Rivista Anarchica Online


femminismo

Pagine femministe

scritti di Maria Matteo, collettivo Femminismi, Marvi Maggio, Marta Iñiguez de Heredia

Maria Matteo affronta la questione femminista oggi, nei movimenti e nella cultura. E riferisce dell'incontro nazionale “Non una di meno” svoltosi a Bologna il 4-5 febbraio.
Le donne del collettivo Femminismi criticano l'ultimo libro di Alexis Escudero, molto preoccupato per l'uso delle tecnologie in campo genetico. Una questione importante e aperta, sulla quale ci piacerebbe ospitare altri interventi.
Marvi Maggio polemizza con le Mamme No Inceneritore proprio a partire dal loro nome: un passo indietro da un punto di vista femminista, a suo avviso. Sul prossimo numero la replica di una del collettivo delle Mamme, per niente d'accordo.
Chiude queste pagine femministe la riflessione di un'anarco-femminista spagnola, che parte dalla storica esperienza delle Mujeres Libres ai tempi della rivoluzione del 1936/1939 e dalla propria presenza oggi – non senza problemi – nel movimento anarco-femminista spagnolo.



femminismo libertario

Il folle, la bestia, l'umano

di Maria Matteo


Alle radici della violenza di genere. Tra le mura domestiche o in giro.
I femminismi hanno attraversato, scuotendoli alle radici, i tempi fermi, ripetuti, ossessivi del femminile. Una vera rivoluzione.



Il cittadino: maschio, adulto, eterosessuale

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l'ordine formale del mondo prima delle rotture rivoluzionarie della fine del Settecento, hanno il loro lato oscuro, un'ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Tanta parte dell'umanità resta(va) fuori dal loro ombrello protettivo: poveri, donne, omosessuali, bambini. L'universalità di questi principi, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà comunque soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Limiti e condizioni che variano in base ai rapporti di forza tra i vari soggetti sociali.
Le nonne delle ragazze di oggi passavano dalla potestà paterna a quella maritale: le regole del matrimonio le mantenevano minorenni a vita. Se una donna lasciava la casa che divideva con il marito commetteva il reato di “abbandono del tetto coniugale”.
In Italia le donne stuprate, sino al 1981, potevano sottrarsi alla vergogna ed essere riammesse nel consesso sociale, se accettavano di sposare il proprio stupratore. Una violenza più feroce di quella già subita. Se una donna era uccisa per motivi di “onore”, questa era una potente attenuante. Uccidere per punire le donne infedeli era considerato giusto.
Sono passati 34 anni da quando quelle norme vennero cancellate dal codice penale. Poco prima era stato legalizzato il divorzio e depenalizzato l'aborto. Abortire, sino a quel momento, era un reato punito con il carcere.
Sino a metà degli anni Novanta per la legge italiana lo stupro era un reato contro la morale. Solo dal 1996 la legge lo definisce reato contro la persona.
Sulla strada della libertà femminile e – con essa – quella di tutt*, sono stati fatti tanti passi. Purtroppo non tutti in avanti.

