Rivista Anarchica Online


dibattito

Appunti sull'anarchismo moderno

di Luca Lapolla


Alla quarta conferenza organizzata all'Università di Loughborough (Gran Bretagna) dalla Rete degli Studi sull'Anarchismo (ASN – Anarchist Studies Network) si sono affrontati diversi temi. L'anarco-femminismo, ma anche la relazione tra teoria e pratica, come cambiano le azioni di protesta, l'educazione libertaria, l'anarchismo quotidiano, l'etica, le regole....


Dialogo tra teoria e azione

Che ruolo ha la pratica per un anarchico? E quale funzione ha la teoria? A settembre c'è stata la quarta edizione dell'Anarchist Studies Network (ASN – Rete degli Studi sull'Anarchismo) che per tre giorni ha riunito accademici, appassionati di anarchismo e attivisti nella cittadina inglese di Loughborough. Durante un laboratorio si è iniziato a parlare del ruolo di pratica e teoria per gli anarchici. Bisogna partire dall'azione e poi riflettere sui suoi effetti? O è meglio agire in base ad una “dottrina”? Dopo qualche minuto di vivace dibattito, ci siamo trovati tutti d'accordo sulla necessità di un dialogo costante tra azione e teoria. Prima e dopo l'azione bisogna riflettere sull'azione stessa, ma far seguire alla riflessione una nuova azione!
Forse il merito principale della conferenza ASN, a mio parere, è stato proprio fornire un'occasione di riflessione per libertarie e libertari provenienti da tutto il mondo – o quasi. Circa un centinaio di persone che hanno vissuto per tre giorni nel verde campus universitario e hanno avuto modo di ascoltare ed esprimere punti di vista su decine di argomenti diversi. Perché essere anarchici è anche non credere di avere risposte definitive, ma anzi ascoltare nuovi punti di vista, confrontare le proprie idee ed esperienze, lasciarsi ispirare e contaminare. E tutto questo riesce meglio di persona che da dietro ad uno schermo. Ancora meglio se intervallato da qualche boccone e innaffiato con della buona birra.
In alcuni casi le riflessioni sono partite da azioni e pratiche concrete, come nel caso di un laboratorio tenuto da una compagna svizzera del collettivo Black Pigeons. Lei ha condiviso le sue esperienze di supporto ai compagni carcerati attraverso l'invio di lettere. E ci ha concretamente insegnato a scrivere una lettera. (Lo so, chi non sa scrivere una lettera oggigiorno, giusto? Beh, diciamo che alcuni consigli possono risultare parecchio utili in questo caso). L'azione successiva? Approfittare dell'alta concentrazione di compagne e compagni – preventivamente sensibilizzati – per firmare una serie di cartoline di solidarietà e scattare una foto collettiva col cartello “Free all prisoners”. Non servirà all'abbattimento del sistema carcerario, ma sono sicuro che i destinatari delle lettere apprezzeranno – e magari questo li aiuterà a resistere.

La locandina della conferenza internazionale

Occupazioni 2.0

Un altro momento di riflessione è stato il seminario sull'educazione libertaria. Immancabile in ogni conferenza o fiera anarchica del libro. Questa volta l'incontro si divideva in due parti: dibattito sul movimento studentesco e presentazione della Brighton Free University. La prima parte ha visto uno studente universitario inglese parlare inorgoglito dell'occupazione della sua università durata qualche giorno. Durante l'occupazione avevano organizzato dei corsi autogestiti dagli studenti ma, come prevedibile, dottorandi e docenti ne hanno preso subito le distanze a seguito delle minacce dei propri dipartimenti. E così gli studenti sono stati presto sgomberati.
Mentre i presenti accoglievano con entusiasmo il racconto, io ed un altro compagno italiano – entrambi residenti in Regno Unito – ci siamo scomposti molto poco. Sebbene certi episodi siano certamente poco frequenti nel panorama britannico, abbiamo fatto presente che il movimento studentesco italiano è impegnato in attività simili da decenni. Ho provato a far presente che le occupazioni, seppur utili a far sviluppare una coscienza politica agli studenti e per far crescere un movimento di opposizione sociale, causano ben pochi disagi alle istituzioni. Ben altro discorso sarebbe, ad esempio, uno sciopero delle tasse universitarie da parte degli studenti (£9.000 annui, circa €11.000).
Al solo sentir parlare di sciopero delle tasse universitarie, una docente universitaria è insorta. Secondo lei, questo penalizzerebbe esclusivamente gli studenti, che non potrebbero più dare gli esami. Be', uno sciopero indolore non credo l'abbiano ancora inventato... Ma un terzo compagno – un docente precario per un'università telematica – è poi intervenuto con un'osservazione molto interessante. Viviamo in un periodo in cui le università (specialmente quelle anglosassoni) si comportano come aziende private, e le guerre tra potenze si combattono tra eserciti di hacker. E se qualcuno, ha supposto il compagno insegnante, dovesse hackerare il sito dell'università in questione? In un sistema come quello inglese, in cui la digitalizzazione la fa da padrona, questo tipo di azione avrebbe molteplici potenziali ricadute e causerebbe non pochi problemi.

