Rivista Anarchica Online





“Odiano la nostra libertà”

(George W. Bush, settembre 2001)


Dopo la visita al memoriale di Ground Zero, pubblicata sullo scorso numero (“A” 413, “Perché ci odiano?”), il nostro corrispondente dagli Stati Uniti riferisce qui delle reazioni all'abbattimento delle Torri Gemelle (2001) e, in particolare, delle possibili risposte a quella domanda. Non tutti la pensano come l'allora presidente Bush. E c'è chi punta il dito sul ruolo internazionale degli USA.
Un dibattito ancora aperto.


Nel memoriale dedicato alle vittime dell'undici settembre un proiettore disegna senza sosta, su una lunga parete scura, una “timeline” in continua evoluzione. Sono stato seduto a lungo di fronte a quel muro, ipnotizzato dalle linee luminose che si formano lente, per poi scomparire e riapparire poco dopo. Immagino un potente computer, solo, in una stanza bianca, che scruta, filtra, naviga, cerca parole chiave, elabora dati e li proietta infine su quella parete. Sono le notizie della stampa di tutto il mondo, in qualsiasi modo correlate agli eventi di quel maledetto undici settembre 2001.
Non c'è quasi stato giorno che non se ne parlasse. Nessuna settimana è andata senza che quegli avvenimenti fossero analizzati, sviscerati o anche solo rammentati da qualcuno, in qualche parte del globo. Forse anche le parole che sto scrivendo verranno proiettate un giorno su quell'intonaco. Al pensiero mi assale l'agitazione: non ci tengo ad essere coinvolto, mio malgrado, in quel tritatutto. Non mi va di diventare una statistica, aggiungere su quella timeline parole che nessuno leggerà. Perché quella è solo un'immagine luminosa, appare e scompare, serve a emozionare il visitatore. Il contenuto, in fondo, non ha importanza, ma i titoli che vanno e vengono ci ricordano che quella data peserà per sempre nella coscienza collettiva. Ci sono stragi che possiamo dimenticare pochi istanti dopo averne letta la notizia sugli schermi dei nostri telefonini; carni dilaniate in qualche luogo distante e disperato che ci hanno raggiunto mentre fendevamo il traffico del mattino, diretti alle nostre occupazioni: scatta il verde e il pensiero già corre ad altro. Non così per i morti di Manhattan, che resteranno per sempre con noi.
Mi chiedo se ci sia qualcuno, dietro a quel proiettore, dedito a studiare quelle pagine di giornali e rotocalchi, se il memoriale non serva anche a questo, se si cerchi in qualche modo di interrogarsi, di capire il perché di tremila innocenti bruciati, di trecentoquarantatre eroici pompieri che hanno sacrificato la vita per evitare una strage più grande, di centinaia di volontari corsi a scavare senza maschere e senza protezioni, alcuni poi emersi da quei detriti velenosi coi polmoni rovinati per sempre.1
Nei giorni del dolore investigare le cause dell'attacco fu impossibile, TV, quotidiani e blog erano saturi di urla di vendetta. Alla maggioranza bastarono le parole del Presidente che, alla tragica domanda di quella donna emersa dalla nuvola di detriti: “Perché ci odiano?”, aveva risposto: “Odiano la nostra libertà”. Non tutti furono d'accordo, ovvio, la sua analisi era povera di argomenti, ma la voce dei dissenzienti fu soffocata da urla bellicose.
Non concordò Ronald J. Herring, direttore del Centro Studi Internazionali M. Einaudi della Cornell University. Per lui la risposta a quell'imprescindibile domanda andava invece cercata: “fra coloro che sono stati emarginati, traditi, feriti, umiliati dal nostro potere”. “Stiamo appena cominciando a fare i conti con la loro rabbia”, aggiunse.2
Non concordò Noam Chomski, che affermò in un'intervista al Manifesto: “I responsabili sono sostenuti da una riserva di rabbia e amarezza verso le politiche USA nella regione”.3

Manhattan (New York), Memoriale dell'11 settembre.
11/09/2001, i volti sconvolti dei passanti davanti alle torri gemelle in fiamme

