Rivista Anarchica Online


 


Disabilità/
Il nuovo film di Silvano Agosti

Il cinema per voi è spettacolo,
per me è una visione del mondo,
il cinema è un atleta,
il cinema è portatore di idee,
il cinema svecchia la letteratura.
Ma il cinema è malato,
l'industria gli ha gettato
negli occhi una manciata d'oro.
Abili imprenditori,
con storie lagrimose
ingannano la gente...
Wladimir Majakovskij

Si tratta di un'opera che mi ha impegnato per circa due anni per offrire una visione diversa del Disabile e soprattutto del modo unico e raro adottato da Luigi Orazio Ferlauto, protagonista del film, per togliere dalla segregazione delle cantine o di locali appartati nei quali “parcheggiare” i soggetti emarginati dalla cosiddetta “Normalità”. Gli esseri umani sono tutti uguali ma è la loro diversità che li rende unici e grandi.
Silvano Agosti

È uscito da pochi mesi Il fascino dell'impossibile (2015, documentario), film che segna il ritorno al cinema di Silvano Agosti, o meglio un ritorno al “suo” cinema. Dico “suo” cinema perché prima di tutto il film non è uscito nella moltitudine di sale italiane, ma solamente in due: il cinema Azzuro degli Scipioni di Roma e il Piccolo Cinema Paradiso di Brescia; ovvero nei due cinema di Silvano Agosti. È già questo è un segnale di come Agosti non rientri negli schemi dell'industria cinematografica.
“Suo” cinema soprattutto perché Silvano si definisce Autore cinematografico (con la A maiuscola); si difenisce autore di un cinema “indipendente”, nel vero senso della parola, quindi indipendente non per necessità, ma per un voler esser coscientemente sganciato dal denaro e dal “sistema cinema”; si definisce inoltre autore di un cinema “artigianale”, Agosti dice: “Io sono tutta la mia troupe”; non c'è neppure il regista in un certo senso, essendo anche il regista – secondo Agosti – risultato di una scomposizione che è stata fatta già agli albori del cinema, quando l'Autore è stato scomposto nelle varie particine (sceneggiatore, direttore della fotografia, direttore delle luci, del suono, del montaggio) e con la figura del regista-gerarca a fare da collante, e a doversi inserire in uno schema imposto dall'industria del cinema; schema che è rimasto inalterato col passare del tempo e delle “mode” cinematografiche.
Pensando al cinema di Agosti (e alla sua “teoria radicale”), mi continua a venire alla mente il cinema anticonformista e radicale di Guy Debord, che amo molto. Ad esempio, diceva Debord, di come la plebe degli spettatori - che nel corso dei decenni ha visto cambiare così tanto e sempre in peggio “il pane che mangia e l'aria che respira” – venga rispettata solo quando si tratta del cinema di cui ha l'abitudine.
E in effetti dall'istituzione dell'industria cinematografica fino al “Quo Vado” di oggi, può variare di volta in volta il risultato finale (ovvero la bontà del prodotto-film), ma l'essenza del cinema è cambiata molto molto poco (solita trama, soliti ruoli, soliti schemi, soliti trucchetti).
Se ho voluto citare il film “Quo Vado” non è per caso, ma in quanto film uscito a poca distanza (in termini temporali) da “il fascino dell'impossibile”, e film di cui si è parlato molto per via dello strepitoso incasso che ha conseguito (oltre 7 milioni di euro); non c'è bisogno di guardarlo per giudicarne il merito artistico o qualsiasi altro merito, che non sia quello di portare a riflettere su cosa è il cinema, o cosa potrebbe essere.
Interpellato da un fan che gli chiede un commento sul film “Quo Vado”, Silvano Agosti dirà: “Responsabile del successo di questo ragazzo col suo “Quo Vado” è soprattutto il regime, lui, l'autore del film, vive l'innocenza di chi non sa o coltiva la lieve colpa di chi non ha da sempre alcun interesse a sapere”.
In fondo il vero autore del film “Quo Vado” è quello che Agosti chiama il regime e che invece Debord aveva chiamato “società dello spettacolo” (”è una società, e non una tecnica, che ha reso il cinema così com'è” dice molto chiaramente Debord). Non solo “Quo vado” è film del regime, perché come tutta la produzione industriale, anche la produzione di film è variegata e volta ad attirare a sé ogni tipo di consumatore; non solo quando si tratta di commedie. Per questo si puo generalizzare dicendo che tutti i film dell'industria-cinema sono prodotti del regime, per usare sempre il termine di Agosti. E infatti lo stesso Agosti (che nei suoi cinema proietta, oltre ai propri film, anche tanti “capolavori” del cinema, tra cui “Il sale della terra” di Wim Wenders, tanto bello secondo Agosti che verrà proiettato nel suo cinema per sempre), ammette di non riuscire ad individuare più di 7-8 film all'anno meritori di esser proietatti, tra le migliaia di film che in tutto il mondo vengono prodotti ogni anno.
Cosa sono questi film? Debord, riferendosi ai film di fiction con cui generalmente viene identificato il cinema, lo ha ben detto: un film “è l'imitazione insensata di una vita insensata, una rappresentazione ingegnosa per non dire nulla; abile ad ingannare la noia per un'ora con il riflesso della stessa noia”.
Il documentario è una sorta di sottogenere, una categoria minore del cinema, proprio perché mal si adatta al sistema-cinema inteso come industria e come strumento ideologico; il genere “documentario” è anche una “gabbia” dove l'industria del cinema include e rinchiude tutto ciò che sfugge a quello che “deve” essere il cinema nella società dello spettacolo. E Agosti sceglie, o così gli è capitato, di tornare al cinema con un documentario - seppur anomalo così come lo sono altre sue opere non di fiction (”Matti da slegare”, “D'amore si vive”). Come in un “vero documentario” non c'è una trama, non ci sono attori, e c'è un soggetto, però “Il fascino dell'impossibile” ha elementi che non appartengono al documentario, soprattutto l'essere un film “anti-spettacolare”. Intendo con questo: Agosti riesce a non fare spettacolo, ancora similmente a Debord, preferisce usare a suo modo la tecnica del cinema anziché aggiungere uno spettacolo di più al cumulo di immagini prodotte da una società. Questo a rischio (o “pagandone il prezzo”) di realizzare un film che non arriva al “grande pubblico”. Agosti dice che un Autore può e deve essere innanzi tutto un poeta, nel senso etimologico di “colui che fa” (poiesis). Quindi anche ne “Il fascino dell'impossibile”, Agosti cerca di fare, ma fare come poesia, non come spettacolo. [...]
Possono essere dette molte cose sul film, sui suoi protagonisti, sul progetto dell'Oasi, sulle musiche di Ennio Morricone, su come Agosti riesce a immortalare questo piccolo micro-mondo. Mi limiterò a sottolineare solamente due cose. La prima è un discorso sul ruolo. Silvano Agosti da tempo muove una sua critica alla società di oggi, e una parte di questa critica riguarda il tema del ruolo: “Oggi ci sono politici, medici, ingegneri, pittori, imbianchini, operai (ecc...) e non ci sono più essere umani”. Il protagonista del film, Luigi Orazio Ferlauto, sarebbe (ed è) un prete, ma nessuno se ne può accorgere; non perché venga occultato un dato di fatto, ma semplicemente perché Ferlauto passa per ciò che è: un essere umano. O almeno così lo riesce a “rendere” Silvano Agosti, essere umano al pari di tutti gli altri protagonisti disabili e abili, pazienti e volontari, tutti equiparati, appaiono ugualmente abili e ugualmente disabili nella “diversità che li rende unici e grandi”.
L'altra cosa è invece questa: in un certo senso c'è poco da dire sul film in sè, perché - e qui sta il bello del film -, il vero film inizia quando si spegne il grande schermo e si “ritorna” alla vita. E si torna più ricchi, più stimolati, più umani. Si spegne uno schermo e se ne accende un altro, o si “accende” uno specchio per vedere se stessi. Lì dovrebbe iniziare la sfida del fascino dell'impossibile, o meglio il fascino di un impossibile che però ora sappiamo essere possibile.
Concludo riportando un estratto dal libricino di Silvano Agosti intitolato “Come fare un film”; importante notare come una riflessione di Agosti sul tema dell'utopia, nel cinema ma anche nella vita, riflessione che ben si addice all'utopia realizzabile e realizzata de “Il fascino dell'impossibile”, film che “rappresenta la potenza del fare”:
“Per realizzare un'utopia creativa è essenziale collegarsi all'utopia della libertà. L'utopia della riconquista di tempi di vita nuovi, vasti quanto debbono essere i tempi del sogno. Insomma liberiamo il cinema, e gli esseri umani, da imposizioni e ritmi che sono industriali e riconduciamo la vitalità sia del cinema che dell'essere umano, a ritmi naturali, quindi creativi. Così l'utopia si celebra nell'evidenza di un'umanità finalmente in grado di creare e di vivere. E il cinema, specchio innalzato di fronte alla natura, rifletterà finalmente il mistero dell'essere, nella sua interezza e profondità”.
A questa concezione “utopica” del cinema sembra corrispondere “Il fascino dell'impossibile”, messaggio di vita e amore gettato in un mare di mediocrità. [...]

Michele Salsi



Carlo Cafiero/
Alle origini del socialismo

Su “A” ci siamo già occupati della biografia di Carlo Cafiero scritta da Pier Carlo Masini pubblicando, in concomitanza con l'uscita della prima edizione del volume, un'intervista all'autore (“A” 30, giugno-luglio 1974) oltre a una recensione della seconda edizione pubblicata dalle edizioni BFS (“A” 392, ottobre 2014).

