Rivista Anarchica Online





La terra è di chi la canta/
Yo Yo Mundi, evidenti tracce...

Ci sono territori che sembrano ammantati da un tempo sospeso dove solo la lentezza a l'attesa ti permettono di conoscere storie e persone che rivelano l'anima di quei posti, dove la bellezza e la forza della terra, il suo silenzio e la sua quiete, sono bramati dalle fauci del potere che ne vorrebbe ridisegnare gli orizzonti ad ogni costo. Il Monferrato, terra di vini e di resistenza, di contadini poeti, donne di canto e di lotta, la via del sale, trovatori e cantori... Il suo nome diventa un mantra, Munfrâ, attraverso il quale riuscire a vedere dall'altra parte per poi farsi portatori e megafoni delle vicende che albergano sotto casa.
A raccontare il percorso nella forma canzone, ormai da circa 30 anni, con vena militante e consapevolezza del circostante, uno dei gruppi che meglio sa leggere e indagare i luoghi della memoria, il disagio del presente, le cosiddette storie minori e le “evidenti tracce di felicità” (titolo del loro ultimo album). Il viaggio di questa puntata è declinato dalla storia degli Yo Yo Mundi narrata dalla voce, nonché mente e penna fertile del gruppo, Paolo Enrico Archetti Maestri.

Paolo, cominciamo dal nome, soprattutto dal senso e dagli intenti del progetto Yo Yo Mundi.
Il nome ci ha scelto, lo volevamo giocoso, lo cercavamo insolito, ma italico e surreale. Volevamo un nome che non avesse altro significato che “noi”. Ed è arrivato Yo Yo Mundi. Che era elastico: solido come un sogno, leggero come un albero. E poi suonava bene. E poi Cortazar, il gioco del mondo. Insomma, perfetto. Volevamo essere le dita di una mano, sapevamo che se avessimo guardato tutti nella stessa direzione ci saremmo chiusi in un pugno, pronti per assaltare il cielo. È nato tutto come un sogno, che ad oggi non si è ancora realizzato. E questa è la nostra più grande fortuna.

Avete, sin dall'inizio, trovato il modo di coniugare al meglio l'ispirazione e le fonti letterarie e l'anelito civile per far emergere il contesto sociale e le istanze del tempo, quasi come se il passato e il presente parlassero la stessa lingua.
Abbiamo sempre messo al centro di un ideale tavolo creativo, tutte le nostre passioni. Non si suona solo per suonare. Non si sceglie una musica, un genere, un suono solo perché ci piace o è di moda. E così mentre crescevano gli ascolti, si allargavano gli orizzonti. E sui nostri scaffali si sono moltiplicati i libri, non solo i dischi. È così che siamo diventati golosi di tutto: teatro, cinema, arti visive, danza. Ci stavamo salvando la vita, non solo da un punto di vista artistico.
E la materia bruta di ogni canzone erano gli altri, era la varietà dei punti di vista, era ed è ancora il provare ad essere oltre ed altrove.

A proposito di lingua, infatti, il vostro viaggio, come quello di molti altri artisti, è stato contraddistinto da una forte spinta nel raccontare - come dici tu - l'altro e l'altrove per poi, ineluttabilmente, parlare di voi e delle vostre storie utilizzando il vostro territorio e la vostra lingua. “Munfrâ” e anche “Evidenti tracce di felicità” sono in qualche misura il vostro diario di viaggio, di bordo...
Sì, la grande fortuna di non suonare un genere, ma di morderne molti, la grande fortuna di scrivere canzoni e musica non partendo sempre dalle stesse modalità, ma sperimentando e inventando nuove maniere di espressione ci ha permesso di metterci sempre in gioco, di non annoiarci mai, di intrecciare i percorsi con i sogni e lo stile di altri artisti, musicanti e non. Ma, come dici bene tu, le mani le abbiamo sempre ficcate nelle storie che ci venivano a cercare, che arrivavano da noi e ci dicevano: “Hey! potrei essere la vostra nuova canzone, cosa aspettate a compormi e a restituire il mio racconto al mondo?”. Di conseguenza c'è molto di noi, anche se non di rado appare schermato, nelle nostre canzoni. E c'è molto dello spicchio di mondo che ci ospita: il Monferrato, certo, ma anche l'Italia.

