Rivista Anarchica Online




Dibattito gestazione per altre/ Ma la GPA non è maternità

Due brevi note per chiarire ciò che della nostra recensione del libro “La riproduzione artificiale dell'umano” ha fatto scattare una replica di Daniela Danna. Daniela si esprime versus Femminismi circa la questione della Gestazione per Altri/e (GPA) senza prendere in considerazione il resto degli argomenti cui accennavamo, in quella breve recensione che mirava proprio a dirimere la confusione tra moralità e legittimità.
Sappiamo bene che il diritto non è neutro, ma sappiamo che quando un integralista religioso ci dice che le donne povere sono costrette ad abortire, e che “la loro maternità viene cancellata”, e nel contempo lavora per sopprimere il diritto, sancito dalla legge, all'aborto in strutture pubbliche, o è in malafede oppure non è consapevole delle dinamiche politiche che suo malgrado sostiene.
Non ci interessa in quel caso discutere con lui/lei dei modi che permettano alle donne povere di avere comunque un figlio, noi lo facciamo sostenendo il servizio sanitario, gli asili per tutti, la pianificazione familiare e l'assistenza sociale pubblica. Ci interessa quindi difendere la Legge 194 anche se non crediamo affatto che si debba legiferare su tutto.
Così quando si parla di “maternità cancellata” a proposito della Gestazione per altri (GPA) e/o si pretende di vietarne la regolamentazione per legge1, si esprime un parere morale e dai bersagli troppo mobili. Il fronte di protesta di cui Daniela Danna è voce pare concentrarsi sul diritto ad essere riconosciute “madri” delle donne gestanti. Denuncia Danna: “Dopo la sentenza che a febbraio a Trento ha conferito a due uomini il titolo di doppio genitore con un certificato di nascita in cui la madre non era nemmeno menzionata”. Certo, pensiamo noi, perché si trattava di riconoscere in Italia lo status di genitore di una coppia omosessuale, non di mettere mano ad un contratto di GPA già stilato e concluso all'estero.
Ci ritroviamo qui a dover sottolineare la differenza. La GPA è regolata in alcuni Paesi da leggi che ne sanciscono la natura di contratto tra privati, e che dovrebbero tutelare le gestanti alla gravidanza, ed anche i futuri genitori da truffe. Così come è regolamentata la adozione internazionale (nella quale manca la componente genetica) e che è altrettanto soggetta ad essere un commercio in cui è possibile arricchirsi sulle spalle altrui. E questo è un grosso problema, che pone una questione etica pesante ma non c'entra niente con la legittimità della pratica.
Non è lo sfruttamento delle “proletarie” o “madri portanti” che pare qui il problema contro cui lotta Daniela Danna, bensì una questione di principio: il fatto che queste donne accettino di non essere citate negli atti legali di adozione, lo sono solo nel contratto tra privati attinenti la gestazione.
Ma il problema, se c'è, secondo noi è etico: vi sono sempre state coppie sterili nella storia, ora queste hanno la possibilità di diventare genitrici con materiale genetico proprio, il problema è come evitare lo sfruttamento del corpo altrui. L'antropologa Paola Tabet ha anzi sottolineato come la GPA sia un'occasione per riconoscere il lavoro di gestazione che altrimenti molte donne facevano e fanno gratis e senza tutele, sia nelle famiglie patriarcali che nel traffico delle adozioni internazionali gestito da miriadi di intermediari.
La GPA come l'adozione si basa sul desiderio di essere genitori, possiamo volendo incriminare questo desiderio come “colpevole”, e ironizzare sul fatto che è anche sulla prole (oltre che sulle terre e le nazioni) che si sono fondati i clan, le dinastie, le religioni patriarcali e il primo capitalismo... ma è molto meglio attenersi all'oggi.
Manteniamoci quindi chiara la divisione tra diritto e tutela degli interessi delle persone, in questo caso delle donne che decidono di fare una gestazione per altri, e fantascienza.
Potrà esserci un futuro in cui, stante l'aumento della percentuale di sterilità nelle donne e negli uomini, la GPA sarà da fenomeno marginale (amplificato dai media ma sempre marginale) come è oggi, a pratica moderatamente diffusa.
La parola sia oggi che in futuro, per la difesa dei propri interessi, andrà alle donne che la praticano. Possiamo aiutarle a difendere i loro interessi ma dobbiamo mantenere, come femministe, il buon senso del partire da noi, se non vogliamo fare l'avanguardia o le sentinelle.
Perché occorre 'stare attente alla comunicazione', come Danna ci rimprovera di affermare con leggerezza? Soprattutto come lesbiche, non sempre madri o affatto madri, il nostro intervento sulla GPA rischia al duecento per cento di essere strumentalizzato da coloro che hanno fatto della battaglia contro la GPA una crociata contro i gay che, modestamente o decisamente abbienti, hanno voluto diventare padri.
Usando lo stigma del “gay ricco”, Danna descrive “coppie gay facoltose che comperano i bambini all'estero”. Gli stessi integralisti che deprecano la sessualità tra gay e lesbiche come “innaturale”, potrebbero usare questa frase, senza modifiche, come loro. Le frasi sono armi che vanno usate con attenzione, specificare meglio se si ritiene o no che la paternità gay sia legittima, come e quando. Altrimenti, seppure lesbiche (e Danna ricorda: “esistere come lesbica è ciò che provoca in primo luogo gli atti di “omofobia”) possiamo diventare benvoluti strumenti di battaglia.
Se il fatto che un uomo gay possa dare il proprio seme per avere un figlio infastidisce qualcuno/a, costui o costei possa legittimamente dirlo senza imbastirci una battaglia, come se si trattasse di un reato contro Dio (Binetti) o di un colpo di coda patriarcale contro la Maternità.2
Abbiamo alle spalle una storia in cui gli uomini hanno negato in ogni modo la paternità – le storiche ci insegnano – e faremmo molto bene a conoscere questa nostra storia. In Italia fino a tempi recentissimi era in vigore il divieto di ricerca della paternità. Se gli uomini oggi si vogliono prendere cura dei figli e fare i padri significa che è in atto una evoluzione delle coscienze che non per questo danneggia le donne.
Alle madri simboliche che tanto hanno fatto per tenere in sordina il lesbismo nel femminismo italiano, e negli anni Ottanta hanno diviso il copyright sulla parola “Madre” con Wojtyla, vorremmo dire, anche assieme a Daniela se potremo prima o poi farlo: faremo la lotta di classe per difendere i diritti delle donne che prestano l'utero, così come la facciamo per quelle che affittano a ore la vagina, ed anche se non condividiamo la loro scelta, quando di scelta si tratta.
Ma se per la vagina non era la fine “dell'Amore”, non diciamo che per l'utero è la cancellazione “della Madre”.