Perché pubblicare, a cura di Franco Bertolucci e di Furio Lippi, per le Edizioni della Biblioteca Franco Serantini, una nuova edizione della biografia di Carlo Cafiero, scritta da Per Carlo Masini (Cafiero, BFS, Pisa, 2014, pp. 280, € 20,00) e perché proporne la lettura?
Certamente perché la biografia risulta essere stata aggiornata dall'autore, rispetto alla prima edizione del 1974, pressoché introvabile. Ovviamente non soltanto per questo, sebbene, nel panorama editoriale della bibliografia sull'anarchismo si sentisse, per conoscere la sua figura e la sua opera, la mancanza della unica biografia di Cafiero.
Prima dell'odierna edizione e non avendo a disposizione la precedente edizione, chiunque si avvicinasse alla vasta letteratura sull'anarchismo ottocentesco in Italia, avrebbe potuto documentarsi su Cafiero dalla “Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta” e dalla “Storia degli anarchici italiani nell'epoca degli attentati”, entrambi testi di Pier Carlo Masini, oppure da “Carlo Cafiero nella storia del primo socialismo italiano” di Franco Damiani e da “Carlo Cafiero” di Gianni Bosio, riferimenti bibliografici che non sono la biografia, ma che sono comunque essenziali per collocare Cafiero nella sua epoca.
Un altro motivo della riedizione potrebbe essere porre a disposizione del lettore una componente fondamentale, quale la vita e l'opera di Cafiero è stata, dell'affresco, alla cui realizzazione Masini ha dedicato con dedizione la sua vita di storico, costituito dall'azione internazionalistica antiautoritaria in Italia e dal socialismo libertario. Perciò suggerire con questa riedizione un ulteriore approfondimento, attraverso la copiosa produzione storiografica di P. C. Masini, di un'epoca storica posta alle origini del socialismo in Italia, alla quale riferirsi idealmente, nella vita di ogni giorno, per i temi di giustizia, di uguaglianza e di solidarietà umana, dai quali era caratterizzata.
Un altro motivo ce lo dice Franco Bertolucci quando, nella postfazione del libro dedicata a Pier Carlo Masini, gli studi su Cafiero e la Prima Internazionale, che è uno studio dettagliato e completo per comprendere la genesi della biografia ed il ruolo che svolse Gianni Bosio negli studi su Cafiero, scrive il suo motivo: “Leggere e studiare l'affascinante e sofferta vicenda biografica di Carlo Cafiero, qui raccontata magistralmente, è utile non solo per comprendere la storia originale della diffusione in Italia del primo socialismo, in particolare di quello di matrice antiautoritaria, ma anche per capire il suo autore e il suo metodo di studio. Masini, infatti, iniziò a pensare e scrivere quest'opera ben 25 anni prima della sua pubblicazione, e la sua preparazione lo ha accompagnato per buona parte della sua vita: fino a poco prima della scomparsa aveva lavorato a una nuova edizione, rivista e aggiornata, e che ora viene alla luce.”
Che nella biografia di Cafiero vi sia la storia del primo socialismo italiano, nato nel e dal Risorgimento, e che, in quanto socialismo antiautoritario, si definì prendendo le distanze dal mazzinianesimo e dal garibaldinismo, grazie e soprattutto all' acuta produzione teorica di Cafiero, Franco Bertolucci lo ha ribadito recentemente. In occasione della presentazione del libro, che ha tenuto il 24 ottobre del 2015, presso lo Spazio 19 Luglio a Roma, nell'ambito delle iniziative del Gruppo Cafiero della Fai. Il Risorgimento fu il terreno dal quale nacque come movimento del tutto popolare il movimento anarchico in Italia, grazie alla predicazione di Bakunin ed alla sua traduzione, nella realtà italiana, da parte di Cafiero prima e di Malatesta successivamente.
Nell'ambito di questo movimento corale Cafiero svolse la sua azione sfolgorante e prodigiosa per elaborazione intellettuale, passione, devozione e sacrificio, come meglio non potrebbe essere narrato da come lo è in questo libro.
Cafiero, va sicuramente letto, attraverso l'interpretazione umanamente partecipe di Masini, per quanto di generoso e di nobile, il “figlio del sole” seppe infondere nella lotta per il socialismo. Ma è evidente che le tesi dell'ultimo Cafiero della cosidetta rivoluzione per manipoli sparsi, velleitarie oltre che dannose e nocive, come Malatesta ebbe modo di rilevare, come tutta l'impostazione insurrezionale di Cafiero e di Malatesta e del primo Costa, appartengono alla storia dell'anarchismo. Queste e quella non hanno più senso attuale, come argomentato più volte in modo convincente su questa rivista da Andrea Papi e come rappresentato dalla visione di un anarchismo pluralista, del quale la rivista è interprete.

Enrico Calandri



Flavio Costantini/
L'impossibilità di evadere dalla storia

Diciamo che devo sentire la nostalgia di qualcosa di irrimediabilmente perduto. Il presente, l'attimo che sto vivendo mi lascia sbalordito. Devo lasciar correre il tempo per goderne o soffrirne e, in definitiva, prenderne possesso.

Flavio Costantini

Uscito a fine 2015 dalla penna di Roberto Farina, il libro che presentiamo (Flavio Costantini, L'anarchia, molto cordialmente, Milieu edizioni, Milano, 2015, pp. 240, € 18,90) apre con un episodio analogo a quello sopracitato: il ricordo dell'autore della propria passione infantile per le immagini di un libro illustrato, “Io e gli altri”, andato perso per un capriccio durante le vacanze, che riaffiorò poi per caso in un peregrinare adolescenziale, quando ritrovò il libro perduto nelle vetrine di una libreria, scoprendo così che quei ritratti che tanto affascinavano la sua innocente curiosità di bambino fossero in realtà personaggi del calibro di Sacco e Vanzetti; l'illustratore di quegli occhi buoni era il signor Costantini.
Seppur “molto cordialmente”, grazie alle splendide opere che ha lasciato, Flavio Costantini è un personaggio quanto meno controverso nel panorama libertario. Se da un lato è riuscito, con i suoi quadri dedicati agli anarchici, agli operai, agli ultimi, con le sue copertine per le pubblicazioni delle edizioni di Stuart Christie a lasciare un segno nell'immaginario artistico contemporaneo e a dar volto e dignità a personaggi scomodi nella storia ufficiale, dall'altro si è reso impopolare nell'ultima parte del suo operato, quando iniziò manifestare un'insofferenza e presa di distanza dalle idee anarchiche con dichiarazioni quasi provocatorie e spiazzanti, rinnegando la possibilità di un mondo diverso e allontanandosi sempre più da quello che lo circondava. “Non credo più nell'utopia. Solo gli ottusi non cambiano mai idea” si legge già nelle prime pagine.
Roberto Farina però ha il potere di introdurci gradualmente, in questo scritto, nel sederci faccia a faccia con l'artista, ormai ottantenne, a conoscerlo personalmente attraverso dieci anni di dialoghi a più voci, con chi lo conobbe e lo frequentò mentre nel contempo si dipanano le storie di personaggi di un secolo prima, che prendono forma nelle opere artistiche di un uomo che ha apparentemente abbandonato l' ideale di libertà a cui si era così fervidamente ispirato a favore di considerazioni ciniche, disilluse e spassionate che lo rendono, almeno alla lettura, comunque interessante pur nelle ideologiche contraddizioni. Affascinato sin da giovane dalla sua arte e forse dai segni del destino, Farina decise di intraprendere una ricerca sul pittore, all'epoca ancora in vita, ma subito si scontrò con la riservatezza e l'elusività dell'artista, che viveva appartato e irraggiungibile a Zoagli, vicino a Rapallo.
La caparbietà di Roberto nel ricercare un incontro con questo personaggio così noto eppure così dimesso darà luogo a molteplici colloqui e una relazione profonda, forse grazie anche al fatto che l'autore stette subito simpatico a Gip, il Welsh Terrier di Flavio Costantini, la prima volta che andò a trovarlo, chissà; fatto sta che i due finirono per stringere un rapporto di dialogica complicità, filo conduttore che accompagna la lettura di un viaggio articolato nel tempo e nello spazio; un viaggio fatto di immagini e storie, quelle dei quadri e dei personaggi lì raffigurati da un lato e, contemporaneamente, quelle dei due interlocutori che si confrontano sul mondo, seduti tra i ricordi nella casa del pittore, come in una stanza di specchi dove ogni immagine riflette una storia indipendente eppur connessa con le altre. [...]
Costantini spesso mentre si racconta riesuma libri, manifesti, almanacchi, film dell'orrore, stampe e tavole con cui omaggia sempre le visite del suo discreto interlocutore a cui dedica, per togliersi dall'imbarazzo di non saper cosa scrivere, un “molto cordialmente” a mo' di dedica e alcuni stralci del suo vissuto e della sua arte, che al lettore giungono dalla rielaborazione e ricostruzione storica di Farina, il quale restituisce un'agiografia di personaggi che si susseguono immortalati nelle opere di Costantini, in una carrellata di biografie che irrompono nella biografia principale.
Uno scenario di rivolte, regicidi, rapine e prigioni si intervalla con aneddoti della vita quotidiana, oscillando continuamente tra presente e passato, procedendo per titoli incalzanti, a volte quasi a commento di ciò che sta per raccontare, a volte come macchine del tempo in grado di far piombare il lettore dalla mansarda-laboratorio di Zoagli dritto nella folla che attende l'esecuzione di Ferrer, o di Sante Caserio, immortalata sulla tela. Il volume edito da Milieu edizioni, casa editrice indipendente che già nella scelta della propria identità nominale indica la volontà di ricerca all'interno di micro ambienti, luoghi, substrati di culture così unici e interessanti nelle proprie esperienze artistiche o esistenziali riesce a renderci proprio questo.