Il lutto è privato

La palude è un mondo sospeso, in bilico tra acqua, cielo, terra. Solo le fronde agitate dagli uccelli e qualche quieto sciabordare d'acqua spezzano il silenzio, senza tuttavia muovere il tempo. La palude è stata una delle cifre del femminile. Quello borghese, europeo, decoroso.
Le donne delle classi povere erano incastrate nel tempo immobile, ma decisamente meno romantico, delle servitù familiari e non, tipiche della sfera domestica.
I femminismi hanno attraversato, scuotendoli alle radici, i tempi fermi, ripetuti, ossessivi del femminile. Una vera rivoluzione, tanto potente che si è a più riprese tentato di mitigarne la portata, imprigionandola nella sfera del costume, delle relazioni interpersonali, della famiglia. Il femminile ha frantumato lo specchio in cui si rifletteva un ruolo sociale considerato immutabile, perché determinato da una sorta di destino biologico investito di sacralità, senza dimensione culturale. Chi lo rifiutasse era (è) contro natura, contro dio, contro le regole di un gioco fissato per sempre.
Il femminile è quanto di più simile alla natura sia stato prodotto dalla cultura. La differenza segnata dalla biologia viene assunta come dato immutabile, programmato per sempre. Il percorso della libertà femminile spezza le catene simboliche e materiali dell'ordine patriarcale. La libertà sessuale, riproduttiva, di rimodellamento del proprio stesso corpo rimescola le carte e spezza la gerarchia tra i sessi. Le donne libere generano se stesse, si rimettono al mondo, costruiscono un mondo nuovo.
Oggi di fronte al dispiegarsi violento della reazione patriarcale si tenta di privatizzare, familizzare, domesticare lo scontro. Le donne sono vittime indifese, gli uomini sono violenti perché folli. La follia sottrae alla responsabilità, nasconde l'intenzione disciplinante e punitiva, diventa l'eccezione che spezza la normalità, ma non ne mette in discussione la narrazione condivisa.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che i media ci raccontano come rottura momentanea della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l'ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l'ordine patriarcale.
La narrazione prevalente sui media è falsa, perché nasconde la realtà cruda della violenza maschile sulle donne. Non solo. Trasforma le donne in vittime da tutelare, ottenendo l'effetto paradossale di rinforzare l'opinione che le donne siano intrinsecamente deboli.
Tutto si consuma nel privato, tutto deve restare privato. I panni sporchi si lavano in famiglia. L'utilizzo degli stili di vita, delle personalità delle donne e degli uomini coinvolti come chiavi di lettura degli eventi, facilita la sottrazione alla sfera pubblica della violenza maschile contro le donne. Anche i femminicidi vengono privatizzati, ridotti a esito di relazioni malate.
Eppure. Eppure, ad ogni latitudine del pianeta, c'è strage quotidiana di donne. Uccise perché donne. Questo è il senso del termine femminicidio, un neologismo che ormai tutti usano. Un neologismo inventato per rendere consapevoli dell'esistenza di un crimine che colpisce le donne, per disciplinarle, piegarle, spaventarle, per tenerle sotto controllo, per (ri)affermare, attraverso la violenza, l'ordine patriarcale.
Le migliaia di donne messicane povere, torturate a morte e abbandonate nel deserto, come cose inutili, con la complicità della polizia e della magistratura, sono solo la punta di un iceberg in buona parte sommerso.
Sommerso anche alle nostre latitudini, perché la stessa parola femminicidio è stata masticata al punto da indebolirne la potenza. Femminicidio diviene il delitto domestico, privato, familiare.
L'amore romantico, la passione coprono e mutano di segno il femminicidio. Le donne sono uccise per eccesso d'amore, per frenesia passionale. Un alibi preconfezionato, che ritroviamo negli articoli sui giornali, nelle interviste a parenti e vicini, nelle arringhe di avvocati e pubblici ministeri. Questa narrazione distorta non serve (più) a salvare dalla galera gli assassini, ma a nascondere la guerra contro le donne in quanto donne, che viene combattuta, ma non riconosciuta come tale.
Rinchiudere nelle mura domestiche i femminicidi serve ad addomesticarli, renderli meno pericolosi per l'ordine sociale.
La casa, il “privato”, è il luogo dove si consumano la maggior parte delle violenze e delle uccisioni. Le donne libere vengono picchiate, stuprate e ammazzate per affermare il potere maschile, per riprendere con la forza il controllo sui loro corpi e sulle loro menti. Gli assassini e gli stupratori sono uomini a loro vicini, vicinissimi.
Significativo è il fatto che se la violenza domestica cade sotto il segno della malattia, la violenza operata da sconosciuti rimette al centro la bestialità umana, una natura ferina, non adeguatamente civilizzata.
La metafora della giungla, i branchi di stupratori in strada, specie se stranieri, lontani, diversi riassume una narrazione, dove il nemico delle donne è posto costitutivamente fuori dal consesso sociale. Qui la violenza maschile esce dallo stereotipo del folle, per assumere quello della bestia. La società è sana: chi uccide le donne o è un pazzo o è una bestia. Non umano, fuori dall'umano.
L'ordine è salvo. Il lutto è privato.