Femminismi (donne di Fano, Pesaro, Urbino)
femminismi.wordpress.com

  1. Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l'altrove è qui: “committenti” italiani possono trovare in altri paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarca ma del mercato. Vogliamo che la maternità surrogata sia messa al bando. Appello di Se non ora quando, dicembre 2015.
  2. Siamo favorevoli al pieno riconoscimento dei diritti civili per lesbiche e gay, ma diciamo a tutti, anche agli eterosessuali: il desiderio di figli non può diventare un diritto da affermare a ogni costo. Appello di Se non ora quando, dicembre 2015.


Dibattito gestazione per altre/ La riproduzione al tempo delle biotecnologie

Qual è in sostanza il messaggio del libro La riproduzione artificiale dell'umano di Alexis Escudero (Ortica editrice, 2016)? Per l'autore la procreazione medicalmente assistita “non ha niente a che vedere con la parità dei diritti”, “deve essere criticata in quanto tale e deve essere criticata in modo radicale”, perché “ogni critica parziale della riproduzione artificiale dell'umano sarà digerita dai comitati di etica e servirà all'accettazione dell'inaccettabile”, e noi potremmo dire che ciò è analogo a quanto avviene per la sperimentazione sugli animali e per le centrali nucleari, anch'esse inaccettabili, poiché anche ad esse sono connaturati l'orrore, la sopraffazione, lo sfruttamento e sono quindi anch'esse da combattere in modo radicale.
Alexis Escudero ci invita, quindi, a non sostenere la “PMA per tutte e per tutti”, ma ad urlare l'impopolare e radicale “PMA per nessuno”.
Procreazione medicalmente assistita (PMA), gestazione per altri (GPA), predazione di organi, energia nucleare, sperimentazione sugli animali, organismi geneticamente modificati e ingegnerizzati appartengono tutti alla stessa categoria di pratiche che manipolano il vivente con evidente arroganza antropocentrica, tecno-centrica, potere-centrica. Per tutte queste pratiche e tecniche il danno è insito nella pratica e nella tecnica stessa. Nessuna regolamentazione è accettabile perché la pratica stessa è inaccettabile.
In nome di una supposta “libertà” si celano abomini, in nome della libertà di disporre del proprio corpo e in nome dell'autodeterminazione si fanno proprie le logiche di mercificazione di questo sistema tecno-industriale dove tutto è merce, tutto è quantificabile e soggetto al criterio dell'utile, tutto è in vendita, tutto è ingranaggio in una mega macchina che stritola i corpi e il mondo intero.
Non può esistere una “gestazione per altri etica”: legalizzarla e generalizzarla rientrerà in un'operazione commerciale, basti pensare ai rimborsi spese per la madre “affittata”. Così come abbiamo i consumatori etici e il mercato etico, così avremo il prestito etico dell'utero, dove la donna non sarà più solo una donna dell'est Europa povera e sfruttata, ma magari una donna occidentale “trattata bene”, così avremo le coscienze a posto, ma purtroppo nella sostanza nulla cambia. Si tratterà comunque di una compravendita di bambine/i e di donne fattrici.
Anche se nel contratto ci fosse una clausola che permettesse alla donna di poter decidere se tenere con sé il bambino o interrompere la gravidanza, come possiamo essere così ingenue da pensare che dietro a quella che si chiama scelta, nella realtà non ci sia una situazione di necessità, come possiamo non pensare che da tali contratti e regolamentazioni non si arrivi a una degenerazione e a una situazione coercitiva.
La maternità è una dimensione che appartiene alla donna. Si sta permettendo che ad appropiarsi della maternità siano l'uomo, il sistema medico, lo stato, le aziende della riproduzione. Gli uomini non possono portare in grembo un figlio, il loro desiderio di paternità non può trasformarsi nel diritto di averlo passando sui corpi delle donne.
Assistiamo a donne sottomesse volontariamente ad una tecnocrazia in camice bianco: medici, ginecologi, genetisti, esperti vari, sottomesse a un intero apparato tecnico-scientifico. Un catalogo di vendita di ovuli da “donatrici” selezionate per le loro caratteristiche così da avere una materia prima di qualità per fabbricare un bambino. Un processo industriale vero e proprio: selezione ed estrazione della materia prima, analisi nelle prime fasi di produzione, scarto della merce non idonea, controlli su tutto il processo. La riproduzione umana è il nuovo terreno di conquista e di accaparramento del sistema tecno-industriale.
