Rivista Anarchica Online


No Tav

Un viaggio che düra

intervista a Wu Ming 1 di Filippo “Filo” Sottile
foto di Luca Perino


È uscito per Einaudi Un viaggio che non promettiamo breve, Venticinque anni di lotte No Tav di Wu Ming 1: un nuovo libro sulla Val Susa, con un occhio attento alle imprese, alla quotidianità, al carattere, alla pluralità, alla rabbia e al buon umore di una comunità in lotta.


Il 31 ottobre scorso è uscito per Einaudi Un viaggio che non promettiamo breve, Venticinque anni di lotte No Tav di Wu Ming 1, un lavoro che lo ha impegnato per oltre tre anni. Una narrazione allo stesso tempo epica e fattuale delle ragioni, delle imprese, della quotidianità, del carattere, della pluralità, della rabbia e del buonumore di una comunità in lotta. Quelle che seguono sono le parole di Wu Ming 1 registrate in una conversazione avuta il 6 novembre scorso.

Filippo - Ci sono oltre cento libri sul movimento No Tav, perché hai deciso di scriverne un altro?
Wu Ming 1 - Esistono tanti libri sul movimento No Tav e si dividono in alcune categorie. Ci sono i libri scritti a botta calda, dopo alcune fasi importanti della lotta, spesso scritti da attivisti stessi, singolarmente o in un gruppo, e che fanno un'istantanea di un periodo, a volte anche di una sola stagione, l'inverno del 2010, per esempio, o la Libera Repubblica della Maddalena. Poi ci sono libri di altro tipo che affrontano gli aspetti tecnici e spiegano le motivazioni razionali per cui essere contro. Ci sono poi dei libri di taglio più giornalistico, pochi a dire il vero; e poi ci sono libri più accademici che affrontano dei singoli aspetti della questione: ad esempio libri di antropologi sul tipo di comunità creata dal movimento No Tav, libri scritti da sociologi, da figure che utilizzano le loro competenze per imbastire un discorso di tipo scientifico, accademico. Abbiamo poi le scienze dure che affrontano le problematiche tecniche, trasportistiche e qui abbiamo fisici, ingegneri. Sono usciti anche alcuni romanzi – si contano sulle dita di una mano – ambientati durante la lotta No Tav. Quello che mancava secondo me era un libro che ibridasse tutto questo e prendesse le tecniche del romanzo, che rimangono le più potenti per raccontare una storia (non a caso vengono usate anche dal cinema e dalle serie TV), sono tecniche rodate da secoli di perfezionamento.
Volevo usare le tecniche del romanzo per fare un lavoro diverso: cercare di capire quali sono le peculiarità storico-geografiche legate alla Val di Susa che hanno portato al movimento No Tav; tracciare una genealogia – da dove viene, perché il movimento viene da molto lontano – e nel frattempo tracciarne la storia, perché mi sembrava che nessun libro lo facesse, nessun libro ha davvero raccontato i 25 anni di lotta No Tav. Alcuni hanno sbrigativamente raccontato le origini per poi concentrarsi sui momenti successivi. Hanno accennato al fatto che il movimento No Tav ha una lunga durata, ma questa lunga durata non l'hanno resa come ho cercato di renderla io, mi sembrava che mancasse un'«opera-mondo», come è chiamata nella quarta di copertina del libro. Volevo un libro che avesse l'ambizione di essere tante cose insieme e portasse quella storia fuori dall'ambito dei consueti lettori di libri No Tav, pubblicarlo con un editore grosso come l'Einaudi e con l'ambizione di renderlo il più comprensibile possibile, senza abbassare il livello però, mantenendolo sperimentale, sperimentale e popular allo stesso tempo, per renderlo chiaro e intellegibile anche a chi partiva da zero nel leggere di questa vertenza.
Un libro completamente diverso da tutti quelli che erano stati scritti fino ad allora, che – intendiamoci – hanno i loro meriti, quei libri io li ho usati. Il fatto che sia diverso non significa che io cerchi di sminuire la portata e il valore degli altri, io inglobo anche il lavoro fatto da molti altri autori. Questa è la risposta alla domanda che tutti continueranno a farmi per mesi.