Commenti terrificanti

Ma in quei giorni chi tentava di capire veniva additato come traditore e nemico della patria. Analisti, commentatori e giornalisti restarono impigliati in grande maggioranza nella rete della retorica nazionalista, preferirono dare esibizione di patriottismo, sebbene povero di argomenti convincenti: “gli islamici odiano l'America perché è una nazione libera e democratica”, sostenne un gruppo di studenti durante la popolare trasmissione televisiva West Wing. “I perdenti del mondo ci odiano perché siamo potenti, ricchi e capaci”, scrisse l'opinionista Richard Brookhiser sul New York Observer. “Ci odiano per pura invidia”, gli fece eco dalle pagine del Chicago Tribune il collega Thomas Friedman. L'editorialista Karina Rollings sull'American Enterprise sostenne: “la cultura islamica è intrinsecamente anti occidentale e, per sua stessa natura, ricolma di odio”. E Victor D. Hanson nel City Journal: “Ci odiano perché la loro cultura è arretrata e corrotta, sono invidiosi del nostro potere e del nostro prestigio”.
Altre volte i commenti furono terrificanti: “Non è tempo di cercare gli individui coinvolti in questo particolare attacco terroristico”, scrisse la giornalista Ann Coulter sulla National Review del 13 settembre 2001: “i responsabili includono chiunque abbia anche solo sorriso all'annichilimento di patrioti come Barbara Olson.4 Quelli che vorrebbero distruggere il nostro paese vivono fra noi, lavorano per le nostre linee aeree ma sono soggetti agli stessi controlli di un boscaiolo dell'Idaho. È come se i piloti della Wermacht fossero immigrati in America e fossero stati impiegati nelle nostre aviolinee durante la seconda guerra mondiale, con la differenza che i piloti della Wermacht non erano così sanguinari. Dovremmo invadere i loro paesi, uccidere i loro leader, convertirli al cristianesimo. In fondo non siamo stati così puntigliosi quando si trattò di individuare Hitler e i suoi ufficiali, bombardammo a tappeto la Germania e uccidemmo i civili. Era la guerra. E questa è una guerra”.
E Rich Lowry, sulla versione online della stessa National Review: “c'è un sentimento diffuso: spedire bombe atomiche sulla Mecca.5 Sembrerebbe una misura estrema, ma in fondo morirebbe relativamente poca gente e si manderebbe un segnale forte. Questo è tempo di riflessioni importanti, occorre decidere cosa fare in ritorsione e una cosa come questa potrebbe avere un effetto di deterrenza. Meglio oggi che dopo molte altre migliaia di vittime americane”.
Milioni di americani hanno letto quei commenti, ascoltato quelle proposte. Il grido di vendetta ha prevalso sull'ansia di giustizia.
“Indagare le cause dell'undici settembre è stato bollato come anti patriottico, ma è vero il contrario: se non riusciremo a individuarle non faremo altro che esacerbarle e lasceremo solo paura in eredità alle prossime generazioni”. Sono ancora parole di Herring. Mentre gli USA mettevano a ferro e fuoco l'Afghanistan alla caccia di Bin Laden, una sparuta pattuglia di intellettuali e giornalisti, non ostante tutto, provava a capire.

Manhattan (New York), Memoriale dell'11 settembre. Su una parete vengono proiettati
gli avvisi di cui era tappezzata la città, alla ricerca dei dispersi. I foglietti appaiono e scompaiono
nel buio del memoriale scuscitando nel visitatore un effetto di inesprimibile angoscia

Il contraccolpo

L'indagine forse più approfondita è quella del giornalista Ziauddin Sardar e dell'antropologa Merryl Wyn Davies, coautori di “Why do People Hate America?”,6 un libro coraggioso che prende le mosse proprio dalla domanda di quella donna senza nome: “Perché ci odiano?”. Un testo che dovrebbe trovare spazio in scuole e università ma che è invece introvabile persino nelle fornitissime biblioteche e librerie di New York.
È stato immergendomi in quelle pagine che ho appreso come, negli anni cinquanta, il termine blowback, letteralmente: “contraccolpo”, sia entrato a far parte del gergo militare per intendere le involontarie conseguenze negative di un'operazione segreta. Sembra che la parola sia stata usata per la prima volta con questo significato dopo il colpo di stato che, nell'agosto 1953, mise fine in Iran al governo democratico di Mussadeq e riportò al potere lo Scià Reza Pahlevi, inaugurando venticinque anni di feroce repressione e aprendo la strada alla rivoluzione khomenista: un'operazione notoriamente orchestrata dalla CIA per impedire la nazionalizzazione del petrolio persiano.
Secondo lo scrittore afgano/americano Tamim Ansary quel complotto è stato fatale e ha compromesso, forse per sempre, i rapporti fra USA e mondo islamico.7 Negli anni venti si era sviluppato in Persia un movimento giovanile che puntava a modernizzare la società e guardava proprio all'esempio degli Stati Uniti: i giovani persiani, diffidenti verso la vecchia Europa colonialista, ammiravano la democrazia americana e non vedevano contraddizioni tra quel modello di società e la loro fede. Fu quel movimento dirompente a ottenere libere elezioni e portare Mussadeq alla vittoria. Per quei ragazzi entusiasti la restaurazione del vecchio regime da parte della CIA rappresentò un vero tradimento. Delusi e amareggiati, compresero che anche gli USA, come i colonialisti europei, erano pronti a sacrificare diritti, vite, democrazia e giustizia sull'altare dei loro interessi. Quella ferita, secondo Ansary, non si è mai rimarginata. Il blowback di quei giorni amari è arrivato fino a noi.
Quel termine è tornato poi più volte a ossessionare l'America e lo si ritrova spesso nei rapporti riservati, nei documenti che analizzano il fallimento di tante operazioni macchiate di sangue innocente, dal Nicaragua all'Afghanistan, fino alla cronaca dei nostri giorni: l'ISIS, secondo molti osservatori, è un blowback dei tentativi americani di destabilizzare la Siria e, in qualche misura, l'undici settembre è forse un blowback delle attività segrete in Afghanistan ai tempi dell'invasione sovietica, quando il giovane saudita Bin Laden vi arrivò, assieme a migliaia di altre reclute straniere, nell'ambito di un'operazione orchestrata dalla CIA di William Casey.8
“Nessuno vuole odiare il popolo americano”, scrivono Sardar e Davies: “chi potrebbe mai odiare Denzel Washington, Sydney Poitier, Halle Berry, Whoopi Goldberg, John Steinbeck, Artur Miller o Susan Sontag? Ciò che la maggior parte della gente detesta è l'America, quell'entità politica ambigua, ossessionata, basata sulla violenza autoritaria, che guarda solo ai propri interessi e assume sé stessa a misura del mondo intero”.9