PMA e GPA si situano e si attuano all'interno di un sistema tecnologico. Nello specifico, la PMA non ha nulla a che vedere con le pratiche auto-organizzate di donne lesbiche e desiderose di avere una/un figlia/o che decidono di fare ricorso allo sperma di un solidale. Al contrario, ricorrendo alla PMA, è escluso ogni carattere di solidarietà.
L'eugenetica, la selezione degli embrioni, è imprescindibile dalla tecnica della fecondazione in vitro (FIV). Prima di impiantare l'embrione nell'utero della futura madre che ha fatto ricorso alla PMA o della madre che ha affittato l'utero, viene effettuata una diagnosi pre-impianto a livello genetico su una decina di embrioni al fine di selezionarne “il migliore”.
Per giustificare e promuovere questa tecnica si fa ricorso a un approccio medico che si lega da un lato ai problemi di fertilità dei genitori e dall'altro al tentativo di individuare patologie genetiche della futura/o nata/o. Di fatto sempre più coppie fertili e senza problemi di trasmissioni di patologie genetiche scelgono la fecondazione in vitro con il solo scopo di poter accedere alla diagnosi pre-impianto unendovi la possibilità, ad esempio, di selezionare il sesso e altre caratteristiche fisiche.
Nella scelta di questi caratteri, resta sospesa una questione: per quanto tempo saranno ammessi degli “scarti”? Chi definisce i caratteri “migliori”, performanti? Ciò che sarà considerato anormale, deviante, non produttivo, non funzionale a questo sistema, verrà semplicemente eliminato all'origine.
Come pensiamo di poter rimanere soggetti attivi in grado di gestire o controllare l'intero processo? Così come non si può gestire una centrale nucleare in un'assemblea, analogamente queste pratiche esigono un armamentario tecnologico non controllabile da una comunità. Stiamo consegnando la procreazione nelle mani di esperti, tecnici, biotecnologi, sottraendola così definitivamente al potere femminile. Una volta che la pratica sarà estesa a tutte e tutti si entrerà in un circuito in cui, in nome della libertà di scelta, si creerà un contesto in cui non si potrà fare altrimenti. In un domani non troppo lontano sarà definito prima irresponsabile e poi criminale mettere al mondo figlie/i senza ricorrere alle tecniche di riproduzione artificiale garantite e gestite da un apparato medico.
Se il contenuto del libro è così controverso, così strumentalizzabile da parte di reazionari, anti-libertari, se offende in modo tanto profondo femministe ed LGBTQI perché pubblicarlo anche in Italia? Non si corre il rischio di essere fraintese, strumentalizzate, appunto, e accomunate ad ambienti “imbarazzanti”?
Sì, il rischio pare proprio esserci. Secondo noi è valsa la pena correre questo rischio perché consideriamo più pericoloso il rischio di essere vincolate dall'opportunità/opportunismo e dalla gabbia del “politicamente corretto” o peggio ancora da un silenzio assordante che grava sullo sviluppo di un reale dibattito e di una critica scevra da luoghi comuni, pregiudizi e chiusure ideologiche. Gli oppositori agli ogm non sono forse stati per anni definiti oscurantisti?
Allo stato attuale, non si effettuano ancora manipolazioni genetiche nel momento delle diagnosi pre-impianto, ma la fabbricazione del “bambino/a perfetto/a” sottende il mito dell'uomo perfetto tanto caro ai transumanisti. Le manipolazioni genetiche così come le modificazioni della linea germinale hanno conseguenze irreversibili: innescati questi processi non sarà più possibile tornare indietro perché tutto verrà programmato prima biologicamente e poi socialmente, verso un'unica direzione.
Forse, ci si illude che non si arriverà mai a tanto e che le manipolazioni genetiche si fermeranno alle monocolture agricole. Ma tutto ciò che è possibile fare tecnicamente verrà fatto anche socialmente. E se anche non è possibile farlo tecnicamente, nel mentre avremo interiorizzato una precisa idea di vivente, in un tecnomondo dove un ambiente naturale complesso sta diventando un ambiente semplice, programmato, ingegnerizzato e artificializzato.
Sottrarsi dalla consapevolezza degli inevitabili effetti sul presente e sul futuro significa non voler comprendere che la procreazione artificiale si innesta in un preciso progetto di controllo, selezione, modificazione, omologazione e addomesticamento dell'umano e dell'intero vivente.