Hai scritto e detto più volte che il movimento No Tav “curva lo spazio politico”. Cosa significa?
Un movimento curva lo spazio politico nel senso che anche chi non ne fa parte è costretto a comportarsi in un certo modo. Quel movimento cambia il clima, cambia l'atmosfera. L'egemonia delle lotte operaie negli anni '70, dopo l'autunno caldo, aveva portato al fatto che i ricchi avevano paura a ostentare la propria ricchezza. Era considerato pacchiano, un disvalore, ostentare la propria ricchezza. Non era considerato come oggi, anche perché era la stagione dei sequestri. Ma se ci si pensa i sequestri erano una forma distorta di lotta di classe, era una versione egoistica della lotta di classe, andavano a colpire i ricchi in quanto tali. Non sarebbe possibile oggi una cosa come la stagione dei sequestri, che non a caso è contemporanea delle grandi lotte operaie. Secondo tutte le statistiche sull'uguaglianza sociale e salariale nel paese, gli anni '70 sono stati quelli in cui la forbice di reddito fra poveri e ricchi è stata minore. E il movimento operaio, i grandi movimenti di massa avevano curvato lo spazio culturale e lo spazio politico: si parlava di certe cose, con posizioni diverse, ma se ne parlava. C'erano certi comportamenti e certe attitudini.
In valle, il movimento No Tav ha prodotto qualcosa di simile, e anche le formazioni politiche sono costrette ad adattarsi o morire. Adattarsi può anche voler dire essere diretti antagonisti del movimento, anche in maniera incarognita, la curvatura non produce di per sé consenso, però costringe a riconoscere che la linea di frattura in valle è quella lì, ci si confronta su questo, sulle istanze che il movimento porta avanti, chi è pro e chi è contro, ed è molto chiaro chi sta da una parte e chi dall'altra. Questa è la curvatura dello spazio politico.
Chi non è riuscito ad adattarsi è scomparso, come Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani, i Verdi, sono stati spazzati via perché non sono riusciti ad adattarsi a questo conflitto. Erano contro il Tav, ma anche dentro coalizioni di governo che erano a favore. Qui in valle venivano a dire che erano No Tav e poi firmavano degli accordi nazionali che la prevedevano. Questo tipo di ambiguità in valle non è più possibile, chi non è riuscito a riconoscere questo e ad adattarsi alla curvatura dello spazio politico e culturale determinato dal movimento è scomparso.
Il Movimento 5 Stelle, con tutte le sue ambiguità, su questa cosa si è adattato, magari obtorto collo in alcuni frangenti. Però non è No Tav in valle e sì Tav a Roma, su questo ha capito che doveva adattarsi.
La valle è l'unico territorio a livello nazionale in cui il Movimento 5 Stelle ha dei rapporti diretti con una lotta vera, perché per il resto il Movimento 5 Stelle è tutto virtualità, Facebook, cazzate. Non è mai all'interno di una lotta vera. L'abbiamo visto in tante occasioni. Magari si dicono contro il tale inceneritore, poi quando ci sono le lotte vere, concrete, tangibili, loro non ci sono.
In valle, nonostante il nome, non è il Movimento 5 Stelle il movimento, ma è il movimento No Tav che ha l'egemonia e ha trascinato con sé il Movimento 5 Stelle. Questo grazie anche a figure «anfibie» che sono valsusine e No Tav e che quando è nato il Movimento 5 Stelle sono diventati attivisti e poi addirittura parlamentari, però è un'anomalia assoluta che non esiste in questi termini da nessuna altra parte. Tutto questo è determinato dall'egemonia di un movimento vero, reale, come poteva essere – su scala nazionale, se non continentale – il movimento operaio negli anni '70.

