e quelli “cattivi” o meglio “non meritevoli” tra cui evidentemente si annovera quell’oltre cinquanta per cento di migranti donne su cui poche parole, quando non nessuna, si spendono. Se una seria riflessione fosse in atto su questo, non ci sarebbe tanto silenzio su quella che Gayatri C. Spivak definisce come la donna più povera e sfruttata del Terzo Mondo ovvero il soggetto subalterno per eccellenza. (9) Se potessimo osservare da un qualche luogo al riparo il nostro sguardo sugli altri/sulle altre, come sfuggire alla conclusione che selezioniamo con gli occhi il vedere?
Come non sapere quindi che ciò che è estromesso dal margine e ciò che sta sul margine, in bilico, sono comunque quello che tocchiamo e nessun filo spinato può impedire alla mente di percepire anche questo? Di quali confessionali abbiamo bisogno per annetterci le nostre bugie e forse domani scoprire piccole verità?
Le piccole verità
Non è rimasta molta brughiera dentro al recinto di filo spinato, le baracche diventano sempre più numerose. Ne è rimasto un pezzetto in un estremo angolo del campo, ed è lì che sono seduta ora, al sole, sotto uno splendido cielo azzurro e fra alcuni bassi cespugli. (10)
Le piccole verità spesso partono dai piccoli dati sensibili che il corpo può captare. Le situazioni più estreme a volte fanno scoprire una semplicità che, nella complessità degli avvenimenti, potremmo ritenere di inseguire vanamente. Eppure la parola coglie sempre la vita. Anche quando è il pensiero ad essere detto ciò accade perché esso ha preso consistenza, si è tramutato in uno spazio di vita. È in questi sprazzi delle lettere che Etty Hillesum si spoglia, mette a nudo la carne dolente con il mostrare la semplicità delle cose, quel diventare/divenire comunque dell’esistenza. L’insensatezza che qualcuno potrebbe avvertire in questo comunque che scrivo in corsivo, si fa angoscia trattenuta in un altro paragrafo della stessa lettera a Han Wegerif (di cui sopra) scritta nel giugno del 1943 a poche settimane dalla deportazione e mentre una deportazione è in atto: “Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là, così principeschi, così pacifici, su quella cassa sono sedute a chiacchierare due vecchiette […] sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile.” (11)
L’angoscia è anche nella pacatezza del racconto, fatto sempre ad Han Wegerif ma in un’altra lettera, circa alcune delle mansioni svolte da Hillesum e da altri nel campo di Westerbork. Nessun metro può rendere l’ampiezza dello strazio del dover vestire bambini, aiutare madri, vecchi e consolare ragazzi messi da un momento all’altro di fronte alla realtà della deportazione col suo carico di buio: “sappiamo bene che abbandoniamo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione […]. Che avviene qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati?” (12)
Non posso non pensare che tutto questo ha potuto accadere per l’indifferenza del mondo. Intere società civili hanno ritenuto compatibile un certo modo di trattare alcune particolari persone, spinto fino alla reclusione, alla deportazione nonché all’imposizione di un marchio, con i loro principi di moralità. Fino a che l’ingiustizia tocca altri/e, non ne siamo se non in pochi/e, scossi. È più che un modo di cancellare: è il modo in cui i privilegiati fondano il loro privilegio. È solo con l’esclusione parziale o totale di alcuni/e che si attua per altri un di più, che è un avere dei privilegi. È in nome di questi privilegi che occhi e orecchie si chiudono. Anche lo sdegno morale sembra troppo, come una concessione, fatta pur sempre a degli inferiori. Le piccole verità sono dati sensibili ma, anche se può non piacerci, sono un cuneo che apre un qualcosa di duro, di indigesto, quello che non si ammette perché pare ovvio.
Quell’ovvio prende il nome di discriminazione, razzismo, sessismo, classismo, ecc. come se fossero dati naturali e non il risultato di una costruzione imposta. La facilità con cui liquidiamo le questioni spinose, ammantando di grandi verità ciò che è invece pregiudizio e che come tale se analizzato non reggerebbe, dice il punto esatto in cui siamo. Il lato peggiore di questa costruzione imposta lo vediamo in chi è connivente e rimprovera chi usa la propria voce per chiedere diritti, uguaglianza e opportunità di vita.
Indescrivibili
C’è un libro, di cui non si sa bene da dove venga né chi scriva o trascriva e che in certi momenti sembra opera di un pazzo o di un folle di Dio, che si chiama Il Libro di Mirdad. (13) Pare scritto per distruggere le poche certezze che qualcuno può ritenere di avere sulla divinità. Se la nostra spiritualità è un cadere verticale, essere toccati nel vivo dall’indescrivibilità di Dio o se preferiamo del divino, significa riconoscere che quell’indescrivibilità è anche nostra.
“Quando Dio l’Indescrivibile espresse voi, espresse Se Stesso in voi. Quindi anche voi siete indescrivibili.” (14) Dunque è la nostra indescrivibilità il perno delle nostre stesse domande. Ed è sempre quest’ultima che porta con sé l’ansia di categorizzazioni, quel voler definire gli altri che è la chiave per la loro collocazione e la loro governabilità. Etty Hillesum quando si domanda in cosa tutti loro siano impigliati si porta dietro la nostra stessa richiesta di risposta, che arriva, ma solo come non risposta. Nel fondo di questa non risposta c’è la nostra umanità, tutto il nostro essere allo sbaraglio, esposti non tanto alla vita o alla morte, ma ai nostri simili/dissimili. La nostra unicità indescrivibile che è la nostra universalità. Purtroppo non trovo parola migliore di questa. Parlarne è comunque ricordare che Etty Hillesum è parte integrante della tradizione umanista con cui, ci piaccia o no, tutti abbiamo un debito.