Educazione libertaria. Sì, ma chi paga?

Nella seconda parte, invece, una compagna – anche lei accademica – ha presentato una lodevole iniziativa: la Free University Brighton (FUB). Si tratta di una sorta di università fondata nella città di Brighton, ma gratuita e aperta a tutti. A differenza di altre esperienze simili, la FUB non punta ad organizzare solo corsi “alternativi” tipo “scrittura creativa”, ma anche corsi di tipo e livello accademico – però gratis. E a differenza degli istituti universitari riconosciuti, gli esami sono su base volontaria e non rilascia certificati di laurea. Al momento diversi accademici sono coinvolti nell'insegnamento dei corsi, ma l'obiettivo è di riuscire a coinvolgere gli studenti che hanno terminato un corso nell'insegnamento dello stesso agli iscritti dell'anno successivo.
Tutto molto bello ed entusiasmante. Ma come si fa per far uscire questo tipo di iniziative dal cantuccio inoffensivo in cui sono nate? Certo, finché saranno così piccole e limitate non ci sarà mai una reazione istituzionale proprio perché non sono pericolose per lo status quo. Ma allo stesso tempo non saranno mai realmente incisive finché non usciranno dal loro “stato di minorità”. E affinché questo avvenga, bisogna anche parlare di un argomento considerato spesso tabù tra gli anarchici: pagare per beni e servizi.
Nel momento in cui delle persone si offrono per tenere dei corsi (il che richiede presumibilmente una qualche attività di studio e preparazione a monte), o queste persone lo fanno come volontariato, oppure vanno retribuite. Nel caso della Free University Brighton, diversi “insegnanti” sono dei veri e propri professori e ricercatori universitari, con tanto di stipendio. E se qualche disoccupato volesse offrire le proprie competenze tecniche o teoriche per tenere un corso? Aiutare gli altri è fantastico, ma chi pagherà le sue bollette o il suo affitto o la sua spesa al mercato? E allora si potrebbe pensare di far pagare una sorta di retta agli studenti, come avviene in molte scuole libertarie. Ma è giusto pagare per ricevere un'istruzione? Se sì, quanto? Ed è giusto far calare la qualità dell'educazione puntando sulla quantità degli studenti paganti?