Come nascono le storie e chi sono i personaggi che raccontate legati alla cosiddetta tradizione popolare e quale la vostra chiave di lettura per “disincrostarli” dall'idea fossile e passatista che si hanno di loro? Cosa rappresenta per voi la cultura popolare?
In qualche modo, giocando, ti ho già risposto: le storie e i personaggi ci vengono a cercare. Sono come i baci, si danno e si prendono. Ma affondano le radici nelle emozioni, lasciano segni sulla pelle, evocano desideri, si ripresentano nel sogno. E da piccoli baci, magari timidi e casti, via, via si trasformano in passione. E nascono i cuccioli, che altro non sono che acini di uva del nostro grappolo, le canzoni di un disco. L'albero delle storie suonanti. Il motto di questo nostro ultimo album era ed è: si suona con gli occhi chiusi, si sogna con le orecchie aperte. Direi che dentro questa frase c'è tanto di noi e del nostro ultimo album.

Personaggi come l'arcatòn (colui che raccoglie la roba usata) o il Ciåpapùve (il catturapolvere), i famosi eroi minori, eroi al contrario, antieroi quindi, quelli che la storia la fanno, non la scrivono, sfuggono alle trame del potere, quelli che in fondo hanno un'indole anarchica, regalano sogni, speranza e dignità. Cos'altro ti/vi spinge a raccontare di loro?
Sono meravigliosamente anarchici, perché sono creature del sogno, della lotta quotidiana e dell'utopia. Ti e vi racconto la storia di questo brano, scritto anche grazie al contributo fraterno di un compagno anarchico che si chiama Pier Paolo Pracca detto Pierre. Ciåpapùve è un personaggio epico inventato di sana pianta, una specie di eroe popolare che di giorno fa l'arcatòn. Nel Monferrato “arcatòn” è colui che raccoglie gli oggetti che le persone buttano via (Arca di Noè? Chissa!). Il nostro Ciåpapùve, però invece di raccogliere la roba vecchia, fa incetta della polvere che si è posata sulle cose dimenticate. Lo fa perché sa che tra la polvere si conservano le storie delle persone semplici, della gente comune. Ciåpapùve potrebbe essere un personaggio mitico proprio come gli eroi campesinos inventati da Manuel Scorza. Infatti come Garabondo ha la malattia dell'invisibilità, come Hèctor Chacòn quella della nictalopia, come Raymundo Herrera quella dell'insonnia. Infatti di notte, invisibile, insonne e con lo sguardo dei gatti, si aggira nelle case del Monferrato per seminare dolcemente negli occhi dei bambini la polvere che ha raccolto. In questo modo i piccoli custodiranno un patrimonio di memorie popolari da mescolare alle nozioni scolastiche. Ed è proprio questo il suo atto eroico: regalare alle generazioni future la consapevolezza che la storia non è solo quella dei fatti e dei personaggi citati nei libri, ma l'insieme delle nostre vite, dei nostri gesti quotidiani, le minime storie vissute, tramandate e narrate che, naturalmente intrecciate tra loro, generano il respiro del mondo.

Sono tante le collaborazioni e le “diramazioni” Yo Yo Mundi, dal teatro al cinema, ai progetti legati all'impegno civile. Quale linguaggio ha permesso una sana e consapevole crescita-evoluzione del gruppo?
Oh, sì quel che dici è davvero vero! In fondo sono e siamo rami dello stesso albero delle storie suonanti, come ti ho descritto poco fa. E dunque abbiamo assaggiato tutto prima di raccontare. Abbiamo immaginato, prima di sapere, abbiamo conosciuto e saputo per immaginare ancora. Poi le ingiustizie, un mondo che fa fatica, la lotta e la speranza, il bisogno e il sogno di nuove resistenze, di nuove forme di democrazia. Questa è la materia bruta dalla quale nascono le nostre canzoni: è la terra che nutre l'albero. E poi la voglia di futuro, la difesa delle culture e delle diversità e della madre terra hanno colorato quello che avevamo imparato, hanno fatto delle nostre canzoni uno strumento di ribellione costruttiva. Perché se costruiamo invece di distruggere, il potere rimane nudo, non sa come reagire. La sua violenza si scioglie, la sua presa si allenta. Noi in questo crediamo, profondamente.