Collettivo Resistenze al Nanomondo
www.resistenzealnanomondo.org



Non solo cibo/ Arte genuina e clandestina

Sulle pagine di questa rivista si è parlato più volte della “comunità in lotta per l'autodeterminazione alimentare” che si fa chiamare Genuino Clandestino. Diversi gli articoli su esperienze in atto in zone diverse d'Italia e nel 2015 la recensione al libro uscito per quelli di Terra Nuova Edizioni: Genuino Clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere.
Da quando scrissi quella recensione ad oggi mi è capitato di fare amicizia con alcune persone che hanno scelto di vivere del lavoro contadino e che, per poterlo fare con dignità, hanno scelto di rimanere completamente fuori dal mondo del grande commercio alimentare ed essere quindi clandestini, come provocatoriamente amano definirsi, visto che nessuno è meno clandestino di chi vende i suoi prodotti in piazza e invita a visitare i propri luoghi di lavoro a garanzia della genuinità del suo prodotto.
Incrociando a questa realtà molti altri pensieri e passioni un giorno mi son detta che era possibile formulare l'ipotesi: Arte sta al mondo-mercato dell'arte come Genuino Clandestino sta all'agribusiness. Infatti paragonare l'arte all'agricoltura può sembrare assurdo soltanto a prima vista, a uno sguardo frettoloso che proceda mettendo ogni cosa, separata dall'altra, nel suo classificatore. In realtà entrambe producono beni essenziali per la nostra vita, entrambe hanno a che fare con la bellezza, entrambe sono vittime del medesimo disgraziato destino che sta alterando alla radice la loro fisionomia.
Sappiamo bene che, originariamente, non esistevano né arte né agricoltura ma solo esseri umani mossi da bisogni e creatività, che vivevano in relazione alla terra dalla quale ricavavano sostentamento, e sulla quale lasciavano tracce del loro passaggio.

Arcimboldo, Ritratto di Rodolfo II

Con l'arte è più complicato
Credo sia importante andare a ritroso nel tempo per comprendere e poter ragionare su cose per noi così essenziali come cibo e arte; per trovare il valore originario di ciò che permette la nostra vita, quel che sta al principio e la cui distruzione sta causando danni irreversibili. Possiamo farci le stesse domande che si è fatto l'archeologo Emmanuel Anati nel corso dei suoi studi e, ad esempio, chiederci cosa rivela l'arte dei primordi sulla natura stessa dell'arte, intesa come fenomeno che coinvolge l'intera specie umana? Se l'essere umano dipinse ed incise sulle pareti rocciose da quando gli si attribuisce il carattere di sapiens e lasciò le sue impronte, sotto forma di arte rupestre, negli angoli più remoti dei cinque continenti, questo straordinario proliferare di arte visuale cosa ci racconta della nostra stessa essenza?1
Se l'essere umano ha vissuto per epoche intere di caccia e raccolta e solo la degenerazione relativamente recente ha trasformato la piccola primordiale agricoltura in bisogno di accumulo per colmare ansia di sicurezza e brama di potere, questo che cosa ci racconta?
Non cerco di guardare indietro come a una sorta di paradiso perduto – che oltretutto paradiso probabilmente non era – ma se quello che caratterizza la nostra contemporaneità è proprio la possibilità di attingere a un bagaglio immenso di conoscenza, e poi di tessere i fili che attraversano le esperienze, la storia e la preistoria da cui quella conoscenza è scaturita, perché non farne buon uso, perché non imparare, perché non interrogarci e fare di quel particolare tipo di intelligenza che ci caratterizza come homo sapiens evoluto il volano per invertire la rotta? Non sto dicendo novità, voglio solo mettere accenti e sottolineare il bisogno di unire le esperienze che ci fanno vivere; di dar valore al pane insieme alle rose, tanto per usare una metafora e rifarmi a una vecchia amata canzone.
Parlando di cibo la storia sembra abbastanza semplice, con l'arte le cose si complicano un po'. Allora vorrei provare a dare un'occhiata – seppure sommaria – alla storia del concetto di arte per notare come si sia andato formando e trasformando solo nel corso del tempo più recente, quello che, per intenderci, alle nostre latitudini facciamo partire dall'antichità greca e latina. Lo stesso concetto prima era inesistente.
Il termine a quel tempo stava a significare la conoscenza delle regole mediante le quali si era in grado di produrre un oggetto ed era sicuramente più vicino a ciò che oggi chiamiamo artigianato. Infatti si dice ancora per un lavoro manuale ben eseguito che è stato fatto “a regola d'arte”.
Brevissimamente possiamo quindi dire che le prime “classificazioni dell'arte” iniziarono nel periodo greco ellenistico (dal 323 a.C. al 31 a.C. per avere un'idea in termini di tempo), si definirono maggiormente nel Medioevo (arti comuni, arti liberali) e fu soltanto nel corso del Rinascimento che la condizione sociale degli artisti migliorò a tal punto da contribuire a separarli dagli scienziati e dagli artigiani.
È nella prima metà del 1700 che il filosofo tedesco Baumgarten conia il termine estetica, mentre, verso la fine del medesimo secolo, i concetti di bello e di arte incominciarono a essere messi in discussione fino ad arrivare, con il Novecento, a far diventare il termine stesso di arte un concetto aperto in cui potevano confluire varie sfaccettature e definizioni. Si arriva così alla storia dell'arte più recente e alle cosiddette “avanguardie artistiche” che hanno avuto l'obiettivo di trasformare, più o meno radicalmente a seconda dei casi, le stesse finalità dell'arte. Ma anche quel tempo è finito e – citando Francesco Porzio dal suo Manifesto per un'arte futura – oggi ci tocca un'epoca dove “i professori del contemporaneo usurpano le forme che artisti degni di questo nome avevano impiegato con la saggezza del primitivo e la maturità del bambino e le utilizzano per esprimere il nulla con l'irresponsabilità dell'adulto civilizzato e la puerile volgarità delle accademie di ogni tempo. Essi non immaginano neppure la forza della creazione perché tutto ciò che hanno saputo fare, ancora una volta, è stato trasformare la libertà in un sistema di convenzioni”.2