Flavio Costantini, La fucilazione di Ferrer, serigrafia

La generosa appendice in quadricromia ci regala un'ampia panoramica delle sue opere, che stimola una lettura interattiva tra corpus del testo e immagini, in cui il lettore si trova a navigare con continui rimandi. Tra narrazione e rappresentazione visiva il volume ricrea l'ambiente dell'artista e al contempo i milieu dei personaggi protagonisti delle opere, in un susseguirsi di capitoli rapidi che rendono l'esegesi delle diverse sfaccettature della storia nella storia, in uno spazio spezzattato, ambienti disarticolati, e mostrati simultaneamente sotto ogni angolazione. [...]
Nei suoi quadri nessun punto di fuga, perché la sua arte è una visione raggelata, che rende la scena reale e surreale al contempo, dove i volti diventano maschere impassibili, testimoni di un' epoca che li vorrebbe ridurre a cose, ma che Costantini innalza a ritratto morale. La serie completa dei soggetti dedicati alla storia e ai protagonisti del movimento anarchico tra fine Ottocento e primo Novecento include una sessantina di dipinti realizzati a tempera e consente all'autore di riesumare una galleria di rivoluzionari di professione, elevati alla statura di eroi tragici, simboli di una rivolta ora evoluta, ora brutale, ma sempre libertaria, soffermandosi sui loro volti che ci fissano impassibili mentre il mondo intorno a loro raggiunge il punto di ebollizione. Come nelle icone sacre, l'imperturbabilità dei volti diventa la chiave per accedere alle passioni dell'uomo. Si tratta di un vero e proprio ciclo di opere che inizia nel 1963 e termina nel 1979. “Ravachol, Jacob, Lucetti, Bresci.. sono colti pittoricamente sul fatto. Nessuno spazio al dubbio: sono proprio loro i colpevoli, eppure la narrazione della vicenda non li condanna.” Asserisce Luciano Caprile a commento dei quadri riprodotti. In questi anni Costantini si dedica a un'intensa ricostruzione storica degli eventi, acquisendo da tutto il mondo molta pubblicistica dedicata, incontrando alcuni degli ultimi testimoni ancora in vita e recandosi spesso di persona a fotografare i luoghi degli avvenimenti.
La ricerca dell'artista ha prodotto un'importante biblioteca tematica e un ampio apparato di documenti, tra cui fotografie, appunti e ricostruzioni derivate dalla stampa periodica dell'epoca. Un contesto di studi strettamente connesso alla realizzazione di ogni singola opera che rappresenta quindi il punto finale di un approfondimento storico e iconografico compiuto. Leonardo Sciascia commenta magistralmente questo ciclo di personaggi: “l'anarchico rappresentato nel gesto micidiale, quello in cui si assommava la propria vita e la propria morte: piccolo, sparuto, commiserevole -in piccolezza sproporzionato all'avvenimento tragico che col suo gesto creava. Patetico, fino a sfiorare il comico, irrompeva da intruso in quelli che Macchiavelli chiama i luoghi alti. I luoghi alti della tragedia: e la rigenerava”.
Nella ricerca di Costantini, dagli anni Ottanta in poi, l'impossibilità di evadere dalla storia e dalle sue conseguenze coinvolge i carnefici come le vittime, o è il risultato della semplice casualità degli eventi. Una condizione sostanzialmente assurda e permeata di un progressivo scetticismo nella “salvazione” politica e personale che l'artista esprime nella serie di opere dedicate all'uccisione dei Romanov come in quelle sul disastro del transatlantico Titanic. Unica possibilità di sopravvivenza, l'espressione artistica in tutte le sue forme: Costantini, sempre dagli anni Ottanta in poi, realizza una serie di ritratti - a tempera e collage - di scrittori e poeti, ritornando così all'origine della sua ispirazione, la letteratura. Uno dei suoi ultimi temi di ricerca sono stati alcuni eventi e protagonisti della Rivoluzione francese. Bello il commiato finale tra Farina e l'artista, sempre denso di racconto quasi pittorico e variegato di memorie personali. Conclude il testo un'analisi di Stuart Christie, datata 1975, in cui forse va colto lo spirito che mosse il pittore, senza soffermarsi troppo alle amare considerazioni disilluse; gli eventi che Costantini raffigurò sono episodi di una lunga odissea verso la libertà, in cui purtroppo spesso per combattere la repressione, la miseria e le ingiustizie sociali perpetrate dallo Stato le lotte accorsero alla violenza. Ed è proprio sugli eventi di questa lotta contro l'oppressione che si sofferma lo sguardo di Flavio Costantini.

Gaia Raimondi



Il germe pericoloso
della diserzione

Nella sovracoperta del nuovo libro di Mimmo Franzinelli (Disertori. Una storia mai raccontata della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2016, pp. 390, € 22,00) c'è un cupo disegno di Gino Boccasile (1944) che illustra la fucilazione alla schiena di un “traditore sabotatore”. È un modo scioccante, ma efficace, per introdurre i vecchi temi delle ribellioni anti-belliciste. E allora: “Bentornati fantasmi della diserzione!” direbbe Wu Ming 1.
Se riguardo alla giustizia militare nella grande guerra gli studi e la saggistica si sono fatti ultimamente più densi e circostanziati, dopo un secolo o quasi di mordacchia, ancora in massima parte insondato rimane invece il medesimo tema riferito al secondo conflitto mondiale. Del resto, trattandosi di contesti e modalità belliche assai differenti, tutto cambia anche nel sistema repressivo militare. Alla codardia, indisciplina e sbandamento, derivati spesso da comportamenti refrattari contingenti e improvvisati della truppa o dei singoli militari, tipici reati da prima linea di fuoco, si sostituiscono piuttosto “mancanze” connaturate più alla modernità della nuova guerra come la diserzione in presenza del nemico, l'insubordinazione accompagnata a vie di fatto, il supposto tradimento della patria, il vilipendio sovversivo, il disfattismo e la guerriglia. È questa la resistenza alle imposizioni della nuova guerra totale, guerra senza trincee, rapida e di manovra, condotta con spirito cinico dai vertici delle forze belligeranti perfino contro le inermi e innocenti popolazioni civili (vittime predestinate di stupri, rapine, saccheggio, devastazioni e internamenti).
Il conflitto del 1939-1945, presentatosi sul proscenio mondiale come epica partita risolutiva tra fascismi e democrazie – vulgata e semplificazione propagandistica che accomunò, ricordiamolo, Churchill e Stalin – ha lasciato ai sopravvissuti ed ai posteri tracce di memoria “ufficiale” e pubbliche narrazioni spesso sovrastate dal discorso ideologico. La guerra, puro esercizio della tirannia degli Stati (almeno nella visuale libertaria) e grande evento tragico nella memoria collettiva delle nazioni, si è così convertita o in intimo e recondito vissuto esperienziale soggettivo o in avulso tema canonico per la storiografia politica e militare. Relegati nell'indifferenza, ricondotti nel limbo dell'irrilevante, i comportamenti ribelli, anomali e controcorrente, sono rimasti talvolta sottotraccia: paure e vergogne dell'indicibile. E, anche fuori dall'ufficialità, la rimozione ha riguardato tutta la sfera emozionale e dei sentimenti, comprese le ferite mai risarcite e i dolori incommensurabili per i lutti, le distruzioni e le ingiustizie patite da milioni di esseri umani, ma soprattutto da ciascuno di essi. Paura, odio, violenza, Shoah, campi di concentramento e di sterminio, eccidi di popolazioni civili, bombardamenti indiscriminati, bomba atomica: la barbarie degli anni Quaranta ha marcato indelebilmente un secolo (il cosiddetto “secolo delle masse”) e, a seguire, le generazioni del secondo Novecento.
Nella gamma vasta delle possibili contro-storie “mai raccontate”, anomale e controcorrente, ci sono senza ombra di dubbio le diserzioni. Franzinelli, storico di successo, ci squaderna un repertorio di facile lettura e di grande impatto, ricerca rigorosa e coinvolgente condotta sulla base dei documenti reperiti presso l'Archivio storico dello Stato maggiore dell'Esercito, compulsando le carte dei Tribunali di guerra, i diari inediti e ascoltando preziose testimonianze di parenti.
Il libro si apre con due fotografie belle di giovani innamorati, Cosimo e Violetta; la didascalia ci riporta alla cruda realtà di un sogno interrotto: “L'artigliere Cosimo Ricchiuti, disertore in Croazia per antifascismo e per amore di Violetta, figlia di un comandante partigiano iugoslavo. Viene fucilato dalle Camicie nere il 4 agosto 1943”.
Nel collage, triste e avvincente, delle tante storie di vita che si incrociano nel volume si possono riconoscere vicende “qualunque” di persone “qualsiasi”: c'è il vissuto familiare di ciascuno di noi, ci sono, come tipologia, quei racconti di guerra che abbiamo ascoltato direttamente dalla viva voce dei testimoni e dei protagonisti quando eravamo ancora bambini. È davvero questa l'altra memoria della nazione. E ci siamo tutti.
Accorgersi di combattere dalla parte sbagliata e buttare l'odiata divisa, opporsi alle prepotenze del militarismo sempre e comunque. Una sorta di genealogia della ribellione attraversa gli ultimi due secoli, prima e dopo la seconda guerra mondiale e tutti ci coinvolge: dalla renitenza alla leva dei nostri avi contadini e dalle disobbedienze sanzionate dagli inflessibili tribunali militari del 1915-1918 fino all'età contemporanea e ai giorni nostri. Si pensi ad esempio al fenomeno degli obiettori di coscienza di qualche decennio fa (obiettore è stato, ad esempio, l'autore di questo libro!) o magari alla semplice militanza nei “Proletari in divisa” durante il servizio di leva (è il caso del recensore). Chi scrive queste brevi note ricorda anche, con grande commozione, un proprio familiare – Giovanni Sacchetti, classe 1911 – partito come caporale di fanteria della divisione “Firenze” operante sul fronte greco-albanese e finito, dopo l'8 settembre 1943, come partigiano combattente nella brigata “Gramsci” attiva in Albania. Scelta di paura e di coraggio fatta, seguendo l'istinto, insieme a tantissimi altri commilitoni: per questioni di principio e non di mero opportunismo, per non essere più complici degli oppressori, per un generoso spirito di sacrificio che non si basava certo su possibili speranze di ricompense (che, fra l'altro, non ci saranno mai).
Il libro, coinvolgente e ben strutturato sul piano narrativo, analizza il fenomeno seguendo una scansione temporale e una sequenza di scenari che sembra cinematografica. Le motivazioni dei disertori, insieme alle dinamiche repressive, emergono in maniera nitida. L'autore, seguendo i percorsi esistenziali di persone comuni, li contestualizza con grande efficacia rappresentativa: dai prodromi della “non belligeranza” al “caleidoscopio balcanico”; dalla tragica campagna di Russia all'Africa e all'Albania; sotto la dittatura militare di Badoglio, nel Regno del Sud oppure nella Repubblica Sociale Italiana. In appendice ci sono poi molti documenti da consultare, e c'è anche un “epilogo” dedicato al dopoguerra: perché “La guerra non termina a fine aprile 1945, per i disertori. Quando le armi tacciono, scatta la caccia ai fuggiaschi dal Regio esercito...” (p. 295).
Già alla caduta del fascismo, nell'estate 1943, con il precipitare della situazione militare e le sconfitte sui vari fronti, i tribunali militari avevano continuato ad essere utilizzati per la difesa dell'ordine pubblico e per reprimere i reati di sedizione, abbandono del servizio o del posto di lavoro, violazione di ordinanze.
Colpisce, ad esempio, la lugubre vicenda della “fucilazione arbitraria” in Calabria di cinque disertori mandati a morte dopo l'armistizio, puniti fuori tempo massimo! Sì perché la persecuzione degli ex-disertori non avrà mai fine e non conoscerà confini. Anche nella repubblica democratica la magistratura militare continuerà, per decenni, a inquisire i ribelli della seconda guerra mondiale, persino rinchiudendoli in manicomio! Il libro evoca, oltre ai ricordi familiari di ciascuno di noi, anche la storie parallele misconosciute ancora da raccontare, come ad esempio quelle dei centomila tedeschi antinazisti che disertarono (alcuni unendosi anche ai partigiani), un fenomeno questo non trascurabile e ancora da soppesare nel suo complesso.
Nel film “Gott Mit Uns” di Giuliano Montaldo il generale Snow (interpretato dall'attore Michael Goodliffe), rivolgendosi ad un ufficiale subalterno che si dimostra turbato per l'imminente fucilazione di due soldati che hanno disertato, argomenta: “...quello che noi rappresentiamo, alla divisa, non ci pensi? [...] dove credi si nasconda il vero nemico per noi? Nel contagio dell'indisciplina, figliolo, che genera odio per la divisa, l'odio per tutte le divise. È necessario stroncarlo subito, questo germe pericoloso...”.