Gli YoYo Mundi - Da sinistra: Chiara Giacobbe - violino; Paolo Enrico Archetti Maestri - voce,
chitarra; Fabrizio Barale - chitarra; Eugenio Merico - batteria; Fabio Martino - fisarmonica;
Simone Lombardo - cornamusa, flauti, ghironda; Andrea Cavalieri- basso, contrabbasso


Nomi dei Yo Yo e relativi strumenti. E relativi sogni..
Negli ultimi anni gli Yo Yo Mundi si sono trasformati, siamo diventati una specie di collettivo, capace di adattarsi agli eventi e alle situazioni: Paolo Enrico Archetti Maestri, voce, chitarre, armonica; Eugenio Merico, batteria; Andrea Cavalieri basso, contrabbasso, voce; Chiara Giacobbe, violino, harmonium; Dario Mecca Aleina, fonico, ingegnere del suono e, a volte, tastierista; sono loro lo zoccolo duro, sempre presente. E poi di volta in volta viaggiano con noi anche gli altri due Yoyo storici Fabio Martino, fisarmonica e Fabrizio Barale, chitarra. E non di rado si unisce alla banda Simone Lombardo, cornamusa, ghironda, flauti. Mi piace citare come parte integrante del gruppo anche Ivano A. Antonazzo che suona con noi in punta di pennello, obiettivi e matita, poiché dai tempi di Sciopero realizza grafica, video e fotografie per noi, con noi.
Ci piace anche segnalare alcuni ospiti, compagni di viaggio, che hanno colorato il nostro ultimo album: Anna Maria Stasi, Cristina Nico, Federica Addari e Betti Zambruno che hanno meravigliosamente cantato per noi. E poi ancora Gino Capogna alle percussioni, Ludovica Valori, trombone e Rino Garzia al contrabbasso (proprio in Ciåpapùve!), Alan Brunetta, marimba, Paolo Bonfanti, chitarre, Andrea Negruzzo al clavicembalo in Chiedilo alle nuvole e il grande ritorno nel mondo “Mundi” di Gianni Maroccolo, al basso in Cuore Femmina.

Paolo, alcune questioni che irrimediabilmente sono incatenate fra loro: cosa vuol dire musica d'autore? Ha senso oggi realizzare un disco (forse con la storica etichetta di mastro Beppe Greppi, la Fekmay. Raccontaci di questo sodalizio). Si continua a blaterare in modo ipocrita e stucchevole del diritto d'autore ma quasi nessuno parla del diritto a suonare e ad esprimere la propria sensibilità artistica.
Con la Felmay di Beppe Greppi ci si sente a casa, si procede tranquilli, ma non si abbassa mai la guardia. È uno spazio creativo e di confronto, non una stazione di transfert come altre etichette, questo per noi è stato ed è molto importante. Per quanto riguarda la canzone d'autore, non ho grandi o nuove cose da dire. Vive e lotta insieme a noi, ma per guadagnarsi altri e nuovi spazi - per non morire, per esistere e resistere più concretamente, dovrà smettere di essere autoreferenziale e snob. Autori e cantautori dell'Italia intera uniamoci e cambiamo lo stato delle cose! Il diritto d'autore? Andrebbe preservato e curato in altro modo, soprattutto per ragioni di sopravvivenza dell'autore stesso, ma questo è discorso lungo e complesso, ne parleremo più diffusamente un'altra volta. Il diritto di suonare va preservato a colpi di tamburo e fisarmonica, di chitarra e di violino... Di voci insieme dolci e potenti. Suoniamo ovunque, compagni e fratelli, creiamo nuovi spazi - noi lo facciamo da sempre e ne siamo assai orgogliosi - mettiamo in discussione le regole dello share e, soprattutto, smettiamola di assomigliare a ciò che dovremmo combattere.

