Rivista Anarchica Online





La parola nell'epoca
della sua pleonasticità

1.
Il giorno 5 dicembre del 2016 – il giorno dopo della legnata –, Matteo Renzi annuncia le proprie dimissioni e non può proprio fare a meno di ringraziare i “tanti” che, per gli interessi più vari, gli sono stati “vicino” nella lunga – nauseante – campagna referendaria. Alla conclusione, dice che “sono stati mille giorni che sono volati, ora per me è il tempo di rimettersi in cammino, ma vi chiedo nell'era della post-verità, nell'era in cui in tanti nascondono quella che è la realtà dei fatti, di essere fedeli e degni interpreti della missione importante che voi avete e per la vostra laica vocazione”. In quella circostanza, non mi sono soffermato più di tanto a chiedermi cosa di peggio poteva capitarci in seguito al fatto che lui si “rimettesse in cammino” e che volesse distinguersi – proprio lui, Superbone da sacrestia – dai tanti che “nascondono la realtà dei fatti”. In quella circostanza, mi ero invece soffermato sull'uso della parola “post-verità”. Disinformato come sono, sulle prime, avevo pensato che, nella sofferenza del momento, una parola così priva di senso gli fosse deflagrata come un singulto doloroso. Soltanto in un secondo momento sono venuto a sapere che l'Oxford Dictionary l'aveva scelta come parola nuova dell'anno e che, come tutte le altre parole, aveva una storia ben delineabile. Risale al 1992, infatti, un articolo di uno scrittore serbo naturalizzato americano, Steve Tesich, dove si parla di “post-truth”, termine che venne ripreso – ancora in ambito statunitense – da Ralph Keyes che, nel 2004, pubblicò il libro The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life (New York, St. Martin's Press). Da lì, in relazione a vicende come il voto referendario inglese e l'elezione del presidente degli Stati Uniti d'America, ha preso il volo trovando subito calda accoglienza nel repertorio linguistico dei politologi.

2.
Il calco è chiaro. Questa post-verità proviene direttamente dal “post-moderno”, un “post” più qualcosa che ha riscosso ampio successo nel secolo scorso. A quanto pare comparve nel 1934 in un saggio del critico spagnolo Federico de Onis (1885-1966), attecchì e, se non vado errato, infuria tuttora nel gergo di chi guarda un palazzo o una costruzione nuova, di chi si pone di fronte ad un quadro, di chi legge libri di narrativa o di poesia, di chi religiosamente ascolta musica, di chi, insomma, bazzica le espressioni dell'intellettualità. Non ho ancora sentito dire dal mio salumaio di fiducia che quel prosciutto ha un sapore post-moderno, ma – televisività gastronomica alla mano – non è improbabile che ci si arrivi presto.
Alla faccia di tutti questi usi – o, forse, grazie proprio a tutti questi usi –, nessuno può arrischiarsi a spiegare cosa questa parola voglia dire. Se i tanti intellettuali che hanno provato a darne una definizione sono arrivati a tante definizioni diverse qualche motivo ci sarà. “Moderno” significa semplicemente “appartenente al nostro tempo”. “nuovo”, e, pertanto, può essere usato per designare la Tour Eiffel a Parigi nel 1889 come la Torre Velasca a Milano nel 1957. Metterci davanti un “post”, ovvero la designazione di un “dopo”, di per sé, non ha senso e se qualcuno lo fa, lo fa a suo rischio e pericolo – di non essere capito, di mettere in commercio una moneta, se non falsa del tutto (perché almeno si spera che uno ed un solo significato gli affidi), perlomeno ambigua.
Che, poi, l'esigenza di questa “post-modernità” nasca all'interno dell'ideologia della periodizzazione è ovvio. Da che mondo è mondo – da che mondo colto è mondo –, qualcuno sente la necessità di suddividere in epoche il tempo che passa e di dar loro un nome più o meno conveniente ovvero più o meno rispondente alle sue valorizzazioni. Il “ri-nascimento” e il “ri-sorgimento” ne costituiscono due esempi – il nome riservato ai due periodi illumina di luce positiva ogni vicenda che in detti periodi può dirsi conclusa. Quando lo storico si deciderà a liberarsi di questi incarichi consolatorii sarà sempre troppo tardi.

3.
Stupisce che uno psicologo, Paolo Legrenzi, nel tentativo di spiegare il significato della parola “post-verità”, ne giustifichi nascita e uso. A suo parere, il “post-vero” sarebbe un “verosimile” di cui a nessuno importa controllare l'eventuale falsità. Come tale, il “post-vero” sarebbe “inattaccabile perché è anche post-falso”. Legrenzi fa l'esempio di un Tale, americano, che una sera del 9 novembre scorso mette su Twitter la fotografia di un autobus con il seguente commento: “Le proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembra”, come a dire, insomma, che si tratta di “truppe cammellate”. Subito questa sua notizia fa il giro del mondo e viene replicata in facebook e compagnia digitante. Qualche ora dopo – anche dopo la smentita della società che ha affittato quell'autobus –, il Tale toglie la fotografia e dice che si è trattato di un errore, ma, ovviamente, da qualcuno la notizia continua a esser fatta circolare come vera. Embé? Senza scomodare né la modernità, né la post-modernità, senza tirare in ballo internet e il tempo suo, anche il giorno dopo dell'assassinio di Giordano Bruno da parte della Chiesa Cattolica, una bella fetta di intellettuali “furbi” metteva in dubbio che il filosofo nolano fosse davvero bruciato in Campo dei Fiori suggerendo che, invece, se la stava spassando altrove. Ancora nel 1697, Pierre Bayle scrive che “non si sa per nulla dopo 80 anni se un domenicano è stato bruciato a Roma” e che, “in questi casi”, non ci sarebbe “grande distanza” fra “l'incertezza e la falsità”. “Post-vero”? E perché mai? Nel repertorio linguistico di ciascuno di noi, la parola più adatta per descrivere la notizia l'abbiamo già, senza bisogno di ricorrere a improbabili neologismi – è “falso”. È falso che l'autobus fosse stato usato dai contestatori di Trump ed è falso che Giordano Bruno sia scampato alla Santa Inquisizione.