Era l'epoca della Pop Art
Le forme dell'arte sono usurpate tanto quanto è cambiato il nostro rapporto con il cibo e la terra da cui esso nasce. Centinaia di migliaia di anni ci hanno visto vivere relativamente liberi, fino a quando ebbe inizio quella che viene chiamata “rivoluzione neolitica” (reperti più antichi la fanno risalire al decimo millennio a. C.) portando una modifica radicale al nostro tipo di alimentazione insieme al sistema sociale delle comunità. Da nomadi e socialmente poco strutturati diventammo sedentari, dando origine ad agglomerati di grandi dimensioni che si costituirono in villaggi e città. Gli esempi più noti di società agricole neolitiche organizzate sono le città sumere, la cui nascita segna anche il passaggio dalla preistoria alla storia.
Con gli insediamenti stabili e la coltivazione aumentò la popolazione, di conseguenza iniziarono la divisione del lavoro e le prime forme di amministrazione politica/commerciale. Fu in quel periodo che l'ambiente naturale iniziò a essere manipolato unicamente a favore della specie umana.
Da quel momento a oggi, dove il cibo è stato trasformato in merce sempre uguale in tutto il mondo, completamente staccato da come, dove e da chi viene prodotto, è stato un lungo passo dopo passo di dodicimila anni. Quello che mettiamo nel nostro piatto è diventato un bene indifferenziato – commodity, si dice in gergo – qualcosa di cui c'è richiesta, ma che viene offerto sul mercato senza differenze di qualità. Petrolio, grano, caffè, cellulari... sempre di merce si tratta.
Ci fu un tempo in cui qualcuno, più o meno furbescamente tentò la provocazione, mercificando in infinite riproduzioni volti famosi accanto a barattoli di zuppa che finirono – venduti a caro prezzo come opere d'arte – a far bella mostra di sè sulle bianche pareti dei salotti intellettuali. Era l'epoca della Pop-art, ultimi giri di giostra di un'arte che in buona parte ha continuato soltanto a rispecchiare il vuoto che la circonda.
Più di una voce insiste nel dire che l'esperienza umana è, quasi sicuramente, arrivata a toccare il limite di non ritorno. O si coglie l'opportunità di cambiamento una volta per tutte o ce la vedremo brutta. L'occasione è ora, per ripensare ogni cosa, mettendosi in gioco, facendo tesoro dell'esperienza passata.
Sull'etichetta della passata di pomodori di un amico che affianca al suo marchio quello di Genuino Clandestino c'è scritto: “È più sana una pagnotta confezionata in un grande stabilimento agroalimentare o una pagnotta di farina di grano biologico impastata a mano dal contadino di fiducia? Per noi non c'è paragone, ma per qualcun altro sì. Genuino Clandestino è una campagna che denuncia una serie di norme ingiuste che equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie li rende fuori legge. Aiutaci a cambiare le cose.”