Giorgio Sacchetti



Operaismo italiano
e mito del partito

Suppongo che i compagni di “A” Rivista anarchica mi abbiano proposto la recensione del libro Elogio della militanza - Note su soggettività e composizione di classe (di Gigi Roggero, Derive Approdi, Roma, 2016, pp. 208, € 13,00). in considerazione del mio interesse, che data non da oggi, per la cosiddetta Scuola della composizione di classe, conosciuta anche come operaismo italiano, e cioè quell'area politico-intellettuale che prende le mosse da alcune interessanti riviste degli anni Sessanta, in particolare Quaderni Rossi e Classe operaia, e che ha avuto una rilevante influenza sia su gruppi della sinistra extraparlamentare degli anni settanta, in primo luogo Potere Operaio ma anche Lotta Continua, e, più avanti, su quella che venne definita area dell'Autonomia. Effettivamente il libro di Gigi Roggero è, almeno per me, l'occasione di riprendere vecchie questioni, vecchie ma sicuramente non prive di interesse anche perché furono sollevate nel fuoco dello sviluppo delle lotte operaie e di ampi settori della società che allora si svilupparono.
In realtà il testo di Roggero si colloca esplicitamente in una delle possibili linee di sviluppo dell'operaismo italiano e cioè a quella che fa riferimento all'opera di Mario Tronti, un importante intellettuale del Partito Comunista Italiano, alle cui tesi hanno continuato a fare riferimento per decenni anche intellettuali “estremisti” come Toni Negri che anche recentemente, nella sua monumentale autobiografia, ricorda come abbia praticamente imposto ad una serie di gruppi intellettuali stranieri la traduzione di “Operai e Capitale” dello stesso Mario Tronti. Si tratta di comprendere, credo, qual è l'obiettivo polemico del testo e quali obiettivi si ponga a partire dal proprio dichiararsi un testo militante. Il primo ed evidente bersaglio di Mario Tronti e dei trontiani è quella che argutamente Roggero definisce la patristica e che nel linguaggio che allora usava la corrente trontiana veniva chiamato terzinternazionalismo.
Mario Tronti, Toni Negri e gli altri trontiani compiono un'operazione per alcuni versi classica per altri scandalosa: utilizzare Marx contro il marxismo e Lenin contro il leninismo per produrre una nuova teoria politica e una nuova forma di militanza pur rivendicando un legame forte con i fondatori della ditta.
Ma che cos'è esattamente la patristica, o il terzointernazionalismo, che dir si voglia?
Molto sinteticamente è una grande narrazione basata su una divisione rigorosa fra classe operaia e coscienza di classe, fra lotta economica e lotta politica, fra sindacato e partito le cui radici si possono rinvenire nell'opera allora famosa di Karl Kautsky alla quale si ispirò esplicitamente Lenin nella stesura dell'articolo “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”, una narrazione che valorizzava il ruolo degli intellettuali dirigenti dei partiti socialdemocratici dei quali gli stessi partiti comunisti non furono, a ben, vedere che una derivazione in aree economicamente meno sviluppate rispetto all'Europa occidentale e agli USA.
Gli operaisti di scuola trontiana, negli anni Sessanta individuano, la secca separazione fra lotta di classe effettivamente esistente e movimento operaio istituzionale, fra comportamenti operai e ideologie della sinistra, comuniste o socialiste che fossero, e si schierano in maniera secca dalla parte della “rude razza pagana” nel suo carattere rigorosamente anti ideologico. Non vi è però in loro un opporre la spontaneità all'organizzazione, cosa che li avrebbe condotti a posizioni di tipo consiliare luxemburghiano o anarchico, al contrario riaffermano con forza la necessità di una direzione forte del conflitto e parleranno, casomai, di spontaneità organizzata.
Il partito di tipo nuovo che propongono quindi è un partito che sa stare dentro lo scontro di classe, che ne sa cogliere le tendenze, che sa anticipare le mosse di parte capitalista e lo stesso livello medio del conflitto, che sia insomma una direzione all'altezza della violenza dello scontro sociale che in particolare allora si andava disegnando.
Ma vi è nel trontismo qualche cosa di più, qualche cosa che secondo i marxisti e leninisti ortodossi lo pone fuori dal marxismo e dal leninismo, l'idea che lo stesso sviluppo del capitalismo sia determinato dalla forza e dall'iniziativa della classe operaia, che in questa stessa iniziativa vi sia la strategia dell'azione rivoluzionaria mentre al partito viene riservata la tattica. Schematizzando al massimo si potrebbe dire che l'impianto classico del marxismo-leninismo non viene contestato in radice né tanto meno superato ma paradossalmente rovesciato e riaffermato come neoleninismo.
Ciò che singolarmente infatti manca in tutta quest'elaborazione è la definizione della natura storico-sociale del partito, che nel suo sparire come struttura, come forma, come apparato, riappare come un'intelligenza capace di plasmare e trasformare la stessa realtà storica, proprio perché liberata dalla pesantezza della tradizionale organizzazione di partito. Un'idea a modo suo affascinante, che ricorda la famosa frase di Mario Tronti, quella che sintetizza efficacemente tutto il trontismo: “..il partito è lo sguardo di Lenin che dalla finestra dell'Iskra osserva il marciapiede antistante”. Il partito insomma come demiurgo, se non proprio come divinità.
Per concludere una proposta indubbiamente affascinante, una proposta che va, la cosa è evidente, in una direzione radicalmente che nulla ha a che vedere con quella dell'autorganizzazione dei lavoratori così come l'ha intesa ed elaborata la tradizione libertaria. Per Gigi Roggero infatti l'autonomia della classe si esprime essenzialmente come mera negazione dell'esistente, non a caso cita spesso la classica formula trontiana per cui alla classe è assegnata la lotta, al capitale lo sviluppo, disegnando in fondo una sorta di estetica del conflitto di classe che, oltre a fondare la stessa classe operaia, sembra destinato ad esistere per l'eternità sia pure in forme continuamente nuove.
Ora, non si tratta, a mio avviso, di negare chiesasticamente la possibile congruenza della tesi, ma di ammettere che, se la si assume, si arriva in una forma diversa alla medesima apologia del capitalismo che caratterizza il tanto disprezzato marxismo-leninismo, visto che qualunque sia la forza motrice dello sviluppo sempre di capitalismo si tratta. Se invece ipotizziamo che in forma contraddittoria, ma non delirante-desiderante, il proletariato possa, non debba, come ci insegna l'Internazionale quando afferma “l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi. O non sarà..” possa non semplicemente premere sulle classi dominanti in una sorta di infinito pingpong ma, negando se stesso, negare l'ordine dominante. E negare se stesso da un punto di vista rivoluzionario significa espropriare gli espropriatori ed assumere il controllo della produzione. Tertium non datur.
È interessante rilevare peraltro come nella figura del militante disegnato da Roggero, vi è una suggestiva somiglianza con quanto ha elaborato la tradizione bakuniniana e, sulla strada aperta da Bakunin, quella sindacalista d'azione diretta, ma anche, sebbene in forme diverse, quella malatestiana, dell'individuazione delle minoranze agenti come prodotto e produttrici di contraddizioni, come rete di soggetti che praticano quotidianamente il conflitto sui luoghi di lavoro e nella società, come organizzazione reale più che formale della rivolta.
Ed è forse in questa somiglianza che si possono trovare le ragioni del fatto che nel corso degli anni Settanta l'area dell'autonomia abbia visto l'agire assieme, il confrontarsi, e perché negarlo?, lo scontrarsi fra culture politiche per altri versi apparentemente incompatibili, quella libertaria, quella consiliare, quella luxemburghiana, quella operaista non trontiana che affondava le sue radici in una rivista come “Quaderni Rossi” ma non nel gruppo trontiano di “Classe operaia” che ne sortisce, e quella negriana di “Rosso” e scalzoniana di “Senza tregua” ed altre fra cui persino gruppi maoisti.
Per provvisoriamente, credo, concludere, in tempi assolutamente diversi da quelli che videro la breve estate del trontismo le questioni che Gigi Roggero pone restano di un rilevante interesse anche per dei rivoluzionari e possono fornire chiavi di lettura per la valutazione dello stato del conflitto sociale oggi e delle prospettive di un progetto sovversivo.

