Reazioni a catena
1.
C'è una tipologia di sapere dal quale mi tengo alla larga ed è quella che assegna ad un singolo individuo la priorità nei confronti di una scoperta o di un'invenzione. In linea di massima, mi dico, tutti noi apparteniamo per forza di cose ad un collettivo di pensiero, se facciamo il qualcosina che riusciamo a fare lo facciamo perché assisi – come avrebbe detto Newton – sulle spalle di giganti, ovvero di chi ci ha preceduto mettendoci nelle condizioni ideali perché noi ci si aggiunga quel qualcosa in più che può – a volte, nei casi più fortunati e che si possano dire conchiusi – far parlare di progresso. Nessuno né pensa, né parla, né agisce – né può farlo – potendosi dire del tutto estraneo al collettivo di pensiero all'interno del quale quel suo pensiero, quella sua parola o quella sua azione sono scaturiti. Se mi si dice che il Tale è stato “il primo a”, sospetto subito sia di chi me lo dice e sia di ciò che mi sta dicendo. È per questo – è anche per questo – che nelle istituzioni scolastiche ci stavo strettino e molto poco – ed è per questo che ne sono stato cacciato a pedate. Ed è per questo che non potrei mai partecipare ad un quiz televisivo.
2.
Ho fatto il maestro elementare e, dunque, so che ho dovuto arrangiarmi. So che alcune cose, ai miei allievi, ho dovuto mettergliele giù forse in modo più complicato: parlando del Tale, sì, ma anche di chi l'aveva preceduto su quella strada, di chi era già arrivato vicino a quella meta senza averla raggiunta, del contesto in cui ha operato, dei valori che, consapevolmente o meno, ha diffuso e dei valori cui, consapevolmente o meno, si è opposto. Per quanto mi è stato possibile, ho cercato di non smerciare sapere mistificato e mistificante. Ovvio che abbian tentato – anche qui – di cacciarmi a pedate, ma non ce l'han fatta – non per merito mio ma per contraddizioni loro, come al solito. Tra l'incudine dell'istituzione e il martello del suo sapere, comunque, ho cercato di fare del mio meglio e ciò che ritenevo il meglio per chi, più e meno obtorto collo, doveva sottostare alla mia autorità. Ed è dall'alto di questa autorità che mai una mia classe ha partecipato in alcun modo ad una gita scolastica.
Primo: a scuola ci sono già fin troppi motivi di discriminazione fra gli allievi – classe sociale, esibizione di merci con il potere conseguente, linguaggio, etc. – e meno ce ne aggiungo e meglio è. A qualcuno il costo della gita non fa nemmeno il solletico, ad altri può risultare insopportabilmente pesante; dire di no è arduo, rifiutarsi può mettere in imbarazzo – si va incontro al volere della presunta maggioranza per buona pace propria e per salvaguardare le relazioni sociali dei figli. Secondo: le mete di queste gite sono ammantate più di una finzione che di una funzione didattica. Perlopiù si riducono ad una serie di rituali: l'affollatissimo viaggio, la fila, una disattenta compostezza, il pranzo, la ricerca dei bagni, qualche gioco sotto controllo, qualche gioco fuori controllo, l'attesa dell'ora del ritorno, qualche compitino di rendiconto nei giorni successivi. Terzo: detesto il consumo culturale coatto per gli adulti figuriamoci quello per i bambini – e so bene come ogni sapere da costrizione si trasformi prima o poi nella detestazione di quello stesso sapere (quanti sono stati i bei libri che ho dovuto scoprire da adulto soltanto perché, prima – a scuola – mi avevano obbligato a leggerli?).
3.
In Reazione a catena, una trasmissione di giochini preserali
della Rai, il 31 agosto dell'anno in corso è accaduto un
fatterello che merita qualche riflessione. Fra le tante domande
a raffica del conduttore al partecipante, ad un dato momento è
stato il turno di “Chi è l'inventore del telescopio?”
ed io ho subito pensato che, con il mio modo di pensare, non avrei
saputo rispondere. Il gioviale concorrente, tuttavia, di problemi
se ne è posti pochi e, sicuro come una lippa, ha risposto
“Galileo Galilei”. Vabbé ho pensato io: si
dimentica tutto il lavoro degli olandesi sulle lenti, si dimentica
che di questi strumenti si è trovata traccia chiara nella
cultura ellenistica (più o meno: terzo secolo prima di
Cristo), ma, vabbé, in un quiz televisivo ci sta. Ma –
e qui arriva la sorpresa – il volto del prode conduttore
alla risposta si imperplessa, s'intristisce in una smorfietta
di dolore mimetico fino al canonico scuotimento di testa: “no,
mi dispiace”, la risposta corretta non è “Galileo
Galilei”, ma “Galileo”. Tornare indietro
nel tempo – o chiedere accesso agli archivi della Rai –
per credere. Ovviamente, il concorrente incassa e il gioco va
avanti.