In questo nostro nuovo medioevo (lasciami citare il maestro Gaber) bisogna essere “palombaro” per non stare a galla nella mediocrità o sperimentare la “solitudine dell'ape” per non rimanere annientati dai rumori di fondo della nostra civiltà inquinata?
La risposta è facile, bisogna provare ad essere l'uno e l'altro. La ricerca e il volo. La costruzione di un'esperienza e il battito d'ali della creatività. Lottare nelle tenebre e spargere il miele per il mondo. Senza perdere la tenerezza, ma con il pungiglione sempre pronto.

Mentre andiamo in stampa arriva la notizia che il vostro ultimo disco è tra i migliori 5 dell'anno nella sezione album d'autore, altra tappa notevole del vostro viaggio. Lungi da voi l'idea di celebrarvi o proporvi in una sorta di resoconto o storicizzazione del gruppo. Detto questo, quali rotte per approdare al vostro trentennale?
Continueremo a cercare tracce di felicità: in ogni lacrima la poesia, in ogni sorriso la rivoluzione.

Per contatti:
+39 393 9094004
impazienza@yoyomundi.com

Gerry Ferrara




Animali/
Rivoluzionari con la “r” minuscola

Noi anarchici non vogliamo
emancipare il popolo;
noi vogliamo
che il popolo sia autore
della sua stessa emancipazione
Errico Malatesta