Il mutuo appoggio femminista

Da qualche anno ai vari angoli del pianeta le donne hanno deciso di rimettere al centro la lotta contro il patriarcato, spezzando l'immaginario che privatizza la violenza e trasforma i violenti in anomalie, che non intaccano la pace sociale.
Al centro di marce, assemblee, proteste rumorose, i contenuti di un'azione femminista, che parte dalla narrazione delle storie che segnano il nostro quotidiano, per rompere il silenzio e l'indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa fuori e contro chi vuole le donne inchiodate nello ruolo di vittime.
La difesa delle donne è sin troppo spesso alibi per politiche securitarie, che usano i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull'intera società. Le donne in lotta sanno che lo stereotipo della vittima serve solo a giustificare una perenne messa sotto tutela.
I movimenti cresciuti negli ultimi anni rifiutano tutele e tutori, con o senza divisa, traendo forza dalla solidarietà e dal mutuo appoggio. Vivere, solcare le strade con la forza di chi sta intrecciando una rete robusta, capace di combattere la violenza di chi vuole affermare la dominazione patriarcale è la scommessa che rimbalza dall'Argentina al Messico, dall'Italia alla Polonia, dalla Spagna agli Stati Uniti.

Itinerari di libertà

Le lotte delle donne hanno cancellato tante servitù. Ma ne paghiamo, ogni giorno, il prezzo. La violenza reattiva è solo un lato della medaglia, l'altro è più subdolo e complesso.
Il prezzo dell'emancipazione femminile è stato anche l'adeguamento all'universale, che resta saldamente maschile ed eterosessuale. Lo scarto, la differenza femminile, in tutta l'ambiguità di un percorso identitario segnato da una schiavitù anche volontaria, finisce frantumata, dispersa, illeggibile, se non nel ri-adeguamento ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.
Serve uno sguardo maggiormente critico che colga le aporie insite nella dimensione rivendicativa di servizi per i bambini, gli anziani, i disabili. Questi servizi, comunque affidati prevalentemente a lavoratrici, portano all'istituzionalizzazione forzata di chi ha bisogno di essere aiutato a vivere.
Una riflessione seria sulla crescita di ambiti pubblici non statalizzati, né mercificati potrebbe aprire percorsi di sperimentazione che sciolgano le donne dal lavoro di cura, liberando dalle gabbie istituzionali bambini, anziani, disabili. Smontare il concetto di famiglia, per dar spazio ad una dimensione sociale più ampia, includente, libera, è un passaggio che sarebbe facile dare per scontato.
La famiglia eterosessuale con figli è tornata ad essere al centro della società, senza essersene mai allontanata realmente. È un perno tanto forte da attrarre anche chi, per orientamento sessuale, ne è tenuto fuori. In questa partita complessa, dove si gioca l'estendersi dell'universalità formale dei diritti a chi ne è escluso, si contribuisce paradossalmente a rinforzare la famiglia.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura, da parere quasi «naturali», spesso si estingue, polverizzato dalle tante cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dalle femministe che inventano le gerarchie femminili per favorire operazioni di lobbing.
Lo scarto femminile non è iscritto nella natura, ma nemmeno nella cultura; è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Contro la normalizzazione delle nostre identità erranti il femminismo libertario si svincola dalla mera rivendicazione paritaria, per mettere in gioco una scommessa dalla posta molto alta. Una scommessa che scardina l'ordine simbolico, perché è capace di sperimentare, nel conflitto con l'esistente, nella lotta contro le tante linee di cesura che la società gerarchica e di classe ci impone, relazioni politiche, sociali, umane libere. Libertà ed uguaglianza si impastano per mettere sul tavolo tante diverse pietanze, perché la rivoluzione è anche un pranzo di gala.
Il femminismo libertario lotta per spezzare l'ordine. Morale, sociale, economico. Miliardi di percorsi individuali, che attraversano i generi, costituiscono l'unico universale che ci contenga tutt*, quello delle differenze.
Il percorso di autonomia individuale si attua nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato, dal capitalismo, dal patriarcato. È una strada che ciascun* fa per sè, assieme agli altri: si frantuma la gerarchia, per esserci, ciascun* a proprio modo.