Capire perché la risposta sia sbagliata non è facilissimo. Mi ci son provato e mi son detto che, escluso che venisse negata l'identità di “Galileo” con “Galileo Galilei”, qui mi trovavo di fronte ad una contraffazione ideologica estremamente raffinata. A Galileo Galilei è toccato un processo di depersonalizzazione, ovvero una personaggizzazione, del tipo di quella toccata a “Dante” che, da un certo momento in poi della nostra storia, ha perso l'“Alighieri” per strada. L'ha così perso, questo cognome, che recuperarlo alla memoria collettiva va considerato un errore. È proprio un caso di quella tipologia di sapere che ho sempre cercato di evitare. Per notorietà, dunque, Galileo Galilei è diventato Galileo e, una volta diventatolo, se ne deve difendere l'irreversibilità – l'ignoranza, la cattiva memoria, la stupidità, l'obbedienza, la sottomissione, la viltà sociale, la massificazione lo esigono.
4.
Quando mio nipotino Leonardo è uscito da scuola – ha appena iniziato la seconda elementare – mi ha subito comunicato la novità. Pensa – parola più parola meno, mi ha detto –, ci vogliono portare in gita, guarda, devo portare questo volantino alla mamma e deve firmarlo. Una gita di tre giorni – e mi guarda con qualche preoccupazione –, ma io tre giorni senza mamma e papà, dormire fuori, io non ci vado – e respira di sollievo, perché nel mio sguardo trova subito tutta l'affettuosa comprensione del caso. Con calma, strada facendo, calco la mano e gli racconto di tutte le disgrazie, di tutti i morti, di tutti i dispersi, di tutte le traversie che hanno contrassegnato le più nefaste gite scolastiche della nostra vita. Più che alla cronaca ricorro alla fantasia, ma lui ci si diverte come un matto e, al contempo, si fortifica nella sua idea sempre più legittimata. Tanto è vero che, quando più tardi lo riconsegno a sua madre è immediato e tassativo: a scuola hanno organizzato una gita di tre giorni, ma io me ne guardo bene dall'andarci. E sua madre si guarda bene dal contraddirlo – se ne dice felice e gli dice che ha perfettamente ragione.
5.
Per diventare “non corretta”, la risposta “Galileo
Galilei” ci ha messo un bel po' di anni. Di certo, nei primi
anni della televisione italiana – diciamo ai tempi di Lascia
o raddoppia? – sarebbe stata una risposta corretta –
presumibilmente, l'unica risposta corretta o, magari, in coabitazione
con “Galileo”. Invece, per far sì che mio
nipotino cambiasse parere, sono state sufficienti 24 ore. Il giorno
dopo, saputo che l'amico Arturo aveva deciso di aderire all'iniziativa
tutte le sue perplessità – e le belle ed edificanti
narrazioni traumatizzanti del nonno – si erano sciolte come
neve al sole. Ha fatto firmare la mamma-ostaggio-del-regime –
che, ovviamente, non poteva far altro che firmare – e si
è messo in trepida attesa del Grande Evento. Ci si può
– ci si deve – interrogare sull'accaduto: come sul
tapino concorrente di Reazione a catena – un nome
di programma politico, a questo punto – è stato sufficiente
il peso dell'autorità per fargli digerire un errore che
non aveva commesso, sul mio amato nipotino è stato sufficiente
il peso dell'autorità del compagno di scuola amico per
trasformare il timore in gioia, l'oscuro in nitido, il condizionamento
rifiutato in una scelta deliberata. Si tratta – in tutti
i casi – di forme dell'impartizione e della coercizione
del sapere, che – al di là della consapevolezza di
quanto sia arduo opporsi loro – ci definiscono i termini
del gregariato nonché l'inesorabilità dei suoi meccanismi.
P.S.: Giorni fa arriva una notizia che avrei categorizzato come “notizia-bomba” e che, invece – almeno apparentemente – “bomba” non è. Arturo alla gita non ci va – ha cambiato parere. Ansiosi, chiediamo allora all'interessato che cosa ha intenzione di fare. Che farà Leonardo? Se ne sta a casa anche lui? Niente affatto: lui alla gita ci va e non capisce proprio perché Arturo non voglia venirci. L'infezione virale, una volta raggiunto il bersaglio, non sparisce di certo a causa della morte del portatore. Però, però: alla gita ci va l'amico Riccardo – che, evidentemente, ha svolto la funzione del co-untore. E se dovesse deflettere anche costui? La data fatidica si avvicina, ma la partita è ancora aperta.
Felice Accame
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