1 maggio 2016. Diciannove scimmie evadono dai recinti di Alpha Genesis (South Carolina), la “fattoria delle scimmie”, dove si trovano 5000 “esemplari” allevati in questa struttura che esegue test genetici sugli animali da vendere poi agli acquirenti per la ricerca immunologica. Le fuggitive hanno aperto delle brecce nelle barriere di metallo. Ricatturate dopo diverse ore, sono state ricondotte agli arresti, ma, nonostante le dichiarazioni ufficiali, non è chiaro se siano state davvero riprese tutte. Non era la prima volta che fuggivano. E, in generale, non si tratta di un fenomeno isolato.
Il mese precedente, per esempio, dieci vitelli erano scappati dal camion che li stava trasportando verso il macello a Eggenfelden (Germania). Solo uno era stato subito catturato: confuso e spaventato, aveva cercato riparo come poteva, ritrovandosi infine all'interno di un supermercato. Braccato come un pericoloso criminale, veniva freddato dalla polizia a colpi d'arma da fuoco, davanti al banco dove giacciono i pezzi dei suoi simili già gelidi e incellofanati. L'irruzione di un corpo vivo e pulsante che cerca disperatamente di evitare la fine riservatagli dall'industria della carne, proprio nel tempio del consumo, rivela che cosa si cela dietro una “semplice” bistecca. Lo spazio urbano viene sconvolto, anche se per poco: un pericolo pubblico si aggira per le strade. Le forze dell'ordine intervengono immediatamente per ristabilire l'ordine, appunto. Lo fanno con i loro mezzi, quelli dello stato di emergenza, e senza neanche le usuali remore dettate dai “diritti umani”.
Fra il 1993 e il 1994, Tyke, un elefante del circo di Honolulu, si rende protagonista di numerose ribellioni ai suoi domatori. Verrà ucciso dalla polizia con 86 colpi, ma diventerà un simbolo delle lotte contro l'uso di animali nei circhi, ispirando campagne per i diritti animali per molti anni a venire.
Queste scene ci sembrano inusuali, delle vere e proprie eccezioni in un sistema di sfruttamento dei corpi animali (umani e non) che appare perlopiù incontrastato, padrone dello spazio, dei nostri tempi e dei nostri desideri. A maggior ragione se pensiamo a quei soggetti cui nessuno riconosce autonomia di pensiero o di azione, gli animali non umani, appunto. Persino gli/le antispecist* ne parlano in genere come dei “senza voce”, sentendosi investiti della missione di parlare al posto loro.
E invece, accendendo i riflettori sulle ribellioni degli sfruttati e delle sfruttate negli allevamenti, nei mattatoi, nei circhi, negli zoo e nei laboratori scientifici, abbiamo scoperto che non sono affatto sporadiche. Abbiamo anche scoperto che il potere spesso teme la resistenza animale, e mette in campo gli strumenti di cui dispone: i media passano sotto silenzio le azioni, ma soprattutto ne parlano riportandole alla loro dimensione di simpatici aneddoti, di eccezioni che confermerebbero una regola di miliardi di schiavi che accettano passivamente la reclusione e la sottomissione; le autorità locali certificano lo status di veri e propri fuorilegge per questi animali, emanando ordinanze di cattura e di abbattimento; la polizia si incarica di inseguire i fuggitivi e giustiziarli, se necessario; la stessa zootecnia si fonda sull'utilizzo di strumenti e tecniche repressive della resistenza animale. E, infine, abbiamo scoperto che quello che il potere teme è la solidarietà.
Le evasioni, le ribellioni e le proteste hanno infatti sempre l'effetto di sconvolgere la quiete della società neoliberista, mostrando, per esempio, come lo spazio urbano sia costruito ad uso esclusivamente umano, saturo di barriere e confini invalicabili per quegli animali che non stanno al posto assegnatogli dalla produzione. Tuttavia, l'esito è perlopiù negativo: la cattura o l'abbattimento. Del resto, chi, grazie a un incidente, riesce a scappare dal camion che lo sta portando al macello, trova intorno a sé, per prima cosa, un territorio a misura d'uomo, inadatto alla sua sopravvivenza, un territorio funzionale alla sola comunità umana in ogni suo metro quadro, dalle strade asfaltate con tutte le loro barriere e le automobili lanciate ad alta velocità all'inaccessibilità delle risorse primarie come le fonti di acqua e di cibo, recintate, privatizzate, cementificate. Dovrà poi fare i conti con la densità abitativa umana, talmente alta da implicare un potenziale di vigilanza e controllo capillare pressoché assoluto sui latitanti.
In alcuni casi, questi atti hanno almeno scosso l'opinione pubblica, hanno mostrato che dietro la “bistecchina” ci sono degli individui che vogliono vivere e talvolta hanno anche fatto esprimere l'opinione pubblica in loro favore. Alcuni di loro sono diventati dei simboli delle lotte antispeciste e hanno dato vita a vere e proprio campagne contro i circhi o altre istituzioni violente: Tatiana, una tigre siberiana che si è ribellata ai suoi aguzzini, Alexander, la giraffa fuggita dal circo in Emilia Romagna qualche anno fa, o Daniza, talmente nota da non necessitare di altre parole. Ma alcun* sono anche riusciti a liberarsi per sempre, grazie alle mobilitazioni di chi ha creduto davvero che la solidarietà potesse essere un'arma.
Di fronte a tale fenomeno, sono necessarie alcune riflessioni sul significato della rivolta degli animali, visto che gli stessi animalisti considerano troppo spesso quest'ultimi soltanto come passivi beneficiari della loro “buona coscienza”. L'insuccesso della maggior parte delle ribellioni animali non denuncia un'incapacità ontologica, ma soltanto una grande sproporzione di forze. Questi atti, più spesso individuali (ma talvolta collettivi), non vengono considerati politici, in fondo, perché ciò che è o non è politico è definito dai dominanti. Non vengono considerati atti rivoluzionari perché da sempre i rivoluzionari di professione hanno profuso grandi energie per escludere tutto ciò che è “immaturo”, disorganizzato, ciò che puzza di spontaneismo. Si tratta di una vecchia storia. Il monopolio della “Rivoluzione” ha sempre significato monopolio della narrazione: esaltazione di certe forme di resistenza, consegna all'oblio di altre.
Non è detto però che le narrazioni non si possano ribaltare. Come diceva Basaglia, «un atto rivoluzionario non è di per sé un atto maturo, anzi è piuttosto un atto immaturo». Questo significa, concretamente, costruire forme di solidarietà contro la repressione dei ribelli di ogni specie, e iniziare a concepirci non come qualcuno che parla per gli oppressi, ma come qualcuno che si pone al loro fianco. Del resto, vi sono stati momenti storici in cui le donne o i neri, per esempio, hanno rivendicato la propria presa di parola anche contro i maschi “emancipati” o i bianchi antirazzisti. Una solidarietà che abbatta i confini di specie è un bisogno urgente che sentiamo anche perchè noi stess* siamo animali, ma è soprattutto espressione di un rifiuto di prendere parola al posto di chi subisce il peso della norma, per porsi invece al suo fianco nella lotta per la liberazione.