Manhattan (New York), Memoriale dell'11 settembre - La timeline in continua evoluzione
con le notizie della stampa di tutto il mondo sull'11 settembre

USA, paese leader del terrorismo?

Navigando nel web, fra siti e blog specializzati, quest'analisi sembra trovare conferma nei messaggi di tanti islamici che condannano la politica estera degli Stati Uniti ma affermano anche di nutrire generale simpatia verso il popolo americano. Io che ci vivo non posso che essere d'accordo. Come potrei odiare la gente che incontro per strada, che magari trascina l'esistenza fra mille difficoltà? Potrei forse detestare, solo perché sono americani, gli insegnanti malpagati che scansano retorica e patriottismo per dare ai miei figli e ai loro compagni strumenti per capire questa società, magari per cambiarla? Come potrei nutrire avversità per quelle persone che incontro al lavoro, newyorchesi dalle mille radici, di tutti i colori e di tutte le religioni, come erano i caduti dell'undici settembre?
Ma quel giorno i terroristi non fecero distinzioni e i tremila avrebbero potuto essere anche cinquemila o cinquantamila: non si erano posti un limite all'orrore possibile. Anche su questo è necessario riflettere.
Secondo Noam Chomsky non bisogna dimenticare che gli USA: “sono il paese leader del terrorismo”, l'unica nazione mai condannata per questo da un tribunale internazionale.10 Fra gli esempi da lui offerti: il Nicaragua distrutto per cacciare i sandinisti, le connivenze con la Turchia nel massacro dei curdi, la distruzione della fabbrica di medicinali di Al'Shifa in Sudan voluta da Clinton, l'assassinio di Lumumba in Congo, il tentativo di genocidio dei maya in Guatemala. La lista potrebbe allungarsi di molto. “Se avalliamo questi crimini, che hanno comportato innumerevoli sofferenze, come possiamo poi non comprendere perché ci attaccano?”, conclude Chomsky.

La Freedom Tower, sorta nei pressi delle torri crollate,
simbolo della rinascita della città di New York