L'anarchia vissuta nel quotidiano

Il bello delle conferenze è che gli scambi d'idee continuano anche dopo i seminari e i laboratori. Ed è proprio nelle pause, durante i pranzi vegani sul prato, o alla sera nei pub, che si possono approfondire tanti argomenti. Ma anche conversare di cose (apparentemente) più “leggere”, perché una società anarchica non si fonda soltanto su un diverso sistema educativo o su un diverso contratto sociale. Ovviamente scuole libertarie e sistemi alternativi alle carceri sono imprescindibili in una eventuale società anarchica. Tuttavia, chiunque abbia condiviso uno spazio abitativo o lavorativo sa benissimo come siano proprio le piccolezze quotidiane ad esser fonte di screzi. E sarebbe davvero un peccato riuscire nella Rivoluzione Sociale per poi vedere le comuni disfarsi perché qualcuno lascia tazze sporche in giro e qualcun altro le cicche di sigaretta per terra.
Infatti proprio di tazze sporche e mozziconi di sigarette parlava un foglio circolato l'ultimo giorno della conferenza. Una denuncia da parte degli organizzatori dell'evento, su pressione del dipartimento che ci ospitava, affinché gli “sporcaccioni” – ma anche semplici volontari – si rimboccassero le maniche per evitare di sovraccaricare di lavoro gli addetti alle pulizie del dipartimento. Lo dicevano le femministe già negli anni Settanta: “il personale è politico!”, riferendosi alla pratica diffusa tra i militanti maschi di sinistra di predicare bene nel pubblico e razzolare male nel privato. L'abitudine di parlare e lottare in favore di una società più equa ed egalitaria, per poi riprendere nella loro vita quotidiana quei comportamenti sessisti che riproducevano le tanto disprezzate disuguaglianze. Oggi, a distanza di oltre quarant'anni, possiamo davvero dirci anarchici se pubblicamente esprimiamo solidarietà ai lavoratori sfruttati e sottopagati, ma privatamente aggraviamo il loro lavoro rendendolo una caccia al tesoro per trovare le tazze di caffè mancanti? Siamo davvero libertari se rispettiamo gli altri, gli spazi e i beni comuni solo per timore della repressione sotto forma di richiamo o multa?
Personalmente considero il rispetto verso il prossimo come pilastro fondante dell'anarchismo. Molti italiani cresciuti a pane e catechismo potrebbero associare queste parole ad alcune massime cristiane, ma questo era un principio diffuso già secoli prima nella Grecia antica così come in India e Cina. In realtà, però, più che di rispetto, sarebbe il caso di parlare di etica della reciprocità – ovvero, di trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati. Ma anche di trattare gli altri come si viene trattati! Perché è vero che bisognerebbe educare all'empatia invece che all'egoismo e alla competitività, ma è anche vero che non si può perdere tempo con approfittatori e “furbetti” recidivi. Insomma, vivere l'anarchia nel quotidiano, ma senza farsi fregare da chi vede l'essere rispettosi come una debolezza.

Gli “Spazi sicuri” e il proliferare di “norme”

Sempre durante l'ultimo giorno di conferenza ho trovato delle compagne italiane che discutevano animatamente indicando un foglio. Un foglio diverso dalla denuncia anti-sporcaccioni: una bozza per una safer space policy da approvare in vista della prossima conferenza. Una safer space policy (“norme per uno spazio più sicuro”) è grosso modo un regolamento interno o delle linee guida che sempre più spazi libertari stanno adottando per limitare comportamenti irrispettosi o dominanti. Chiaramente ogni spazio stabilisce, discute e approva la propria policy – solitamente in maniera consensuale piuttosto che mettendola ai voti. Ancora una volta, la parola chiave è “rispetto”. Infatti, proprio per non offendere nessuno, prima dell'inizio della conferenza avevano fatto circolare delle linee guida in cui i coordinatori dei vari gruppi e laboratori erano invitati a chiedere ai relatori se preferissero per sè il pronome he (lui), she (lei) o they (loro, ma usato sempre più come pronome singolare da chi non si riconosce nella tradizionale interpretazione sessuale binaria).
Ciò che invece, guardando la bozza della policy, più turbava una compagna toscana era il punto in cui si invitava i partecipanti della prossima conferenza a non indossare simboli o capi d'abbigliamento originari di altre culture e popoli. Ma allora, obiettava lei, i capelli coi rasta?! Chi stabilisce cosa appartiene a quale cultura? E se una cultura ha re-interpretato un capo d'abbigliamento proveniente da un'altra cultura o se una persona vuole omaggiare un popolo indossandone un simbolo tipico? Dobbiamo istituire un tribunale che interroghi e giudichi l'abbigliamento di ognuno? È iniziata così una vivace discussione tra di noi, in attesa dell'assemblea plenaria di fine conferenza in cui si sarebbe approvata – o respinta – la policy.
Durante l'assemblea, però, la maggioranza dei presenti non sembrava avere nessun problema con quel punto. Anzi, altre compagne hanno anche chiesto, per la prossima conferenza, di includere nuovi punti per garantire il rispetto di tutti. Ad esempio, consigliare ai partecipanti di non iniziare una conversazione dando per scontata la provenienza dell'interlocutore, perchè questo potrebbe essere causa di stress emotivo. O ancora: distribuire delle specie di spillette che, in base al colore, indichino se il partecipante abbia voglia di interagire verbalmente o non si senta pronto. Sempre perché essere rivolti la parola da un estraneo può essere un'esperienza traumatizzante, no? E, dulcis in fundo, queste e altre proposte venivano accolte con gesti presi dalla lingua dei segni, come ad esempio scuotere le mani aperte in segno di approvazione – invece di applaudire. Questa pratica s'è diffusa in molti spazi libertari a partire dalle esperienze di Occupy e, a quanto pare, ha l'obiettivo di rispettare chi ha la parola evitando di coprire la sua voce con altri suoni.