Ma il denaro fa terra bruciata
Allo stesso modo, il mondo sembra pieno di artisti e poeti, ma in realtà è molto difficile trovare qualcuno che viva in modo poetico e artistico; la grandezza di un'opera non sta nell'astuzia delle forme o nel cinismo delle parole, bensì nella concezione del mondo che essa esprime, visto che l'arte non è un metodo o una professione, ma il modo di esistere di un essere umano.
Ma “perduto ogni discernimento, l'arte è stata data in affidamento al denaro, e queste sono le sue coerenti scelte. Ma il denaro fa terra bruciata intorno a sé.
Come nell'osceno spettacolo dei media, a cui l'arte attuale si ispira, rimane un solo sentimento autentico: il desiderio di successo travestito da gesto creativo. L'arte di oggi è l'arte delle veline e delle facce rifatte, la sua estetica chirurgica è l'estetica del successo. (...) Noi ci guardiamo attorno e vediamo infinite bolle di vuoto che aleggiano in un'atmosfera di vacua irresponsabilità. Irresponsabile e vacua è l'attuale politica e l'attuale società d'irresponsabili veleni e di vacui consumi, così come irresponsabile e vacua è l'arte che tale società esprime.”3
Se in un altro tempo – questa volta passato da poco come è stato quello della mia gioventù che gridava nelle piazze degli anni '70 – il “nemico” aveva i volti di una classe sociale, oggi si sa bene che chi ha vinto, mischiando molto le carte, si è confuso nei mille volti del mercato che non guarda in faccia nessuno. È da lì che bisogna stare fuori, con attenzione con molta forza e con determinazione, che si producano pane, parole o tele dipinte, la sostanza non cambia. È più che necessario stare fuori da un mondo il cui potere si basa su immagini vendute al posto della realtà, dove perfino l'oggetto più insulso può essere trasformato in opera d'arte e il cibo peggiore troneggiare all'ipermercato.
La vita è creatività ed è lontana distanze infinite dagli scaffali illuminati e dai riflettori. Sta in luoghi occasionali, decentrati, inventati e ricercati ostinatamente insieme a tutti coloro che, piano piano, stanno andando a formare i fili di una immensa tela nella quale, secondo la strategia del ragno, prima o poi ciò che non ha senso finirà imprigionato.

Silvia Papi
Gropparello (Pc)

  1. Emmanuel Anati, Arte Rupestre. Il linguaggio dei primordi, Capo di Ponte (BS), Edizioni del Centro Camuno di studi preistorici, 1994.
  2. Francesco Porzio, Sfratto! Ovvero: Manifesto per un'arte futura, Milano, Casa editrice Libera e senza Impegni, 2011.
  3. Francesco Porzio, op. cit.


Dibattito vaccinazioni/ L'autoritarismo dei vaccini

Il tema della obbligatorietà delle vaccinazioni, di grande attualità, pone varie questioni agli anarchici. Interrogativi a cui la galassia libertaria ha risposto in modo diverso. Io, Stefano Boni, ho condiviso con la loro madre la scelta di non vaccinare i figli. Invece Lorenzo Coniglione in “Introduzione a una idea idiota” apparso su Umanità Nova del 5 marzo 2014 ha usato toni offensivi e insulti, piuttosto che argomentazioni, contro chi non vaccina: “si nutre di bufale antiscientifiche”, “paranoie complottistiche”, “deliri”, si tratta di “imbecilli” e “idioti”. Chi è scettico rispetto alle inoculazioni veniva associato automaticamente a il “suprematismo bianco”, “cargo cults”, “new age” e integralismi religiosi vari.1 Eppure sono ateo e sui vaccini ritengo che la mia posizione sia frutto di una ponderazione attenta delle informazioni a disposizione.

Questioni di scienza
Abbiamo apprezzato il dibattito sulla ricerca scientifica ospitato da A-rivista soprattutto nel 2016 concernente i limiti delle verità propugnate dalla scienza: l'imposizione dell'obbligo vaccinale rientra in pieno in queste tematiche. Non vogliamo entrare nel complesso confronto sulle prove scientifiche riguardo benefici e danni dei vaccini. C'è una letteratura sconfinata che ha posizioni divergenti che sarebbe impossibile riassumere. Un po' di precisazioni possono però aiutare ad orientarsi. È riduttivo e banale riassumere la questione come scelta dicotomica: “i vaccini fanno bene o male?”, “sei favorevole o contrario?”. I vaccini sono stati certamente utili in alcuni contesti storici ma hanno sicuramente effetti collaterali indesiderati, per alcuni bambini anche gravi.
Benefici e danni dei vaccini non vanno pensati in astratto ma con riferimento a precisi contesti storici: la scelta di vaccinare non dovrebbe sorgere da un posizionamento ideologico ma da una riflessione su come sviluppare, qui e ora, la migliore immunità per i nostri figli. Una domanda che ci pare più sensata è quindi “tale vaccino genera più benefici o danni oggi, in Italia, per mi* figli* di tale età?”. Le malattie per cui si richiede o sostiene vivamente la vaccinazione sono continuamente aumentate, andando a coprire anche virus che la generazione dei quarantenni ha tranquillamente gestito senza vaccinazioni (orecchioni, morbillo, varicella) nonché pandemie inventate che hanno generato enorme allarme mediatico ma un contenuto impatto in termini di malattie e morti (suina 1976; aviaria 2005, 2006, 2008; H1N1 2009).
L'immunità di gregge è un concetto chiave per capire perché chi sostiene la bontà dei vaccini ritiene che un ente superiore, parte dello Stato, debba imporre di vaccinare. L'argomentazione è la seguente: è importante vaccinare tutti per proteggere i bambini più deboli (immunodepressi, con gravi patologie croniche, affetti da tumori) che non possono vaccinarsi: per loro l'unica possibilità di frequentare la collettività è che tutti gli altri siano vaccinati. Ma se attualmente circa il 5% dei genitori (dipende dai vaccini e dalle età dei bambini) non vaccina i propri figli, è giusto obbligarli forzatamente a vaccinare (anche per malattie non mortali) per proteggere una percentuale ignota di “immunodepressi” che non possono vaccinarsi?