Collettivo Resistenza Animale
resistenzanimale.noblogs.org

Suggerimenti di lettura
Stefania Cappellini, Marco Reggio, in «Liberazioni», n.16, primavera 2014.




Ricordando Arnaldo Massei/
Un uomo libero e onesto

La Biblioteca Franco Serantini di Pisa saluta l'avvocato Arnaldo Massei, 78 anni, scomparso il 9 agosto scorso, dopo una lunga malattia. Massei, laureatosi a Pisa in Giurisprudenza nei primi anni Sessanta ed entrato come praticante nel noto studio legale Gonnelli si è subito dedicato con generosità, nel penale, alle cause dei “diseredati”. Per questa sua attitudine divenne durante la stagione della contestazione, insieme all'amico inseparabile ed esperto Giovanni Sorbi (1909-1984), uno dei punti di riferimento per tutti coloro, studenti e lavoratori, che all'epoca incappavano nelle maglie della “giustizia borghese”.
Il suo nome ben presto sale alle cronache locali come colui che, in tempi difficili, si attiva per ogni “causa persa” formando, con altri avvocati, un circuito informale di Soccorso rosso che interviene a difendere giovani militanti dell'estrema sinistra e lavoratori in sciopero, spesso imputati prediletti di una magistratura conservatrice, al servizio del potere, ben rappresentata in Toscana, ad esempio, dal noto procuratore generale Mario Calamari (1909-2011) di Firenze.
Dunque, è naturale che Massei insieme a Giovanni Sorbi, dopo la morte di Franco Serantini si sia impegnato con il gruppo di persone che fin da subito si è mobilitato per difendere la memoria e il ricordo del giovane anarchico d'origine sarda picchiato brutalmente dalla polizia il 5 maggio 1972 durante una manifestazione antifascista e poi lasciato morire in carcere, da solo, il successivo 7 maggio. Massei, insieme a Luciano Della Mea, Guido Demetrio Bozzoni e l'inseparabile Giovanni Sorbi e molti altri, costituendo il comitato «Giustizia per Franco Serantini», si è dato da fare per anni per cercare di rendere giustizia, seppure a posteriori, ricercando quella verità giuridica che lo Stato e molte forze politiche hanno sempre voluto negare coprendo i responsabili del brutale assassinio.
Massei si è sempre rammaricato di non essere riuscito a inchiodare i poliziotti che causarono la morte di Serantini, pur conoscendone i nomi, le loro storie e il loro ruolo nella vicenda. Una ricerca di giustizia non dettata da un sentimento di vendetta ma ispirata all'essenza più vera del significato di quella parola, fedele al pensiero di Piero Calamandrei che a proposito scriveva: «Non si confonda la giustizia in senso giuridico, che vuol dire conformità delle leggi, con la giustizia in senso morale che dovrebbe essere tesoro comune di tutti gli uomini civili, qualunque sia la professione che essi esercitano nella vita pratica».
Arnaldo, anni dopo, in occasione del trentennale della morte di Franco ci ha concesso una lunga e interessante intervista sull'intera vicenda che, insieme ad altre, fa parte di quella “verità storica” che sopravanza moralmente l'insipienza e il vergognoso silenzio della “giustizia” statale. Infine, a complemento di quell'intervista, circa tre anni fa Arnaldo ha voluto donare alla nostra biblioteca copia dell'intero incartamento del caso Serantini per metterlo a disposizione delle future generazioni di studiosi e militanti.
Uomo con una grande passione per la musica, in particolare il jazz, ha sempre coniugato la sua grande serietà professionale con una forte sensibilità umana. Noi oggi, orfani del suo sorriso, vogliamo ricordare quest'uomo che ha degnamente e onestamente svolto il suo lavoro e che è sempre stato un amico degli ultimi “dannati della terra”.