Ma la valle ha una sua storia

Nel tuo libro muovi una critica a una certa idea pedestre di esportare il movimento No Tav fuori dalla valle. Quali sono le chiavi del successo del movimento e quali sono gli elementi che si potrebbero applicare altrove?
È difficile applicare altrove gli elementi della lotta No Tav, quello che può essere applicato è lo spirito, l'approccio, l'attitudine. Nel libro ho scritto che è necessario avere una competenza diffusa sulla vertenza, ma in realtà è il rapporto fra la vertenza e il tuo territorio.
Tu devi avere una doppia competenza, devi conoscere il tuo territorio, devi averlo ben presente, quali sono le strutture, le infrastrutture, le caratteristiche principali, le differenze da una parte all'altra, da un paese all'altro. I valsusini hanno una conoscenza meticolosa delle differenze interne alla valle, di come si sono stratificate le sue infrastrutture, di come funzionano gli spostamenti, di chi fa il tal lavoro nel tal paese. Per poter fare la lotta, questa conoscenza del territorio dev'essere sposata a una molto buona, se non ottima, conoscenza del problema che vai ad affrontare. Ci si deve documentare su che cos'è l'Alta Velocità ferroviaria, cosa comporta, che cos'è la ristrutturazione delle ferrovie... Bisogna avere una conoscenza dei problemi trasportistici e infrastrutturali e ambientali altissime.
Queste due competenze sono quelle che possono essere riprodotte altrove con altri elementi. Gli elementi te li dà il territorio. La valle ha una sua storia, ha una sua orografia e ha un rapporto fra questa storia e questa orografia. È grazie alla geografia della valle che è diventata una valle di industrie: c'erano strade carrozzabili che in altre valli non c'erano, c'era un fondo valle molto lungo, una vicinanza con la metropoli e con il confine, c'era la Dora che poteva far funzionare i mulini ad acqua, c'era un lavoro contadino che non assicurava il cibo a nessuno, c'era una fortissima emigrazione in Francia o in altre parti del Piemonte di gente che con la terra non riusciva a campare. C'erano tutte le caratteristiche perché si insediasse un'industria che frenasse questa emigrazione che impoveriva il territorio e desse da mangiare a gente che con la terra non mangiava.
I comuni cominciarono a dare degli incentivi, dicevano: “imprenditori venite a fare le fabbriche qui da noi, abbiamo la manodopera pronta, territorio perfetto, energia elettrica”.
La geografia della valle ha determinato la sua storia. Questa valle era fatta così, con quelle caratteristiche e quindi ha permesso la nascita del movimento operaio, le lotte e quel retaggio che le lotte operaie hanno prodotto. Questi elementi non sono replicabili altrove, non esiste nessuna valle identica alla Val di Susa, la metropoli è ancora un'altra storia, ma la doppia conoscenza del territorio e del progetto che vuoi contrastare, questo è replicabile altrove. Però devi studiare.

Sebbene il libro poggi su dati e informazioni storiche verificabili e sia inattaccabile dal punto di vista delle argomentazioni tecnico-scientifiche non può essere definito un saggio, né un pamphlet ed è certamente un'opera narrativa. Come hai elaborato il taglio?
Anni fa, in un saggetto che avevo scritto su come tradurre la prosa di Elmore Leonard, avevo fatto un'affermazione un po' apodittica. Dicevo che ci sono nella prosa di Elmore Leonard piani temporali separati, sequenze che sono interamente scritte al past tense, ma che in italiano richiederebbero un passaggio dal trapassato prossimo al passato remoto, mentre io avevo scelto di non usare il trapassato, perché dicevo che in italiano lunghi passaggi al trapassato sarebbero pesanti. Poi mi sono reso conto che non è necessariamente così. Si può scrivere un intero libro al trapassato, ed è quello che ho fatto. Pochi se ne accorgono: “Erano arrivati... avevano fatto...”. È tutto già accaduto, è il tempo del mito. Allo stesso tempo, però, è tutto fattuale e documentato. Le azioni continuative sono all'imperfetto: “Andavano tutti giorni in Clarea”, mentre quelle puntuali, gli episodi, sono tutte al trapassato. È tutto così fatta eccezione per le testimonianze che essendo tutte testuali, riportate tali e quali, usano i tempi verbali che hanno scelto i testimoni.
Mi sono fatto un punto d'onore, nell'intero libro (seicentocinquanta pagine!), di non usare mai il passato remoto. È una scelta hard in Italiano, la lingua del romanzo è il passato remoto. Ma questo mi ha permesso di dare un taglio di leggenda, di epopea, perfino nei passaggi tecnici. È una lingua che allontana e mitizza, è il tempo del mito, anteriore a qualunque cosa.
Alla base c'è anche l'idea di «lingua minore» di Deleuze e Guattari. Nel loro Kafka. Per una letteratura minore (Quodlibet, 1996) dicono che bisognerebbe scrivere nella propria lingua come fosse una lingua straniera. Io l'ho fatto con questa forzatura, rifiutando il tempo verbale per eccellenza del romanzo, ma scrivendo qualcosa che potrebbe essere descritto come un romanzo, sebbene di non fiction. In teoria i tempi verbali sono sballatissimi, sto usando l'italiano come fosse una lingua straniera. Non a caso è un'idea che mi è venuta in mente mentre traducevo. La lingua, lo stile, mi è venuto in questo modo, partendo da una costrizione, una contrainte, come dicono i francesi.
Mi sono dato altre contraintes più piccole. Mi sono fatto un punto d'onore di non usare mai la parola «radici», perché sarebbe una cosa essenzialista, invece dico la genealogia del movimento. La genealogia è un'altra cosa, un processo di ricostruzione.
Le costrizioni ti danno la possibilità di andare in una direzione ben precisa e tutti gli esperimenti che fai, anche le digressioni più azzardate, sono all'interno di una progressione in quella direzione.