Cosimo Scarinzi



Animali/
Un'eterna Treblinka

Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali.
Theodor W. Adorno

Il titolo dato a questo libro può sembrare una provocazione. Un'immagine azzardata per scuotere la nostra immaginazione un po' assopita e renderci più attenti rispetto al modo in cui vengono trattati soprattutto gli animali “da reddito” e quelli usati per la “ricerca scientifica”. Non è così. Niente provocazioni. Si tratta invece di un'analisi lucida, anche dal punto di vista storico, condotta con metodo, che indaga, pone a confronto e trae le debite conclusioni rispetto alla vita, quando non viene più riconosciuta come tale in uno o più soggetti che, di conseguenza, divengono oggetti e come tali utilizzabili per molteplici scopi e interessi.
Analisi sostenuta e avvalorata, nella seconda parte del testo, da racconti personali di ebrei - sopravvissuti o comunque coinvolti, per storie familiari, nella Shoah - che hanno preso posizione rispetto allo sterminio animale.
Paragonare lo sterminio degli animali nei mattatoi alla Shoah viene spesso considerato scandaloso e lo scandalo è ciò di cui non si deve parlare o perché così evidente che non merita aggiunta di parole o perché talmente fuori luogo che è più giusto lasciar perdere, precisa Massimo Filippi nella prefazione al testo, mentre per capire se del confronto tra Olocausto e condizione animale sia possibile parlare è necessario arrestare le risposte immediate, causate dall'indignazione umanitaria, e provare a comprendere che cosa questo confronto mette in gioco. Questo è ciò che efficacemente viene fatto da Charles Patterson in Un'eterna Treblinka – Il massacro degli animali e l'olocausto, (editore Eir, Roma, 2015, pp. 321, € 16,00). È bene stabilire una cosa - chiara per tutti – e cioè che le molteplici differenze biologiche del mondo animale sono di grado e non di genere. Non esiste una caratteristica biologica capace di separare in maniera netta e definitiva un gruppo di individui di una specie da un altro; il che in parole semplici significa che gli umani altro non sono che altri animali e quindi “ciò che dovrebbe provocare orrore è che, costantemente e indipendentemente dalla specie di appartenenza, il vivente venga smembrato, che la carne viva sia trasformata in carne da macello [...] smembramento che certamente non ha risparmiato e non risparmia gli animali umani”. E, a ben guardare, lo smembramento si estende - dico io – in tutti quei luoghi dove il corpo vivente della terra viene trivellato, disboscato, cosparso di sostanze tossiche sempre per lo stesso identico motivo economico.
Tornando al libro direi che non è semplice cercare di riassumere tutte le sfaccettature che vengono analizzate e attraverso le quali Patterson mostra i mille volti dello sfruttamento. Dall'inizio della schiavitù umana nelle prime civiltà mesopotamiche che andò di pari passo con l'addomesticamento animale, attraverso il passare dei secoli e l'evolversi delle culture, con la connivenza delle religioni e il colonialismo quale premessa al nazismo: “L'etica della dominazione umana che promosse e giustificò lo sfruttamento degli animali rese legittima l'oppressione di quegli esseri umani ritenuti più vicini alla condizione animale [...] Gli europei consideravano il colonialismo la naturale estensione della supremazia umana sul regno animale, dato che sembrava chiaro che la razza bianca aveva dimostrato la propria superiorità sulle razze inferiori tenendole sotto il proprio dominio, esattamente come la specie umana aveva dimostrato la propria superiorità sugli altri animali dominandoli e soggiogandoli.”
Quindi l'analisi storica dell'oppressione e dello sfruttamento - animale e umano - partono da lontano e arrivano all'Ottocento per comprendere, a quel punto, anche la nascita dell'industria e l'innovazione costituita dalla catena di s-montaggio. Fu proprio Henry Ford a rivelare, nella sua autobiografia, che l'idea della catena di montaggio gli venne in mente quando visitò un mattatoio. In quei luoghi, il processo che solleva gli animali su catene e li spinge, di stazione in stazione, fino all'ultima tappa della riduzione in “tagli di carne”, introduce un elemento nuovo per la moderna civiltà industriale, vale a dire la neutralizzazione dell'atto di uccidere, con un grado di distacco fino ad allora sconosciuto.
Il XX secolo dimostrerà tristemente che da lì allo sterminio di massa organizzato dalla Germania nazista non c'è che un piccolo passo perché le due cose non sono poi così diverse: “Nei centri di uccisione rapidità ed efficienza sono elementi essenziali per il buon esito dell'operazione” e “riducendo la necessità di pensare e di prendere decisioni, la meccanizzazione del massacro diminuisce la possibilità che chi vi partecipa riconosca la dimensione morale delle azioni che esegue”, così “una volta che un manzo è salito sulla rampa, il suo destino è segnato” e così anche “quando erano nel cosiddetto tunnel, che portava dalle baracche al campo di sterminio, per loro non c'era più scampo”.
Ho provato vergogna leggendo questo libro, vergogna per la specie a cui appartengo. Sentimento forse non inutile ma che comunque serve a poco quando rimane fine a se stesso. Invece mi è sembrata interessante la domanda che, sempre nella prefazione, pone Filippi, vale a dire se pensare politicamente non inizi proprio da qui. Da questo punto zero.
C'è verità nel dire che il punto a cui siamo giunti nella nostra storia di specie è lo zero. Proseguire sempre nella stessa direzione, come sembra intenzionata a fare una gran parte dell'umanità, significa scendere al di sotto dello zero e quindi innescare un processo di non ritorno. Partire da zero, invece, come punto da cui non si può prescindere, con cui non si può non fare i conti - non rendersi conto - per il pensiero e la prassi di coloro che si muovono onestamente in direzione della liberazione o, meglio, delle liberazioni, mi sembra importante. Così come è certamente importante non fare di ogni erba un fascio, vedere le diversità di fenomeni che rimangono ugualmente gravi e, quindi, è importante riuscire a stare in ciò che disturba - ci disturba – e osservare la realtà che abbiamo non solo di fronte.
Assumersi la responsabilità delle cose significa anche smettere di fare finta che le stesse non accadano e provare a porvi rimedio. C'è una brutta tendenza insita in noi esseri umani ed è quella di banalizzare, alzare le spalle, girare lo sguardo, per questione di comodità, perché scegliere costa impegno e fatica quotidiana. Dico così perché questo atteggiamento è latente in me, mi coinvolge in prima persona, sebbene io non sia né meglio né peggio di tanti altri, ma soprattutto lo dico perché è con questa umana debolezza che va ed è sempre andato a nozze il lato più oscuro della violenza del potere. Mi viene in mente Hannah Arendt e penso che ci potrebbe essere utile tornare a riflettere (e tornarci spesso, a vari livelli, perché non è mai abbastanza) sulla questione di come il male possa proprio non essere un fatto radicale, ma anche semplicemente la mancanza di radici e di memoria, che consista fondamentalmente nel non avere quel dialogo interiore che permette non certo di essere perfetti, ma di poter pensare se stessi (essere due in uno), rivedersi, ritornare sulle proprie azioni e quindi poter compiere delle scelte morali. E' una questione di grande attualità ed è l'argomento che, in maniera sottesa, secondo me attraversa tutto il libro di Patterson. A suo tempo la Arendt fu molto esplicita nel dire come persone spesso banali si trasformino in terribili persecutori e come fu proprio questa banalità a rendere, nella Germania nazista, quasi un intero popolo, se non del tutto almeno in gran parte, complice dei più terribili fatti della storia, senza il minimo senso critico e quindi senza sentirsene responsabile.
Quello che sta accadendo oggi, esattamente in questo momento, in Europa, in America e non solo, è lo stesso - ma in misura enormemente più estesa in quantità - di quello che accadde nei campi di sterminio voluti dalla follia nazista, ma come ebbe a dire Adorno, sono soltanto animali.. Animali da reddito.