Chi non vaccina è un integralista?
La percentuale di genitori che non segue le aspettative statali sulle vaccinazioni è in costante crescita negli ultimi anni; ciò ha messo in allarme le istituzioni mediche che hanno avviato in accordo con le altre istituzioni pubbliche, i mass media e le multinazionali del farmaco una campagna di criminalizzazione contro chi non vaccina i figli. I mass media ufficiali hanno etichettato chi mette in discussione i vaccini in termini dispregiativi, come facile prede delle pseudo-verità telematiche. Chi sono quelli che vengono etichettati dai media come “no-vax” e che si presentano invece come fautori della libertà delle vaccinazioni?
La tesi di laurea del 2016 di Angela Leone Le percezioni riguardo i vaccini. Etnografia di una disaffezione per l'immunità biomedica sulle opinioni dei genitori riguardo alla opportunità di vaccinare i figli, ha mostrato che in piccola parte chi si sottrae ai vaccini ha posizioni pregiudizialmente contrarie ad ogni tipo di vaccino e ancora più raramente queste sono fondate su posizioni religiose; i genitori che rifiutano almeno in parte le vaccinazioni sono quelli che hanno intensificato e diversificato le fonti di informazione; la diffidenza rispetto ai vaccini è ben più ampia di quel 5% che effettivamente non vaccina i figli. Se la percentuale di genitori che rifiuta in toto i vaccini è piuttosto contenuta, una parte molto più cospicua (circa un quarto dei genitori, con varie sfumature) adotta rifiuti parziali: non sottopone i figli ad alcune vaccinazioni o le ritarda rispetto a quanto previsto (imposto?) dal calendario vaccinale; una fetta consistente dei genitori segue il calendario vaccinale nonostante abbia dubbi rilevanti. Le principali motivazioni di chi non accetta supinamente le richieste dell'autorità medica (o quella delle multinazionali farmaceutiche?) non riguardano principalmente l'associazione con l'autismo (su cui si concentra tutta l'attenzione mediatica):
a) l'immunizzazione naturale è ritenuta migliore di quella artificiale in quanto non farmacologica e permanente;
b) le vaccinazioni di massa negano un'attenzione alla specificità dell'individuo e quindi ad una cura personalizzata (vari vaccini in un'unica inoculazione e assenza di controlli se il soggetto vaccinato è già immune per la malattia per cui lo si vaccina);
c) la paura per una vasta gamma di potenziali effetti collaterali comprendenti allergie, lupus, eczemi, alterazioni immunitarie e cromosomiche, sindrome da affaticamento cronico, epilessia, sordità, cecità, sclerosi a placche, diabete, disfunzioni renali, del fegato, polmonari, cancro, leucemia, encefaliti, danni neurologici ad ampio spettro, morte bianca;
d) i vaccini vengono fatti ad una età del bambino (si inizia dai tre mesi) in cui il sistema immunitario è in costituzione: l'interferenza artificiale rischia di sconvolgere i meccanismi fisiologici. Il fatto che ci sia un bombardamento di vaccini multipli fin dai primi mesi di vita appare insensato anche perché si inoculano vaccini per malattie che è praticamente impossibile che contagino un neonato (tetano, epatite B trasmessa per trasfusioni o rapporti sessuali);
e) la vaccinazione non è fatta per salvaguardare la salute della gente ma per fare profitti alle multinazionali del farmaco.2