Incapace di fermarsi a riflettere

Eppure, nonostante l'onesto impegno di questi ed altri intellettuali e di tanti attivisti, gli americani sembrano non sapere. Beneficiano delle ricchezze altrui, grazie alle manipolazioni dell'economia mondiale poste in essere dal loro governo, ma sono convinti, perché così viene loro detto, che il loro paese sia il più generoso al mondo, instancabilmente dedito ad aiutare i meno fortunati.11 Credono che il loro benessere sia frutto esclusivo delle loro capacità sul libero mercato mondiale, che il loro stile di vita sia quanto di meglio sia mai esistito nell'intera storia dell'umanità e che tutti dovrebbero ammirarli e cercare di imitarli.
Eppure, di tanto in tanto, non sono mancate le grida d'allarme nel deserto, come quella del vescovo Robert Bowman, veterano del Vietnam, che già tre anni prima dell'attacco alle torri gemelle aveva scritto sul National Catholic Reporter: “non ci odiano perché pratichiamo la democrazia, lodiamo la libertà o promuoviamo i diritti umani; ci odiano perché il nostro governo nega queste cose ai popoli del terzo mondo, le cui risorse sono bramate dalle nostre multinazionali. L'odio che abbiamo seminato ci da la caccia sotto forma di terrorismo. Invece di spedire i nostri figli e figlie in giro per il mondo ad ammazzare arabi per procurarci il loro petrolio dovremmo mandarli a ricostruire le loro infrastrutture, fornirgli acqua potabile, nutrire i loro figli affamati. Se facessimo il bene anziché il male, chi mai cercherebbe di fermarci? Chi ci odierebbe? Chi vorrebbe bombardarci? Ecco le verità che gli americani dovrebbero ascoltare”.
Ma nessuno ha ascoltato l'ex colonnello convertito. Le sue parole si sono perse per sempre nel fragore delle torri abbattute.
Si è perso nel rombo dei bombardieri anche l'appello di Amber Amudson, il cui marito morì l'undici settembre nell'attacco al Pentagono: “Ho ascoltato parole di rabbiosa retorica da alcuni americani, fra cui tanti leader della nazione che consigliano una forte dose di vendetta e punizione. Voglio dire chiaramente a quei capi che né io, né la mia famiglia, troviamo conforto nelle loro parole di rabbia. Se sceglierete di rispondere a questa incomprensibile brutalità perpetuando la violenza contro altri innocenti esseri umani, non siete autorizzati a farlo in nome della giustizia per mio marito”.12
Nel gennaio del 2002, sfidando i divieti del governo e l'avversione della nazione, alcuni familiari delle vittime dell'undici settembre andarono in Afghanistan in segno di solidarietà verso chi, a sua volta, aveva perso persone care sotto le bombe americane. Incontrarono parenti e amici di quegli innocenti uccisi dall'ansia di vendetta e si impegnarono allora a dedicare il resto della loro vita alla causa della pace. Un segno di speranza fra tanta disperazione, ma non ne ho trovato traccia alcuna nel memoriale. La notizia sarà forse passata su quella parete su cui un computer disegna incessante la sua timeline, ma le parole che scorrono su quel muro nessuno fa in tempo a leggerle.
Molto sangue innocente è stato sparso, l'America sembra incapace di fermarsi a riflettere, e la domanda di quella donna cosparsa di polvere velenosa urla ancora per le strade di Manhattan.

Santo Barezini

  1. La storia di quei volontari, prima esaltati poi abbandonati al loro destino, privi di adeguate cure mediche, è stata raccontata da Michael Moore in “Sicko” (2007), documentario-denuncia del sistema sanitario statunitense.
  2. Ronald J. Herring “International Education Week: Freedom and Terror”, su www.einaudi.cornell.edu/iew.
  3. Ripubblicata su “September 11”, ed. Steven Storie Press, 2001.
  4. Avvocata, commentatrice televisiva, scrittrice, Barbara Olson era fra i passeggeri del volo abbattuto sul Pentagono dai dirottatori l'11 settembre 2001.
  5. “Nuke the Mecca”.
  6. Pubblicato in Italia nel 2003 da Feltrinelli col titolo: “Perché il mondo detesta l'America?”.
  7. Le notizie sull'Iran sono tratte da: “Destiny Disrupted, a History of the World through Islamic Eyes”, ed. Public Affairs 2008. Pubblicato in Italia nel 2010 dall'editore Fazi col titolo: “Un destino parallelo, la storia del mondo vista attraverso lo sguardo dell'Islam”, è un testo fondamentale per capire storia e aspirazioni del mondo islamico.
  8. Sui controversi rapporti fra Bin Laden e la CIA si veda il vol. 1/2011 della rivista Limes: “Le maschere di Osama”, maggio 2011, in particolare il contributo del giornalista britannico Ahmed Rashid, noto esperto di medio oriente, alle pagg. 113 – 123.
  9. Z. Saddar, M. Davies: “Why Do People Hate America?”, ed. Disinformation, 2002, p. 194.
  10. Intervista rilasciata a David Barsamiam, pubblicata il 21 settembre 2001 col titolo: “Crimini di stato”. Chomsky si riferisce alla sentenza della Corte Internazionale di giustizia che nel giugno 1986 ha condannato gli USA per il supporto alla “Contra” e la destabilizzazione del Nicaragua.
  11. Il sentire comune contrasta persino con quanto riportato nel sito di USAID, l'agenzia USA per l'aiuto allo sviluppo, dove si sottolinea che l'80% dei fondi dedicati a questo settore vanno a diretto beneficio dell'economia americana.
  12. Le testimonianze di Robert Bowman e Amber Amudson e, a seguire, le notizie sul viaggio in Afghanistan di alcuni familiari delle vittime dell'undici settembre, sono tratte da Howard Zinn: “A People's History of the United States”, ed. HarperCollins, 2003, pagg. 681-682.