Silvia Papi



Faber/
Un antidoto alla religione

Non penso di essere eretico se considero De André il mio Quinto Evangelo.
Don Andrea Gallo

Il celebre prete di strada Don Andrea Gallo, concittadino e carissimo amico di Fabrizio De André, si è spinto a dichiarare che Faber, soprannome del cantautore, è stato come un evangelista, portatore di una profonda coscienza e capace di rendere tutti consapevoli della propria energia vitale, umana, rivoluzionaria.
Il cantautore e poeta Fabrizio De André è considerato il Bob Dylan italiano, per la straordinaria capacità di spaziare con audacia e lirismo su temi eterni e universali, tra cui quello religioso, senza per questo essere ingabbiato nell'alveo di una confessione religiosa e nemmeno definito predicatore o eletto ad ateo devoto ante litteram. Don Andrea Gallo, dopo il concilio Vaticano II, arriva a dire a Fabrizio De André, con ammirazione dichiarata: “Tu sei tra i giovani Teologi della Liberazione”.
Il volume di Brunetto Salvarani La Bibbia di De André (Claudiana editrice, Torino, 2015, pp. 100, € 9,50) si pone l'obiettivo di individuare, a più riprese, le tracce bibliche che affiorano nella produzione deandreiana, soffermandosi, dapprima, sinteticamente, sulla vita corsara e anarchica di Faber e i suoi temi sociali, attraverso una ricostruzione biografica sapientemente amalgamata e intrecciata con scelte artistiche ben precise, ossia controcorrente, “in direzione ostinata e contraria”.
Di seguito, il libro pone e propone attente riflessioni sulle canzoni maggiormente impregnate di domande sulla religione e sulla scrittura.
L'ultimo capitolo si concentra sull'episodio discografico più rilevante del poeta genovese, a proposito di tema religioso, il long playing “La Buona Novella” del 1970, un'autentica pietra d'angolo o miliare, che dir si voglia, non solo sul piano musicale, ma anche su quello del costume del nostro Paese e della società.
L'autore Brunetto Salvarani, in una delle tante note bibliografiche, ringrazia, per i consigli e l'incoraggiamento, l'amico Odoardo Semellini, detto Odo, compagno di innumerevoli scorribande sui sentieri della musica pop, deandreiano raffinato e di lungo corso.
La personalità artistica di Fabrizio De André si sposa bene con l'ispirazione che gli deriva dal cantautore francese prediletto Georges Brassens, per l'influenza di quel dichiarato e anarchico individualismo libertario. Faber avvicina le storie musicate di Brassens alle vicende dei carrugi genovesi, fra prostitute, gente di malavita e emarginati di ogni sorta. Brassens per De André era “un modello nitido, rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi”. Così il poeta genovese, nonostante le ottime possibilità finanziarie, intreccia le personali esperienze esistenziali e storie di vita con un'esplorazione sempre più intensa dei vicoli di Genova e della vita grama degli ultimi, degli emarginati, dei diversi, dei quali ammirava soprattutto la solidarietà corporativa e la profonda umanità.
L'album di Fabrizio De André, “La Buona Novella” del 1970, è un felice antidoto al clima religioso e subculturale attuale del nostro Paese e alla voga dell'ateismo devoto, ossia di coloro che si dichiarano solo pubblicamente cattolici e genericamente cristiani, ma che poi, nella morale privata, adottano ben altri stili di comportamento. Il contesto culturale dell'album “La Buona Novella” si collega con la stagione della contestazione. In quel periodo il rapporto tra la Chiesa cattolica romana e le istanze dell'epoca moderna stava giungendo a un punto di svolta cruciale: si era da poco concluso il Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa manifesta il tentativo di venire a patti con la modernità e con i problemi sociali.
Il 1970, anno di uscita del disco, è quello successivo alla strage di Piazza Fontana, all'omicidio Pinelli, con le grandi manifestazioni studentesche, i sit-in dei movimenti pacifisti e la crescente avversione per la guerra in Vietnam. Un periodo dominato dalla cosiddetta “strategia della tensione”, con una lunga serie di attentati terroristici e una progressiva dismissione di quegli alti ideali di trasformazione politica del Paese che avevano contrassegnato gli anni Sessanta.
“La Buona Novella” è un'allegoria, oltre ogni canone, anacronistica, ma non separata dalla storia, fuori sincrono rispetto alle proposte più impegnate e militanti, e troppo riflessiva e intellettuale per gli amanti delle canzonette sanremesi. Questo album si trova a incrociare un bisogno di spiritualità che le chiese cristiane ufficiali faticano a intercettare. Un disco anacronistico perché, anche se composto in pieno clima sessantottino e nel pieno della contestazione e rivolta studentesca, parlava degli insegnamenti di Gesù: abolizione delle classi sociali, fine dell'autoritarismo, creazione di un sistema egualitario.
Il brano “Il Testamento di Tito” fu composto sul declinare degli anni Sessanta, quando nel nostro Paese non si argomentava ancora di pluralismo religioso.
Dunque non è forzato ammettere che Fabrizio De André si è rivelato addirittura profetico, perché ha colto, in netto anticipo, quella dimensione di pluralizzazione di riferimenti religiosi, che, in seguito, è diventata uno dei tratti caratteristici della nostra società, come, per esempio, il fenomeno migratorio che coinvolge attualmente gli scenari urbani italiani.
Ormai nel 18° anno dalla sua scomparsa, la figura di Fabrizio De André continua a suscitare un'innumerevole e felice fioritura di iniziative, tanto da far pensare che il cantautore genovese sia riuscito a intercettare e a compensare un immenso vuoto di senso e a colmare un innato bisogno di poesia e una profonda e umana necessità di legami sociali, solidali, comunitari, derivata da una crisi non solo economica e politica, ma anche strutturale, nella perdita di senso e significato di valori autentici e non piccolo-borghesi e benpensanti.

Laura Tussi



Quel pugile sinto,
eliminato dai nazisti

All'inizio dell'anno sono usciti in libreria, a distanza di un giorno, due libri, due romanzi che ripercorrono la vita di Johann Rukeli Trollmann, un pugile zingaro, sinto, tedesco, che dal ring dette non poco filo da torcere al nazismo. Finì deportato e poi ucciso nel lager di Nevengamme, vicino ad Amburgoa
Pubblichiamo qui una recensione di ciascun libro. Claudia Piccinelli si occupa di Razza di zingaro, di Dario Fo. Nicoletta Vallorani, a sua volta, di Alla fine di ogni cosa di Mauro Garofalo.
Sempre di Johann Rukeli Trollmann si è occupato, in “A” 382 (estate 2013) Giorgio Bezzecchi (“Il pugile zingaro che sfidò il Terzo Reich”) recensendo il volume di Roger Repplinger Buttati giù, zingaro (edizione Upre Roma, Milano, 2013, pp. 292, 12,00).