Maria Matteo


La marea sale ancora

di Maria Matteo

A Bologna il 4 e 5 febbraio, l'assemblea nazionale di “Non una di meno” ha messo in luce le nuove modalità e finalità di questo vivace movimento che coinvolge donne e uomini.

Non era scontato.
Non era scontato che, dopo l'imponente manifestazione femminista del 26 novembre 2016 e la grande assemblea del giorno successivo, il nuovo appuntamento della rete femminista “Non una di meno” lanciato per il 4 e il 5 febbraio a Bologna fosse colto da tanta gente.
La marea continua a salire: 1500 persone hanno partecipato agli otto tavoli di lavoro e alla plenaria conclusiva nei locali della facoltà di giurisprudenza del capoluogo emiliano. Tanti i luoghi, gli accenti, le storie, le vite, i percorsi politici e sociali che si sono incrociati in due giorni di confronto, quasi sempre pacato, mai semplice.
Negli ultimi anni è nato un movimento femminista capace di porre al centro la questione dell'identità, che non è biologica, ma politica e sociale.
Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. A “Non una di meno” partecipano donne e uomini, le cui identità sono difformi, spurie, fuori dagli schemi.
È un femminismo che colloca la lotta al patriarcato agli incroci dove si interseca con questioni come la classe, la razza, la gerarchia. Non accetta che la libertà e la sicurezza delle donne possa divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi.
Il movimento nasce sulla spinta di quelli sudamericani contro la violenza maschile sulle donne e fa parte di una rete transnazionale in rapida crescita. È un movimento di lotta che sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico, un “piano femminista” contro la violenza di genere. Un discorso che si sta definendo nei tavoli di discussione, che si sono costituiti a Roma il 27 novembre, e che, tramite mailing list nazionali e svariate articolazioni territoriali, si sono sviluppati in ogni dove.

Bologna 4-5 febbraio 2017, assemblea Non Una Di Meno

L'antisessismo condiviso. Formalmente

A Bologna l'intersezione dei linguaggi mostrava la trama sottesa alle tele intessute da ciascun*. In molt* invece era forte la tensione a condividere i vissuti, per dare parola politica a quanto viene relegato ai margini, rinchiuso nel privato. Privato in tutta la profonda ambiguità di un termine che è gabbia normativa e indice di sottrazione da una sfera pubblica ancora declinata al maschile, universale, bianco, eterosessuale.
Anche nei luoghi di “movimento”. Un'inchiesta realizzata a Roma in alcuni posti autogestiti ha rivelato che un terzo delle compagne ha subito violenze e molestie in spazi di aggregazione politica e sociale, in cui l'antisessismo è formalmente un valore condiviso. Le statistiche ci dicono che la percentuale nazionale è identica. I “nostri” posti sono autogestiti, crocevia di lotte ed esperienze, luoghi dove si prefigura il mondo che vorremmo, ma non sono esenti dal sessismo, dalla violenza di genere. Fare i conti con questa realtà, individuare strategie per riconoscerla, raccontarla, affrontarla e combatterla è l'obiettivo del tavolo sul sessismo nei movimenti, cui ho partecipato con altr* compagn* dell'assemblea antisessista di Torino.
Oltre a quello sul sessismo nei movimenti c'erano altri sette tavoli tematici: legislativo e giuridico; lavoro e welfare; educazione alle differenze; femminismo migrante; salute sessuale e riproduttiva; narrazione della violenza attraverso i media; percorsi di fuoriuscita dalla violenza.