Circolo culturale biblioteca Franco Serantini,
Associazione amici della Biblioteca F. Serantini ONLUS




Ricordando Gianfranco Aresi.1/
Dalle occupazioni degli spazi sociali all'impegno nei Gas

Gianfranco Aresi, anni 58, fotografo, milanese di origine pugliese, è entrato in contatto con il Movimento Anarchico all'età di 16/17 anni. Entrò a far parte dei collettivi libertari di quartiere e precisamente nel Gruppo di Crescenzago, alla periferia di Milano. L'attività sul territorio fu sempre tra le sue priorità, partecipò al movimento delle occupazioni per gli spazi sociali, alle lotte per la casa e contro il carovita, fece parte attiva del Movimento dei Circoli Giovanili con la contestazione della prima della Scala a Milano, il 7 dicembre 1976, che segnò l'inizio del movimento del '77. Fu attivo al Festival del Parco Lambro così come alle giornate di Bologna che videro schierati per le strade i Carri armati.
Fu promotore del Cordinamento libertario contro il caro-vita e la relativa lotta all'ATM, contro l'aumento dei biglietti dei mezzi pubblici, dando vita in seguito alla Lega Libertaria, sempre come esponente del Nucleo libertario di Crescenzago.
L'amore verso la sua compagna lo portò verso la terra e i vitigni di Broni, dove costituì un collettivo libertario, qui prese una denuncia per aver diffuso in un manifesto la frase “Ribellarsi è giusto”. Entrò a far parte del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa facendo controinformazione sulla storia di Piazza Fontana, su Pinelli e Valpreda insieme ai compagni storici del Circolo, seguendo tutte le attività di propaganda. Era considerato un buono, sempre allegro e disponibile, istintivo e passionale, non era un intellettuale ma una persona d'azione, e all'occorrenza tirava fuori la sua grinta come alla manifestazione a Pisa per il 5° anniversario della morte di Franco Serantini, dove lo vediamo protagonista con il megafono a contestare il deputato Mimmo Pinto, e i conseguenti tafferugli con il servizio d'ordine di Lotta Continua che tentò di togliergli il megafono.
Grazie agli insegnamenti di Ferro Piludu e del buon Cesare Vurchio produceva con la serigrafia i manifesti di propaganda, dando vita dopo il declino degli eventi del' 77 al Collettivo Anarres e al gruppo Interrogations ricerche visive, con la campagna in sostegno degli obiettori antimilitaristi, quella per Monica Giorgi, e la propaganda contro le guerre, con mostre e audiovisivi. Ha sempre collaborato con A rivista anarchica e con il Centro studi Libertari G. Pinelli, partecipando ai vari convegni e giornate di studio; era presente alle giornate Internazionali di Venezia '84. Il trasferimento con la sua compagna Mirella a Gorgonzola e i fine settimana a Broni nella sua vigna, per produrre il vino, lo allontanarono da Milano, ma la sua attività militante è andata avanti con altre iniziative.
A Gorgonzola partecipò alle attività ecologiste e fu tra gli organizzatori di una grande manifestazione con migliaia di persone, cosa rara in un paese. Diede vita alla nascita di un gruppo d'acquisto solidale e cercò di propagandare l'uso del biologico e dei prodotti a km zero. Nel 2001 partecipò alle Giornate di Genova contro il G8 scampando alle violenze delle Forze dell'Ordine di quei giorni. Aveva una visione unitaria del movimento anarchico e non, sperava sempre di trovare un punto in comune al di là delle differenze teoriche, voleva diventare ed essere il cambiamento.
Con i suoi viaggi in moto aveva apprezzato e conosciuto l'ospitalità dei Curdi.
Un compagno ma soprattutto un amico con cui ho condiviso fino ad oggi non solo una piccola grande storia caratterizzata dalla contestazione, ma anche molto tempo libero. Ho nel cuore la sua immagine sorridente in Kimono, con la macchina fotografica, in sella alla moto Guzzi, e con il cesto per la vendemmia, così come il ricordo delle nostre discussioni infinite. Mi mancheranno. Ciao Gianfranco.