1/ Il linguaggio e le tavole di Dario Fo, dalla parte dei sinti

Si apre con “Allenamento in palestra” la prima pagina del libro Razza di zingaro di Dario Fo (Chiarelettere, Milano 2016, pp. 160, € 16,90), storia vera di Johann Trollmann, detto Rukeli, sinto tedesco campione di boxe. Altre dieci tavole dell'artista illustrano la storia del pugile, che si vedrà negato il titolo di campione dei pesi medio-massimi perché indegno di rappresentare la Germania ai giochi olimpici. Verrà fagocitato dalla spietata macchina nazista.
La narrazione di Dario Fo ha l'andamento di una fiaba zingara. Nell' avvincente affabulazione, si avverte la musicalità del linguaggio parlato, fedele alla cultura orale del popolo zingaro.
Nella tavola “Il pugile danzante” è dipinto il talento di Rukeli, Albero, in lingua romaní: albero maestoso, forte e agile, flessuoso, per questo capace di resistere, mai piegato dal vento.
Johann, bambino musico, suona il violoncello. Sogna di fare il pugile. A otto anni, si rivela un caso di talento unito all'intelligenza. Verrà addestrato nella boxe come nella doma dei cavalli: niente carezze, niente zucchero. A quattordici, mostra già di avere stoffa. A ventuno, campione dei pesi medi della Germania nordoccidentale, ma a suo carico una denuncia per aggressione. Un equivoco. Scartato in realtà perché non ritenuto degno di rappresentare la Germania ai giochi olimpici di Amsterdam.
Nel 1932, a Berlino nel parco del Saalbaus Friedrichshain, davanti a millecinquecento spettatori mette fuori combattimento Walter Sabbotke.
Anni Trenta: lo sport deve forgiare la razza pura del popolo tedesco.
1933: anno della parabola con discesa repentina, per il pugile sinto. A soli due mesi dal giuramento come cancelliere del Reich, e dopo l'incendio del Reichstag, il palazzo del parlamento, Hitler decide di eliminare da ogni manifestazione pubblica comunisti, anarchici, ebrei, ritenuti a torto i responsabili. Fine della carriera del pugile ebreo Erich Seelig. Johann di Hannover lo sostituisce nella gara per il campionato dei pesi medi, contro Hans Seifried di Bachum. E Johann: “Ha tutta l'aria di essere una beffa: uno zingaro che sostituisce un ebreo. Evidentemente è un avviso: ora tocca a voi, fra poco toccherà a noi”. L'incontro non sarà valido per il titolo di campione.
Altra possibilità negata a Johann di Hannover, in un incontro truccato, per il titolo di campione tedesco dei medio-massimi. Georg Radamm, presidente della federazione pugilistica, ossequioso alle indicazioni e criteri dati da Hitler nel Mein Kampf per lo sport prediletto dal Führer, definirà Johann animale da circo, non un pugile. Il titolo è reso libero. Solo nel 2003, la Germania riconoscerà il valore e l'autenticità di questa storia consegnando alla famiglia Trollmann la corona di campione dei pesi medio-massimi negata a Johann.
Luglio, l'ultimo incontro decisivo: “devi combattere da tedesco o sei fuori”. Con la caricatura da ariano, capelli tinti di biondo, corpo imbiancato di borotalco, Rukeli, 71,8 kg, si presenta sul ring. La maschera tragica, battuta da Gustav Eder, 66,2 Kg, va al tappeto in una nuvola di borotalco.

Dario Fo - “Allenamento in palestra”

Hannover, primavera del 1934. Per guadagnarsi da vivere partecipa a incontri di pugilato da luna park. Sarà depennato dalla lista dei membri della federazione pugilistica tedesca. Fine definitiva della carriera. Abbandonato anche da Ernst Zirzow, il manager col cravattino. Futuro direttore dello sport di Berlino, allestirà grandi manifestazioni per l'organizzazione nazista “Forza attraverso la gioia”.
Rukeli si improvviserà cameriere alla Kreuzklappe e Olga aspetta una figlia. Fa la domestica, ricama per una casa di moda, cuce i vestitini con stoffe a fiori per le nipotine. Dopo una settimana dalla nascita, il matrimonio all' ufficio del comune. Ma dovranno divorziare, perché in seguito alle persecuzioni naziste, iniziate nel 1936 con il censimento completo di tutti i sinti e i rom della Germania, sarebbero state arrestate per prime le donne che avessero contratto matrimonio con uno zingaro. Storia di atavica discriminazione ed esclusione, inscritta negli eventi della grande storia. Dal segnale dell'ultimo rifiuto di ottenere la nazionalità ed essere accettati come cittadini tedeschi, alle “disposizioni per la deportazione” a Dachau, in Baviera, dei primi 400 zingari, nel 1936. E in occasione dei giochi olimpici di Berlino, l'istituzione dello Zigeunerlager di Marzahn, a est della città. Zingari schedati, sottoposti a torture, esperimenti, sterilizzazione legalizzata, condizione per diventare individui liberi, e internati nei campi di lavoro insieme a ebrei, zingari di sangue misto e renitenti al lavoro.

Dario Fo - “Evviva, abbiamo un pugile, speriamo
diventi un campione”

Con l'inizio della guerra, Johann verrà assegnato alla trentunesima divisione di fanteria, in seguito mandato a combattere sul fronte della Loira. “Ci disprezzano, noi sinti, perché siamo di una razza diversa, ma poi quando servono uomini per rafforzare l'esercito diventiamo subito indispensabili. Come sempre, gli unici che ci guadagnano sono i costruttori di cannoni”. Allo stesso modo, gli zingari con un contratto di lavoro sono indispensabili per l'economia del Reich. Come il fratello Lolo, addetto alla ferrovia del Reich, oppure il padre Wilhelm, suonatore di violino, in passato anche ombrellaio per la polizia fluviale. Oppure il fratello Carlo, mastro minatore. Mentre ora Johann è al lavoro obbligatorio: spalatore di carbone a Hainholz.
16 dicembre 1942, il decreto Auschwitz equipara sinti e rom agli ebrei. Nel 1943, deportazione ad Auschwitz di tutta la famiglia Trollman. Rukeli viene riconosciuto come pugile, gli assegnano un lavoro da giardiniere, meno pesante: le sue energie devono essere risparmiate per allenare uomini delle SS.
Ma lo porteranno al massacro. Uno del comitato clandestino dei prigionieri: “Tenete conto che tutti i sinti del campo lo ammirano. Se lo ammazzano, il morale e la resistenza di tutti si abbattono. Johann deve essere salvato”.
Con uno scambio di persona, viene trasportato nel lager di Neuengamme, nel nord della Germania. Un nuovo numero, 9841, gli permette di passare in un altro campo vicino, Wittenberg. Lo chiameranno a sfidare il kapò Emil Cornelius. Per allietare gli ospiti, l'esibizione in un incontro di boxe sul piazzale dell'appello, delimitato come un ring.
Johann vs Cornelius. Il kapò viene battuto. Cornelius, per vendicarsi, massacrerà Rukeli con un bastone.
Dalla ricerca rigorosa e ben documentata di Paolo Cagna Ninchi, Dario Fo offre un grande contributo alla divulgazione di questa tragica vicenda umana e collettiva, inserita in uno degli stermini dimenticati, il Porrajmos: persecuzione e annientamento di più di 500mila tra rom e sinti nei campi di sterminio, durante la Seconda guerra mondiale. Ma lo scrittore tratteggia in filigrana anche tradizioni e cultura del popolo sinto.
La grande famiglia allargata, solidale, sempre pronta a mobilitarsi in carovana, e dedita allo spettacolo viaggiante. Sono circensi i cugini della madre di Rukeli. Il fratello del nonno campa suonando il violino ai funerali come a una festa. Oppure sono allevatori. Lo zio insegnerà cura e rispetto per il cavallo, animale sacro, capace di tradurre il suono delle parole, motivo ispiratore della tavola “Dialogo col cavallo sapiente”.

Dario Fo - “Il pugile danzante”

Lo sguardo sensibile e profondo di Fo conferisce un'impronta particolare alle figure femminili che animano la narrazione. L'attitudine all'ascolto e al confronto delle diversità di Margarete. Giovane ricercatrice per le cure dei malati mentali verrà considerata tra i nemici del programma di sterminio nazista dei disabili, denominato “eutanasia”, e costretta a riparare in Camargue.
La madre, guaritora, con la sua autorità ferma e indiscutibile. Johann dirà: “finora il solo padre che ho avuto è mia madre”. Le sorelle, ricamatrici, merlettaie, con le sciarpe di seta da vendere al mercato del mese di Wunstorf, vero sostentamento per la famiglia. La moglie Olga, cosacca, capace di resistere e colonna di sostegno per Johann.
La storia unica di Rukeli credo fornisca un'ulteriore opportunità: gettare uno sguardo anche sulle attuali discriminazioni e radicati pregiudizi, che ammantano la popolazione sinta dedita allo spettacolo viaggiante. Circensi, giostrai - mestieri tramandati da lontane generazioni di origini indoeuropee - da sempre vengono definiti in modo spregiativo “zingari”, “girovaghi”. Una presenza documentata in centro Europa e nella Penisola italiana fin dagli inizi del Quattrocento.
La peculiarità dello spettacolo viaggiante costringe al nomadismo per raggiungere le piazze nei piccoli e medi centri urbani o alle periferie delle città, nelle ricorrenze di feste, sagre o per allestire uno chapiteau. Il rituale dei cavilli burocratici e, spesso, il rifiuto delle amministrazioni alle concessioni delle aree, in molti casi senza comprovate motivazioni, rappresentano una consolidata normalità affrontata nel più totale isolamento.
Storie quotidiane di tanti Rukeli invisibili, da portare alla luce. Come da acuto osservatore da sempre Dario Fo ha saputo disvelare.
Per la sua penna ironica e sferzante, l'attenzione alla storiografia non ufficiale, la satira sociale e politica - tra le altre opere Morte accidentale di un anarchico sul caso Pinelli - un meritato riconoscimento dal premio Nobel per la letteratura nel 1997, con la seguente motivazione: “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi.”