Concatenamento di aneddoti

Nel 2012, alla prima edizione di “Una montagna di libri contro il TAV”, avevi detto che il movimento No Tav è uno straordinario narratore collettivo e che gli scrittori dovrebbero imparare dal movimento. Ti va di approfondire questo aspetto? Quanto e come il narratore collettivo No Tav ti ha ispirato?
Una tecnica tipica del movimento quando si autoracconta è il concatenamento di aneddoti. Anche io ho usato ogni aneddoto come un anello di una catena che si aggancia a un altro e addirittura prelude a uno che verrà raccontato cento pagine dopo o si rifà a uno raccontato cento pagine prima.
“Hai presente quello che abbiamo incontrato al bar ieri mattina? Ecco, quello lì c'ha una storia così, e poi una volta quello là in Clarea ha fatto la tal cosa”… e a quel punto tutti intorno a te cominciano a raccontarti vita, morte e miracoli di quello lì, concatenando aneddoti, è come metterlo dentro una stampante 3D, ti fai una copia di quello lì e te lo porti a casa.
Io ho fatto molte volte così, mi sono fatto delle copie in 3D di alcuni personaggi, me le sono portate a casa. Di Gabriella Tittonel mi sono portato a casa proprio una statuina, ognuno mi ha raccontato qualcosa, tu mi hai detto dei due adesivi sulla macchina, “I love Medjugorje” e “A sarà düra”.
Il concatenamento di aneddoti viene per forza quando parli di No Tav. È una cosa che in nuce c'era in altri libri sul movimento, non sono il primo che la usa, ma ad aver fatto una struttura così complessa di aneddoti, così a lungo e con tanti riferimenti incrociati, quello sì. Le altre volte che ho trovato queste cose erano in raccolte di interviste, in A sarà düra (DeriveApprodi, 2013) ci sono cose così, ma sono giustapposte, una in fila all'altro. Invece in questo caso si compenetrano, uno diventa l'altro.
Ieri sera tu parlavi dell'aspetto musicale del libro. Questa cosa è fondamentale per agganciare gli aneddoti. Come in una orchestrazione tu prima accenni con un pianissimo a un tema che quasi non viene percepito dall'ascoltatore e quando quel tema si ripresenta molto più esplicito, fatto da un'intera sezione dell'orchestra, magari dieci minuti dopo, tu comunque ce lo avevi già nelle orecchie. Bruno Maderna fa così. Infatti, non a caso, ogni parte del libro ha il titolo di una composizione di Maderna, perché ascoltando Maderna, soprattutto Aura, ho capito che lavorava come ho fatto io, per accumulo di piccoli temi che poi lavorano l'uno con l'altro ed entrano in relazione.