Roberto Gimmi

Genova, luglio 2001, G8 - Gianfranco Aresi



Ricordando Gianfranco Aresi.2/
Un anarchico allegro e generoso

Sabato 27 agosto è morto, a soli 58 anni, il nostro caro amico e compagno Gianfranco Aresi.
Abbiamo conosciuto Gianfranco 25 anni fa, quando da Milano, dove aveva partecipato ai gruppi anarchici degli anni '70 e '80, è venuto ad abitare a Gorgonzola. Qui si è subito inserito, con intelligenza ed entusiasmo, nella vita cittadina. Insieme abbiamo svolto un'intensa attività politica e culturale, in particolare sui temi della pace, dell'antimilitarismo e della difesa del nostro territorio dalla speculazione edilizia e dalla cementificazione.
Insieme abbiamo dato vita al gruppo di acquisto solidale “L'albero e il seme”, di cui Gianfranco è stato un instancabile animatore. Ci mancheranno il suo vivace spirito libertario, da anarchico allegro e coerente, e la sua grande generosità.
Un abbraccio alla moglie Mirella e al figlio Giacomo.

Gli amici e i compagni gorgonzolesi




Ricordando Libereso Guglielmi/
Un anarchico innamorato della natura

Il 23 settembre, a Sanremo, è morto all'età di novantuno anni Libereso. Botanico di fama internazionale, noto ai più come “il giardiniere di Calvino”, uomo libero, vegetariano e divulgatore del valore delle erbe spontanee, ha saputo incarnare i valori più profondi dell'anarchismo con la sua generosità, la sua fiducia nell'essere umano e il suo entusiasmo nel condividere con chiunque la sua immensa conoscenza della botanica e della floricoltura costruita non sui libri ma con l'esperienza diretta.

Selva Varengo e Libereso Guglielmi

Il padre era anarchico, pacifista ed esperantista e la madre socialista. Libereso frequentò già durante il periodo fascista il gruppo anarchico sanremese “Alba dei liberi” come caricaturista, affiggendo quotidianamente vignette anticlericali e fondando, insieme ad un gruppo di amici, un progetto di manifestini “Tabula rasa” di carattere antifascista e anticlericale. Fu uno tra i primi obiettori di coscienza anarchici in Italia e per questo finirà in carcere come già il suo compagno Pietro Ferrua. Sempre nel dopoguerra con il padre Renato e il fratello Germinal ibrida un tipo speciale di rose allo scopo di ottenerle coi petali rossoneri. Negli ultimi anni si era impegnato soprattutto in battaglie in difesa del territorio e in iniziative di divulgazione grandi e piccole andando con curiosità ovunque fosse invitato. Ricordiamo la sua appassionata e appassionante conferenza alle Cucine del Popolo di Massezatico nell'ottobre del 2010. La sua passione però erano gli incontri con le scuole perché diceva che con i grandi c'è poco da fare perché pensano di sapere già tutto mentre i bambini non hanno pregiudizi.
Libereso vuol dire libertà in lingua ido, lingua discendente dall'esperanto, e a noi piace ricordarlo così, sorridente e libero.

Selva e Davide




Reggio Emilia, 19 novembre/
Un convegno sulla militanza anarchica

Si tiene sabato 19 novembre a Reggio Emilia, presso la Sala del Planisfero della Biblioteca Panizzi, il consueto appuntamento annuale con i convegni dell'Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa. Il tema portante del seminario, intitolato “La militanza anarchica e libertaria nel secondo Novecento. Le fonti orali: questioni metodologiche”, è appunto quello delle fonti orali per lo studio dell'anarchismo nel secondo Novecento (la loro raccolta, il loro utilizzo, la loro conservazione).
I lavori si aprono alle ore 10.00 per concludersi intorno alle 18.30.

archivioberneri@gmail.com
tel. 0522 439323 - 3381263779