Claudia Piccinelli


2/ Scegliere. Anche quando l'unica scelta è la morte

“Un equilibrista sul filo incerto dell'esistenza”. Per Mauro Garofalo, autore di Alla fine di ogni cosa (Frassinelli edizioni, Segrate - Mi, 2016, pp. 264, € 18,50), Johann Rukeli Trollmann è soprattutto questo: un equilibrista in bilico sui tempi difficili del Porrajmos. Nella ricostruzione narrativa della vicenda del pugile zingaro che vinse il titolo di campione per perderlo subito dopo per ragioni razziali, l'olocausto dimenticato dei sinti e dei rom prende il passo e il respiro di un pugile sul ring, lo spazio circoscritto e protetto, almeno per un po', nel quale la divisione dello spazio che si manifesta in ogni forma di repressione e controllo è un processo più lento, seppure inesorabile.
Occorre andare per ordine. La vicenda del pugile zingaro sarebbe incomprensibile senza il recupero storico del Porrajmos. L'olocausto dimenticato di sinti e rom viene di rado menzionato, eppure non è diverso da quello più conosciuto degli ebrei, quasi fosse un genocidio di importanza secondaria, per quanto si edifichi anch'esso su base razziale, e poggi sullo stesso inaccettabile fondamento che permette al regime nazista di esercitare il diritto di uccidere.
Le tappe storiche coincidono. Si comincia in sordina con la deportazione di circa 400 rom e sinti a Dachau, nel 1936. È lo stesso anno in cui a Berlino si preparano le Olimpiadi. Ed è esattamente questa preparazione che consente di ripulire la città, relegando più di 500 rom e sinti a Marzahn, luogo di segregazione ancora non formalizzato come tale eppure perfettamente funzionante. L'apertura di campi di concentramento ufficialmente definiti tali anticipa di poco il decreto che sancisce la necessità di una “soluzione finale” anche per la “questione zingara”. Dal 16 dicembre 1946, e dopo l'ordine di internamento e sterminio firmato da Himmler, uccidere rom e sinti è legittimo, allo stesso modo in cui lo è per gli ebrei. Complessivamente, il genocidio all'interno del quale si collocano la vicenda esistenziale e la morte di Johann Trollmann produce qualcosa come 500.000 vittime, ma fatica ad emergere come delitto, non figura nel processo di Norimberga e non determina la punizione di chi aveva di fatto innescato lo sterminio: il dottor Robert Ritter e la sua assistente Eva Justin.
Entrambi compaiono fuggevolmente nel romanzo di Garofalo, ganci con la storia per un testo che è – lo ribadisce risolutamente l'autore anche nella sua nota conclusiva – prima di tutto un romanzo, un'opera letteraria piuttosto che un reportage. È una chiave importante, questa: “Ho scritto tenendo a mente i nomi di tutti della generazione perduta – scrive Garofalo. - Pesando ogni sillaba, cercando la precisione più di ogni altra cosa”. Utilizzando una sintassi deliberatamente singhiozzante – “personale, misurata, pesata in ogni tasto” – Alla fine di ogni cosa racconta una bella storia, forse non del tutto dimenticata, ma di certo raccontata qui con un piglio da scrittore maturo che in questa storia trova una sua voce precisa.
Per Garofalo, questa è la voce del suo personaggio, come sua è la ricorrente ossessione del Tempo: una dimensione maiuscola, molto insistita in tutto il romanzo, e che si stratifica nel processo costruttivo della personalità di Rukeli e nel farsi laborioso e poi bruscamente accelerato del “ragno nero nel cuore della coscienza europea” (I. Sinclair). Il Tempo si qualifica in modi diversi, frammentandosi in dimensioni spesso coesistenti: il tempo di fare le cose, il tempo di restare, il tempo di essere marito e padre, e infine il tempo giusto per uscire di scena.
La storia è scandita senza sbavature, i fatti e il loro resoconto si incasellano in 3 “round”, con un inizio preciso - luglio del 1929 – in un luogo preciso – la palestra dell'Associazione sportiva dei lavoratori BC Sparta Linden, ad Hannover. L'incontro con Zirzow, gli allenamenti, il trasferimento a Berlino, la progressiva convinzione che in questa cosa della boxe si poteva credere sono forse la parte più riuscita del romanzo. I combattimenti sono descritti con la potenza visiva e la fluidità di chi conosce la boxe non solo in teoria. Due scelte concettuali, in particolare, emergono con chiarezza: la volontà di restituire la dinamica dei combattimenti attraverso la musica del linguaggio, e l'aspirazione a costruire una scrittura che “respira” col pugile. Rukeli è bravo perché è veloce, perché è mobile ma soprattutto perché è in grado di vedere, di anticipare le mosse dell'avversario e dunque di identificarne la debolezza. La tensione verso il “make you see” conradiano è del tutto evidente, affiancata a una sensibilità cinematografica che Garofalo possiede per natura e per mestiere.
“Nel tempo, poi, il bianco e nero aveva lasciato il posto ai colori. Duravano un niente, un millesimo di secondo appena. Eppure, lì dentro, Johann guardava accadere ciò che sarebbe stato.”
La storia collettiva si costruisce anch'essa con un ritmo misurato, in piccoli scorci sempre molto documentati e appoggiati a una quotidianità sempre più compressa, a partire dalla prima menzione di Mein Kampf da parte di Amos, il sarto ebreo di Rukeli, fino alla decapitazione, nel ‘34, di Marius van der Lube, capro espiatorio per l'incendio del Reichstag. Da quel punto in avanti, tutto precipita.
Simbolicamente, la caduta comincia, per Rukeli, con l'adempimento transitorio del desiderio (la conquista del titolo, e la sensazione che tutto sia compiuto, ora e per sempre) e la sua immediata negazione (perché il combattimento non è stato condotto secondo le regole della boxe ariana, il Faustkampf). Rukeli è di fatto vittima di un processo storico: a partire dal gennaio del '33, i club di pugilato vengono riorganizzati, per ordine del nazionalsocialismo in modo da escludere progressivamente tutti gli atleti non ariani. Molti fuggono, e Trollmann viene incoraggiato a farlo: dalla sua donna, Olga; da Zirzow; dai fatti che la storia gli disegna intorno. Sebbene si rifiuti sempre di farlo, la convinzione che prende corpo in Rukeli è la sensazione di “una vita passata a inseguire un sogno che spettava ad altri. La sensazione di non meritare niente, se non la propria esistenza senza patria. Senza padri”.
L'assenza del padre è fortissima in questo romanzo, di per se stesso molto maschile (le figure femminili son poche, spesso appena visibili sullo sfondo, e le figure di Olga e della madre, sebbene molto caratterizzate, patiscono qualche compressione e restano, agli occhi del lettore, inafferrabili, come forse l'autore voleva che fossero). Ma i padri, appunto, sono figure sostitutive di un'assenza. Rukeli se la cava da solo. Mette in gioco il proprio corpo, proprio nel momento in cui quello stesso corpo diventa infetto, inferiore, pericoloso e pertanto legittimamente violabile
La questione nodale dell'olocausto sta nella riduzione del corpo etnico a oggetto; questa reificazione consente di esercitare il diritto di uccidere. Come scrive Michel Foucault, per mettere a morte qualcuno, occorre definire le condizioni di accettabilità di questo atto, trasformare l'altro in un intralcio genetico, un ingombro da eliminare delegittimandone il diritto stesso di stare al mondo. E l'espressione più estrema di potere – scrive Achille Mbembe proprio a proposito dell'Olocausto - consiste proprio nella capacità di decidere chi deve vivere e chi deve morire. Nell'economia del biopotere, la funzione del razzismo è quella di regolare la distribuzione della morte e di rendere possibile la funzione omicida dello stato.
La degenerazione di questo processo prevede numerosi preliminari, tutti ben visibili per Rukeli e per le persone che lo circondano. Molti riescono ad andarsene, manifestando in alcuni casi anche l'assoluta incomprensione per l'ostinata decisione di Trollmann a restare. Dopo il combattimento-beffa contro Eder, e dopo aver scelto da che parte stare, scappa anche il giornalista e amico Marc Weil. Prima però è testimone attivo dell'ultima, potente ribellione di Rukeli: costretto a combattere di nuovo per il titolo, seguendo le regole del Faustkampf, contro il pugile ariano Gustav Eder, Rukeli sceglie di rispondere alla recita con un'altra recita, di straordinaria potenza:
“Rukeli aveva i capelli dipinti d'oro tirati indietro e la pelle traslucida sotto i riflettori. Il pugile si era cosparso di farina  (...) Gli occhi neri di Rukeli. L'unica traccia di umanità dell'angelo”.
La repressione e il controllo implicano, lo abbiamo detto, prima di tutto una divisione dello spazio. Nel contesto del nazionalsocialismo, il ring rimane per un po' un luogo circoscritto e protetto, dove Rukeli può ancora consumare una possibile vittoria. Il FaustKampf rappresenta l'invasione di questo spazio. Una volta che esso sia stato profanato, Rukeli non può che optare per un solo atto di libertà: far sì cioè che la profanazione più scandalosa sia la sua, la recita di una purezza ariana sovrapposto al corpo di uno zingaro.
La sconfitta di Rukeli chiude il Round 2 e segna l'inizio del percorso verso la morte. Garofalo dedica tutto sommato poche pagine ai momenti peggiori. È come se il Tempo – quel tempo così importante nella storia – subisse un'accelerazione improvvisa, soprattutto dopo il divorzio da Olga e l'abbandono di ex-moglie e figlia. L'internamento avviene a poche pagine dalla fine del romanzo. La servitù e la morte vengono descritti con tratti lievi, quasi che si avesse paura di ferire il campione più di quanto sia necessario.
Tutto rallenta e si riproduce nella tragica pantomima della soluzione finale. Trollmann muore quasi per sbaglio, per mano di un kapò che ha messo a tappeto quando l'hanno costretto a indossare di nuovo il ruolo del pugile. Come nei combattimenti, “vede” in anticipo quel che succederà. Oltrepassa il mucchio di scarpe vuote ricordando il suo stesso viaggio.
Sceglie.
Che è poi questo il nodo centrale: sceglie anche quando l'unica scelta possibile è la morte. E resta libero.

Nicoletta Vallorani