4.
Falso, ovviamente, fino a prova contraria. Perché sul significato delle parole “vero” e “falso” occorre mettersi d'accordo. A meno che qualche anima pia non ritenga di dover ratificare al mondo un vero ed un falso assoluti. Mi spiego: se definiamo come “vero/falso” il risultato di un confronto fra il pensiero di qualcuno e il modo in cui stanno le cose di per sé senza che ci sia nessuno a percepirle e a categorizzarle è ovvio che la questione si ponga soltanto in termini di potere fra chi sostiene una tesi e chi ne sostiene un'altra, perché il confronto è banalmente impossibile. Non posso confrontare un cognito con un incognito. Se, invece, definiamo come “vero/falso” il risultato di un confronto fra il pensiero di qualcuno nel momento x e il pensiero dello stesso nel momento y è ovvio che la questione si ponga in termini di negoziazione. Il confronto è legittimo e se da questo risulterà un'uguaglianza parlerò di “vero”, mentre nel caso di una diseguaglianza parlerò di “falso” (o di “reale” o di “apparente” nel caso si passasse dal livello del linguaggio al livello di ciò che il linguaggio è chiamato a designare). Se il mio eventuale interlocutore dal confronto otterrà risultati diversi dai miei si tratterà di esplicitare i criteri con cui i confronti sono stati effettuati.

5.
Nello stesso numero dello stesso giornale, a lato dell'articolo di Legrenzi, c'era un articolo di Vincenzo Barone, Oltre la spalla di Dio che parla di un romanzo di Jérome Ferrari, Il principio, (Edizioni e/o, Roma 2016) dove si parla delle scoperte di Heisenberg. Fra queste, quella che la “realtà” sarebbe “inconcepibile” nei termini della “fisica tradizionale” e della “esperienza comune” e, fra queste, anche che “non rimangono vestigia del mondo descrivibili nel linguaggio degli uomini, c'è solo la forma pallida dei matematici, silenziosa e temibile, c'è la purezza delle simmetrie, lo splendore astratto della matrice eterna”. La “natura” e i concetti stessi che usiamo per rappresentarla, secondo il fisico tedesco beniamino prima dei nazisti poi della Chiesa, sarebbero caratterizzati da un “limite intrinseco”. A disposizione per rimediarvi, allora, “come unica alternativa” al “silenzio” avremmo solo “metafore”. Il famoso fisico danese Niels Bohr avrebbe spiegato al giovane Heisenberg che “nel mondo degli atomi il linguaggio va usato come nella poesia” e, pertanto, questi capirà che, come fanno i poeti, è necessario “superare all'infinito le risorse della lingua per dire ciò che non può essere detto” e che, “alla fine, delle cose ultime non si può che parlare per metafore, o con l'astrazione matematica, anch'essa in fondo una sorta di metafora”. Alla luce o, meglio, al buio di tutto ciò, l'invenzione della “post-verità” è una quisquilia.

6.
Sul perché si accetti tutto ciò ci si dovrebbe interrogare a fondo. In gioco non ci sono manie di filologi, ma il senso stesso delle relazioni umane e dei mezzi con cui le amministriamo, la possibilità o meno di parlarsi e di capirsi, la possibilità o meno di liberarsi delle ragnatele ordite a regola d'arte da parte di una classe di intellettuali perfettamente funzionale agli interessi di chi comanda – che ha tutto da guadagnare dalla coltre di misticismo fumoso gettata sulle parole e sul loro significato. Non si tratta neppure, dunque, di un principio di economia – che già, comunque, avrebbe senso salvaguardare: non inflazionare con l'inutile, eliminare alla radice l'eventualità di ridondanza nella comunicazione. In questo e in casi analoghi – sempre più frequenti sia nel linguaggio comune che nei gerghi “scientifici” –, mi sembra di poter individuare una nuova versione dei “vestiti nuovi dell'imperatore”. L'autorità è nuda – non sta dicendo niente –, ma vige un accordo implicito ed inconfessabile fra chi se ne avvantaggia o spera di avvantaggiarsene nel riverirne l'eleganza – o la profondità.

Felice Accame

Nota
Gli articoli di Legrenzi e di Barone sono apparsi ne “Il Domenicale del Sole24Ore” del 27 novembre 2016. L'articolo di Paolo Legrenzi è stato intitolato Cinquanta sfumature di né vero né falso: se grida vendetta il calco – l'ennesima variazione su un titolo di successo del mercato di erotismo piccolo-borghese –, non grida di meno il suo significato letterale. Per il pettegolezzaio d'epoca su Giordano Bruno, cfr. Giordano Bruno – Immagini 1600-1725, Procaccini, Napoli 1996.