La battaglia si fa sui tempi” hai scritto nella quarta di copertina. Mi sembra che per te e per tutto il collettivo Wu Ming questo sia un tema centrale. Ti va di approfondire?
Il movimento No Tav è riuscito a rallentare a tal punto la realizzazione di una grande opera da rendere la sua realizzazione asintotica. Probabilmente sarà una costruzione infinita e non si arriverà mai al dunque. Anche il capitale ha dovuto adattarsi a questo per cercare di trarne profitto.
Il conflitto è sui tempi. Sia da una parte, sia dall'altra c'è la consapevolezza che l'opera non verrà mai realizzata davvero, ma da una parte noi cerchiamo di portare avanti il conflitto il più a lungo possibile e nel frattempo le magagne e tutte le nostre previsioni si avverano e dall'altro lato loro cercano di tirarla per le lunghe per rinnovare appalti, spillare soldi e cercare di trarre profitto da questo allungamento dei tempi.
Tutte le magagne del primo progetto hanno portato ad accantonarlo definitivamente e a passare dall'altra parte della Dora con un progetto che è meno impattante del primo, e loro te lo dicono, “Il primo progetto era più impattante, adesso c'è questo nuovo”, ma non ti dicono che è merito dei No Tav se adesso c'è questo. C'è gente che lo ha chiesto direttamente, per esempio a Esposito:
“Ma quel progetto del 2005?”
“Quello era troppo impattante, era sbagliato, questo è meglio”
“Quindi lei sta dicendo che è merito dei No Tav se siamo passati a questo nuovo”
Ma fino a lì non ci possono arrivare, perché riconoscere che la lotta aveva ragione a osteggiare quel progetto significa legittimarla anche contro questo che, sebbene meno impattante, è comunque devastante.
Il conflitto è stato sui tempi perché si è riusciti a sabotare i tempi della controparte, costringerli a ripiegamenti, costringerli a modificare in corso d'opera. Dove non c'è stata questa azione preventiva le magagne sono venute fuori dopo. È quello che racconto nell'Ouverture del libro a proposito di grandi opere già realizzate, oppure incompiute ma che già avevano fatto i danni che dovevano fare, e quando sono venute fuori le magagne erano tutte lamentazioni ex post. Allora, mandi il Gabibbo che ti fa vedere lo scempio. Qui in valle non può venire il Gabibbo a dire “guardate che scempio”, perché almeno quello scempio – altri ne erano già stati compiuti – è stato bloccato in tempo e le magagne sono venute fuori prima, grazie alla lotta.
Il conflitto sui tempi è questo, una corsa contro il tempo per cercare di sabotare i tempi dell'avversario. In questo le lotte operaie sono il manuale. Se uno va a studiare che cosa furono davvero le lotte operaie si rende conto che sono sempre state un conflitto sui tempi: ridurre la giornata lavorativa, ridurre il ritmo del lavoro, crearsi un sapere antagonista per conoscere il ciclo produttivo nei suoi dettagli, nelle sue minuzie, per poterlo sabotare. Per l'operaio, non per il padrone.

Conosco un compagno No Tav che ha lavorato alla Pininfarina. Non era in linea, faceva lavorazioni al banco. Dice che quando arrivava una lavorazione nuova, all'inizio non ti davano i tempi. Anche gli ingegneri avevano un'idea approssimativa di quanto tempo ci volesse e quindi ti davano due settimane per prenderci la mano prima di mandare i cronometristi. Mi ha raccontato che quando arrivava una nuova lavorazione lui passava la prima settimana a cercare di trovare la soluzione per svolgere il lavoro nel più breve tempo possibile e quella successiva a renderlo più lungo e macchinoso possibile. Quello diventava il tempo di riferimento per i cronometristi. Questo gli permetteva di svolgere il lavoro in un tempo limitato e liberarsi due o tre ore al giorno da dedicare all'attività sindacale in fabbrica.
In alcuni film, quando l'eroe viene legato, c'è questo trucco: tende i muscoli al massimo e quindi ha più massa corporea, appena lo lasciano solo, lui rilassa i muscoli e quindi si allentano le corde. È lo stesso meccanismo, cambio il parametro, lo allungo, lo allargo e grazie a questo allungamento e allargamento mi scavo degli spazi vuoti per muovermi.
Un conflitto sui tempi è anche sui temi dell'alta velocità. Perché un viaggio breve, costoso e impattante, anziché un viaggio comodo, utile, sostenibile? Anche quello è un conflitto sui tempi. Se andiamo a vedere tutte le lotte vere sono conflitti sui tempi. Anche le lotte sulle questioni di genere sono sui tempi, pensa alla liberazione dal lavoro casalingo, quando si diceva che una grande compagna femminista è stata la lavatrice. La lotta è sempre sul tempo, perché il tempo è vita. Noi abbiamo solo questa vita e più tempo riusciamo a liberare da una dimensione alienata, meglio viviamo. Noi diciamo tempo, ma in realtà è vita.

Filippo “Filo” Sottile