La polizia del politicamente corretto

Va bene, io ci ho provato veramente ad empatizzare con chi ha problemi emotivi, con chi viene interrotto bruscamente, con chi ha avuto la sua cultura razziata e commercializzata. E certamente non saprò mai cosa vuol dire veramente aver vissuto o vivere alcune di certe esperienze. Ma so quello che spesso ho provato io (e non sono il solo) in questi safer spaces: paura di offendere qualcuno usando per esempio un pronome sbagliato. Vero, le parole sono importanti, e le azioni ancora di più. Ed è fondamentale fare un costante lavoro su se stessi per non ricadere nella riproduzione delle relazioni di potere che dominano la società. Eppure, il mio timore è che certe pratiche – ideate per far sentire sicuro ciascuno all'interno di un determinato spazio – finiscano per creare un ambiente artificiale. Un ambiente in cui certe norme – come nel caso delle tazze sporche e delle sigarette – si seguono per non incorrere in sanzioni (sociali) da parte dell'invisibile ma onnipresente “polizia del politicamente corretto”. Inoltre, seguire tutte queste “linee guida” può avere la spiacevole conseguenza di ostacolare o appesantire la comunicazione.
E questo timore si estende anche al parlato e allo scritto in altri contesti libertari, come la scrittura di questo articolo, visto che – come affermava il linguista Roland Barthes – “la lingua è fascista”. La lingua non è mai neutra ma veicola sempre significati, sia espliciti che impliciti. Per questo articolo avrei potuto adottare varie scelte politico-linguistiche per le generalizzazioni e i plurali: usare la doppia desinenza (i/le compagni/e), l'asterisco (compagn*), o direttamente la forma femminile come si propone di fare la comune Urupia (le compagne, includendo anche i soggetti di sesso maschile). Tutte validissime soluzioni. Io ho deciso di usare, come ci hanno insegnato a scuola, la forma maschile e – quando possibile – la doppia forma per esteso (le compagne e i compagni). Perché? Perché ritengo che le prime due soluzioni appesantiscano stilisticamente il testo, e che la terza vada chiaramente spiegata ogni volta per evitare confusione. Nella lingua parlata, poi, i primi due metodi sono chiaramente inutilizzabili. E ripetere ogni volta la doppia forma può appesantire molto il discorso. Se con questo ho offeso le lettrici me ne scuso. Però, se la lingua è fascista, la polizia – seppur del politicamente corretto – non è certo progressista. E allora mi chiedo: non sarebbe meglio rendere gli spazi più sicuri affrontando direttamente i problemi (in primis il “privilegio” del maschio-bianco-eterosessuale-borghese) invece che attaccando e normando le loro manifestazioni sotto forma di frasi e azioni? Magari si potrebbe organizzare una conferenza di studi anarchici in Italia per parlarne, no?