Grandi numeri, grande entusiasmo

L'obiettivo dichiarato della due giorni era, oltre al dibattito sul piano femminista contro la violenza di genere, la definizione degli obiettivi dello sciopero globale delle donne di mercoledì 8 marzo. Questi tavoli hanno lavorato in contemporanea, in un'alternanza tra momenti collettivi e approfondimenti di gruppo, con una pratica orizzontale, libertaria, inclusiva. I grandi numeri e il grande entusiasmo mostrano un movimento in crescita, ancora aurorale, che si trova in bilico tra la ricerca dell'interlocuzione istituzionale e la tensione a costruire autogestione e conflitto fuori dalle gabbie normative imposte dallo Stato, fuori dalle relazioni di sfruttamento cui ci costringe la società di classe.
Molti i nodi rimasti aperti. In alcuni tavoli sono prevalse, non senza un aspro dibattito, tentazioni stataliste. Nel tavolo “lavoro” la spinta ad ottenere basi materiali per sottrarsi ai rapporti violenti ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama usurata. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Tuttavia il dibattito è stato molto più ampio, articolato, complesso, aperto, nel ricercare una fuoriuscita dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non poggiasse sulle mani e sulle spalle delle donne migranti.
Il tavolo giuridico, ma forse era inscritto nel suo DNA politico, si è chiuso nel gioco delle convenzioni e dei diritti formali, quelli che in altri ambiti servono ad emettere severe condanne postume.

Nessuno sconto alla CGIL né al sindacalismo di base

Decisamente più interessante l'esito del tavolo “educare alle differenze”, che, contro la logica delle “pari opportunità”, vuole “coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità”.
Al tavolo sulla fuoriuscita dalla violenza, cui hanno partecipato soprattutto le donne dei centri antiviolenza, è stato affermato il netto rifiuto dell'istituzionalizzazione dei centri antiviolenza, la rivendicazione del ruolo politico di chi ci lavora, che nega la logica assistenzialista, dando spazio alle donne, non più vittime ma protagoniste.
Molto concreto, mirato al contrasto del racconto mediatico prevalente e alla costruzione di percorsi comunicativi femministi il lavoro del tavolo comunicazione.
Il tavolo sul femminismo migrante, pur scontando l'aporia della scarsa partecipazione delle donne straniere, ha formulato l'obiettivo di cancellare le leggi razziste, i CIE, le deportazioni.
Il dibattito si è concentrato sulle gabbie che stringono d'assedio le vite migranti, strangolate da leggi razziste, che tengono sotto costante ricatto chi, per mantenere il permesso, non può perdere il lavoro.
Molte donne senza lavoro eccetto quello non retribuito tra le mura domestiche, sono vincolate al permesso del marito e quindi sotto doppio ricatto.
Al tavolo sulla salute si è parlato di riconquista dei consultori, di rendere liberi e sicuri l'aborto, la contraccezione, l'accesso agli esami.
Intorno a questi temi è stato costruito lo sciopero dell'8 marzo, senza fare sconti alla CGIL, che non aveva proclamato lo sciopero ma pretendeva di essere parte del percorso. Nessuno sconto neppure a quei settori del sindacalismo di base, che pur proclamando sciopero l'8 marzo, non hanno accettato di far convergere sull'8 lo sciopero convocato il 17 febbraio contro la buona scuola. A Bologna nella plenaria finale il comunicato inviato dalla CGIL è stato sommerso dai fischi, mentre fragorosa è stata l'approvazione verso le proposte più radicali.

Ma la misura è colma

I prossimi mesi ci diranno se le tele che stiamo tessendo sono robuste, capaci di contrastare il riformismo, le seduzioni welfariste, le illusioni sui “diritti”, che pure hanno fatto capolino nei vari tavoli.
Sono già molti gli avvoltoi che si aggirano con in tasca una proposta normalizzante, una struttura permanente, una tutela politica.
Non penso che avranno vita facile.
La misura è colma. “Non una di meno” è una promessa che ciascuna fa a quelle che mancano. Ma anche una promessa che ciascuna fa a se stessa. Il patriarcato si (ri)afferma mettendo sotto ricatto quotidiano le nostre vite. Le donne uccise, stuprate, picchiate, umiliate, perseguitate, derise sono un monito per tutte le altre.
La servitù volontaria è una tentazione forte, specie se sei sola. I movimenti, le reti femministe, i luoghi sottratti al sessismo ci danno la forza collettiva per attaccare, per strapparci di dosso il ruolo di vittime, per costruire la strada che va dal genere all'individuo. Non mera astrazione giuridica, ma mutevole e concreto approdo per tutte, per tutti, per tutto.

Maria Matteo

continua a leggere il dossier