L’ascolto è l’altra grande questione che l’indescrivibilità dell’umano porta con sé. Apprendere un altro ascoltare è educarsi non soltanto a una prassi di civiltà, ma in senso profondo è esprimere la nostra responsabilità verso ognuno. L’ascolto autentico uccide la viltà, impedisce che le nostre scorie di pregiudizio si accumulino, ci lascia protesi e attenti verso il chi? Il chi con punto di domanda dell’altro/a.
Nell’amore non c’è né più né meno. (15)
Cosa sono il più e il meno se non segni di una rinuncia in anticipo, che si dà subito nelle parole, a quello che ci compiaciamo di chiamare sentimento? Uso di proposito questa termine antiquato per mettere in rilievo che ci vergogniamo del sentimento perché preferiamo il sentimentalismo ammantato di ruvidezze e durezze altrettanto finte e ormai tanto usuali da essere usurate, logore. Uso “sentimento” per dire che anche il sentire non basta, non più. Se viviamo imprigionati nel più e nel meno, più che a frasi compiute dovremo (totalmente?) affidarci ai calcolatori elettronici, allo standard sociale che ci descrive in una tabella del PIL nazionale o cose simili. Oppure potremmo deciderci a un silenzio pieno di significato o a una igiene alfabetica che ci imponga di non parlare se non in casi estremi: vedere le parole disfarsi di se stesse? Comprendere con Etty che possiamo essere noi semplici?
Imparare ad imparare
Il Diario e poi Le lettere della Hillesum (16) sono testi per apprendere la concretezza di una condizione umana altrimenti illeggibile. Possiamo leggerli come testimonianza singolare e/o come un estratto di storia che si fa plurale, si fa densa nel suo esplodere sulla pagina in cui nomi propri e nomi di luoghi ci narrano la riduzione a nuda vita. (17) La nuda vita di chi non avendo più nulla verrà sterminato. Se nel parlare di interculturalità portassimo nelle scuole questi due libri come libri di testo e li facessimo leggere ad allievi di ogni classe sociale, genere e provenienza, potremmo tentare di spiegare che l’inspiegabile è quanto meno sempre evitabile? Che il non evitare queste tragedie è voluto? Che l’educazione a una “norma”, così come quella alla mera “tolleranza”, creano “l’inferiore”? Che solo un imparare insieme ad imparare di nuovo può toglierci dalle secche dell’odio, odio che in ultima analisi è incapacità?
Lasciando il punto di domanda tengo aperta la porta a una critica propositiva che in Italia in particolare sui temi del razzismo ha visto un grande lavoro da parte di Paola Tabet e di alcune altre persone che da molti anni si adoperano nella scuola e tra i ragazzi per smuovere i pregiudizi.
Ci sono brani del Diario di Etty Hillesum in cui è evidentissima la sopraffazione quotidiana che gli ebrei subivano sotto l’occupazione nazista. È su questa sopraffazione, tanto comune da apparire a chi meno attento “naturale” (le cose che si ripetono appaiono sempre, dopo un po’, “naturali”), che vorrei soffermarmi un attimo.
Il disgusto si impara e, fatto fondamentale per un discorso sulla responsabilità anche individuale, lo si insegna, di proposito o senza consapevolezza precisa. Il disgusto inoltre si produce per condizionamento sociale. (18)
Le risposte che razzismo, sessismo e omofobia danno hanno la caratteristica di ridurre l’atro/a a animale. (19) Il meccanismo di spogliare di ogni caratteristica positiva i gruppi definiti diversi è finalizzato alla loro esclusione sociale e se il caso lo consente anche alla loro uccisione. Nel nostro mondo attuale il femminicidio in molti paesi dell’Asia è una nuda realtà. Non se ne parla per una complicità atavica tra poteri maschili (si chiamino fondamentalismi religiosi o ragione di Stato ) e lo stesso è per la cancellazione dei popoli Rom e Sinti in quanto popoli senza Stato e così è per il rigurgito di omo/lesbofobia cui stiamo assistendo.
[…] ci vorrà un bel pezzo di vita per digerire ogni cosa. (20)
Ammesso si possa digerire un genocidio, ci rimangono, sospese e vive, le domande e le non risposte con cui conviviamo. Escono ed entrano in noi con forza, ma è il loro interrogarci che ci chiama a un compito non facile: essere nuovi ogni giorno. Nuovi vuol dire meno incapaci. Se, come dicevo, l’odio è incapacità, imparare da capo è un momento in cui il nostro sé sospeso può rifondarsi o almeno può iniziare a pensarsi in un altro modo, meno vincolato e vincolante, fuori dai cori e dalle tribù, ma partecipe di un cammino comune. Con Paul Celan: “Riunito è tutto ciò che vedemmo,/ a prender congedo da te e da me:/ il mare che scagliò notti alla nostra spiaggia,/ la sabbia, che con noi l’attraversò in volo,/ l’erica rugginosa lassù,/ tra cui ci accadde il mondo. (21).