Luca Lapolla


Anarchismo/
Tante domande, alcune riflessioni

La conferenza di tre giorni organizzata a metà settembre dall'Anarchist Studies Network (ASN – Rete per gli studi sull'anarchismo) tenutasi a Loughborough (Gran Bretagna), tra Leicester e Nottingham, nel campus universitario, è stata un'ottima occasione – la quarta da quando l'ASN ha iniziato ad organizzare questo appuntamento internazionale – per ascoltare relazioni e ricerche svolte sul tema dell'anarchismo da ricercatori, militanti, professori universitari provenienti da diversi paesi.
Un incontro positivo che ha fornito molti spunti per interrogarsi sul significato dell'anarchismo; lo ha fatto attraverso le ricerche presentate, ma anche grazie a degli accadimenti extra-programma che hanno dato vita a discussioni e confronti tra i partecipanti nei momenti di convivialità e condivisione.
A partire dal primo giorno dei lavori, i numerosi interventi (84 in programma) si sono susseguiti in modo serrato. Moltissimi sono stati gli argomenti trattati, tutti con perno centrale l'anarco-femminismo. A detta degli organizzatori, il tema avrebbe favorito la presenza delle donne che è stata infatti sensibilmente più alta (questa volta erano quasi la metà) rispetto agli appuntamenti precedenti. Ma la conquista di un'equa partecipazione durerà o si è trattato di un fenomeno estemporaneo e legato allo specifico argomento?
Durante il dibattito generale di apertura, guardandomi intorno, ho constatato che le donne non erano le uniche ad essere sottorappresentate. Il gruppo dei partecipanti risultava molto omogeneo: si trattava di uomini e donne bianchi, provenienti principalmente da paesi occidentali. “Cosa significa questo dato?” mi sono chiesta. Certo, sarebbe ingenuo pensare che tutti i gruppi anarchici del mondo abbiano i mezzi/il tempo/la volontà di affrontare un lungo viaggio verso la Gran Bretagna per partecipare ad una conferenza internazionale, ma forse la questione non è solo geografica e riguarda, più in generale, la composizione del movimento anarchico. “La conferenza dovrà tenersi in un'altra città del continente europeo. Berlino, per esempio, agevolerà l'affluenza di compagni dall'est dell'Europa, solitamente non presenti a questi appuntamenti” è stato affermato da un professore universitario berlinese durante il dibattito conclusivo. Può darsi che un cambiamento di questo tipo possa essere positivo dal punto di vista della partecipazione, mi sono detta, ma non sono convinta si tratti solo di distanze.
In quali paesi sono maggiormente presenti dei gruppi anarchici? E come sono composti? Esiste una pluralità etnica e culturale al loro interno? Il mancato pluralismo culturale e di etnie alla conferenza rispecchia una generale debolezza dal punto di vista dell'eterogeneità dei singoli gruppi? Se sì, da cosa è causato?
Quella della pluralità interna dei gruppi anarchici (da un punto di vista di genere ed etnico) mi è sembrato un importante input per una riflessione. Come può il movimento essere più inclusivo? Sarà interessante vedere come si evolverà la questione della partecipazione nei prossimi appuntamenti. Il tema dell'anarco-femminismo ha incentivato la presenza femminile, chissà se l'argomento (già annunciato) della prossima conferenza – la decolonizzazione – riuscirà ad avere esiti positivi riguardo all'eterogeneità dei partecipanti.

L'anarchismo e le regole

Le riflessioni non si sono fermate solo alla composizione del gruppo dei partecipanti.
Per il primo giorno, il programma prevedeva un incontro di apertura. Insieme ad alcuni compagni ho camminato per il campus alla ricerca del giusto edificio; una volta dentro abbiamo incontrato gli organizzatori e utilizzato subito un termine critico: compulsory (obbligatorio). L'ho usato io, in risposta alla sorpresa degli organizzatori nel veder arrivare, un po' di corsa e tutto in una volta, un folto gruppo di ragazzi nella stanza viola, purple lounge, dove si sarebbe tenuta la conferenza d'apertura. “Cosa fate qui tutti insieme? Perché tanta fretta?”, ci chiedono. “Credevamo di essere in ritardo! Abbiamo letto sul programma l'orario del dibattito, pensavamo fosse obbligatorio arrivare prima dell'inizio!”. Niente è obbligatorio ad una conferenza anarchica è stata la risposta.
L'ultimo giorno, sui tavoli di tutto il dipartimento è stato lasciato un volantino in cui si sottolineava la scorrettezza di alcuni comportamenti tenuti dai partecipanti alla conferenza (nell'elenco: tazze, bicchieri e piatti sporchi lasciati in giro per tutto il dipartimento, mozziconi di sigarette disseminati per il cortile, un debito di alcune centinaia di sterline causato da chi non ha pagato la cena della sera precedente, e altro); ho così ripensato alla frase sentita il primo giorno. Niente è obbligatorio ad una conferenza anarchica. Qualcuno deve averla presa alla lettera e pensato che non fosse obbligatorio fare attenzione ai propri comportamenti, che non fosse necessario comportarsi in modo rispettoso nei confronti degli addetti alle pulizie o degli altri membri del dipartimento. Ma anarchismo non vuol dire licenza o assenza di responsabilità e anomia (assenza di regole) non è sinonimo di anarchia. Qualcosa di obbligatorio quindi c'è: si tratta dell'etica e del rispetto dell'altro.
Alla questione delle regole è stato dedicato un workshop durante la conferenza. All'esterno del movimento si protrae il pregiudizio che anarchismo significhi assenza totale di regole, caos, incertezza. Una distopia caotica e distruttiva. Al contrario, anche le organizzazioni anarchiche hanno delle regole, poiché è la vita sociale a presupporle! Ciò che le caratterizza “anarchicamente” e in modo libertario è la loro definizione, che avviene in modo condiviso tramite la partecipazione attiva, il dibattito e il consenso e che si aggiunge al fatto che si possano cambiare potenzialmente ogni volta che lo si ritiene necessario. Il workshop “Anarchy Rules” parlava proprio di questo. “Anche gli anarchici rispettano delle regole, a volte senza rendersene conto!” è stata la frase di apertura dell'incontro. Isn't it ironic? canterebbe Alanis Morissettes.

Chi sono gli anarchici?

Durante la prima presentazione seguita, si è aperto un interessante dibattito. È stato un commento a far scaturire il tutto, in riferimento ad un gruppo di artisti della controcultura spagnola degli anni Settanta; a conclusione delle presentazioni, per rispondere a chi chiedeva se quegli artisti fossero anarchici, una delle relatrici ha affermato che “erano eccentrici e quindi erano anarchici”. Ha avuto così inizio – anche se per poco, a causa dei limiti di tempo – una discussione. Cosa vuol dire essere anarchici? Basta essere eccentrici? Chi può dirsi anarchico? È possibile giudicare il grado di anarchismo di qualcuno? Se sì, in base a cosa? Sono le pratiche quotidiane, il modo di agire nel mondo e di relazionarci con gli altri a definirci. Sì, ma quali pratiche? Potrebbe rispondere un interlocutore. La questione, va da sé, non è stata risolta quel giorno e il dibattito, lungi dal rimanere dentro quella stanza, resta aperto.

Veganismo e anarchia

L'organizzazione logistica della tre giorni è stata davvero lodevole. Gli organizzatori hanno saputo tener conto delle esigenze di tutti e facilitato al massimo la partecipazione. Persino durante i pasti. I pranzi infatti erano stati programmati tenendo conto sia della presenza di vegani, sia delle allergie di più di un centinaio di persone. Immagino non sia stato semplice. La scelta vegana (unica possibile) è stata molto apprezzata e messa in discussione da nessuno. Ci si è fatto comunque un pensiero, mangiando tutti insieme al sole sull'erba quello che era stato preparato per noi. Ecco il cuore della riflessione: per alcuni il veganismo sarebbe scelta imprescindibile per un anarchico e un'anarchica che si ritengano tali. Eppure esistono molti vegani non anarchici, e molti anarchici non vegani. Allora, ci si chiede, è davvero una condizione sine qua non? Se sì, perché? Per questo, come per tutti gli altri argomenti, la questione resta aperta.
Sono sicura che non esista una risposta univoca a tutti gli interrogativi sollevati durante la conferenza di Loughborough, che sono rimasti tali anche a conclusione dei lavori. Sarebbe interessante promuovere un incontro per discuterne. Organizziamo?

Carlotta Pedrazzini