Autoritarismo
In un'ottica libertaria la questione centrale è la volontà statale di imporre il vaccino. Si possono avere idee diverse: nessuno contesta a chi vuole vaccinare la libertà di farlo. Il problema sorge quando si vuole discriminare bambini che non sono vaccinati. Sebbene alcuni vaccini sono stati denominati “obbligatori”, in pratica non lo sono stati negli ultimi decenni in quanto era relativamente facile, per lo meno in alcune regioni, astenersi dalle vaccinazioni senza conseguenze significative. Non è più così. È passata recentemente una direttiva della regione Emilia Romagna che stabilisce che per avere l'accesso “ai nidi, pubblici e privati, bisognerà aver somministrato ai minori l'antipolio, l'antidifterica, l'antitetanica e l'antiepatite B”.3 Tutte le istituzioni hanno applaudito e si è parlato di estendere la normativa su scala nazionale.
Le istituzioni non si sono fermate a questo. La criminalizzazione dei “no-vax” è stata sistematica sui mezzi di informazione di massa. L'annuncio di pericoli ed epidemie sono costanti: i morti non vaccinati finiscono in prima pagina, senza un dibattito; i morti vaccinati (vittime delle stesse malattie) sono occultati. I tentativi di raccogliere dati concreti sugli effetti collaterali dei vaccini, nonostante una legge, sono minati dalle istituzioni mediche. Ad Angela Leone è stato negato l'accesso (per scopi di ricerca) alla osservazione delle interazioni medico-paziente nelle ASL modenesi durante i corsi pre parto e al momento delle vaccinazioni. Siamo arrivati ora alla esplicita censura delle posizioni di dottori che mettono in dubbio che i benefici dei vaccini eccedano, in alcuni casi, i rischi. A luglio 2016 la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri ha approvato un documento in cui si afferma: “Il consiglio di non vaccinarsi (...) in particolare se fornito al pubblico con qualsiasi mezzo, costituisce infrazione deontologica” e quindi sanzioni, fino alla radiazione.4 In diverse città italiane i processi sono già iniziati, e a Treviso è stato radiato il primo medico.
Spero che almeno sulla libertà di espressione gli anarchici siano compatti: la verità non la decide chi si auto-proclama come il detentore della scienza e della oggettività. Ognuno di noi costruisce la propria verità alimentandosi delle informazioni che ritiene utili: lo possiamo fare liberamente solo sentendo opinioni divergenti, contrastanti, anche eretiche. La minaccia, l'imposizione della verità unica, la censura hanno sempre e solo puntellato verità che si mostrano forti ma sono in realtà fragili. Verità che non vogliono essere interrogate perché non hanno la certezza che rivendicano. I dubbi, sempre fonte di libertà di pensiero, nascono, in questo caso, anche da una consapevolezza critica (e non da forme di misticismo) che la scienza ha rimpiazzato la chiesa come Sapere Assoluto, negando il proprio posizionamento concreto, innestato nel potere istituzionale di Stato e capitale. Una cosa da salvare del metodo scientifico è che la sua verità è costruita su dibattiti aperti che si basano su ragionamenti tra posizioni diverse. Ma allora perché censurare e perseguitare chi la pensa diversamente? Sui vaccini, cosa ha di libertario riproporre le posizioni oscurantiste e repressive delle multinazionali farmaceutiche che insultano e minacciano i genitori di bambini non vaccinati?

Angela Leone e Stefano Boni
Modena

  1. http://www.umanitanova.org/2014/03/05/antivaccinari/.
  2. Se qualcuno volesse approfondire le ragioni scienttiche, se cerca letteratura che sostiene vaccinazioni obbligatoria basta aprire qualunque pagina delle istituzioni sanitaria, per chi volesse approfondire le ragioni dello scetticismo si può partire da http://www.comilva.org/.
  3. http://www.regione.emilia-romagna.it/.
  4. “DOCUMENTO SUI VACCINI”, 8.7.2016, https://portale.fnomceo.it.


Antipsichiatria/ Telefono viola, una rete di volontari/ie

Il Telefono Viola è uno spazio d'incontro reale e simbolico. Un luogo, in cui le relazioni che s'instaurano per mezzo di frequenti contatti telefonici e incontri, rappresentano l'elemento fondante di ogni azione politica. Legami che esprimono un'etica ed una prospettiva, a partire dalle risposte ai problemi reali, che le esistenze attraversate dal giudizio e dall'interesse psichiatrico, elaborano.
La vecchia cornetta è uno strumento attraverso cui si ascolta chi sperimenta i dispiaceri della psichiatria, che permette di cogliere le resistenze di chi, quotidianamente e spesso in solitudine, affronta le pressioni ed i ricatti dell'istituzione psichiatrica e del pregiudizio sociale.
Il Telefono Viola non è dunque un mezzo, ma piuttosto un fine. Potremmo definirlo allora un progetto politico che intende disfarsi della cultura psichiatrica a partire dalla solidarietà attiva, dalla complicità e dal supporto nei confronti di coloro i quali, vittime proprio non li si vuol considerare. La via per il cambiamento è già intrapresa se si affrontano con puntualità, efficacia e organizzazione le criticità che ogni esperienza psichiatrica esprime.
Non attendiamo quindi il sol dell'avvenir o rimandiamo a coincidenze favorevoli le richieste che ci vengono formulate. Consapevoli delle insidie insite in ogni percorso di liberazione dalla psichiatria, nonchè dei limiti strutturali dell'organizzazione a cui facciamo riferimento, cerchiamo di saldare quelle “alleanze tecniche” che risultano strategicamente incisive su un piano autobiografico. Consapevoli che non può essere una formula precostituita e “calata dall'alto” a liberare nessuno, cerchiamo di utilizzare tutti gli strumenti tecnici, organizzativi ed umani che si hanno a disposizione, al fine di rompere la condizione di solitudine che incalza e giustifica l'intervento psichiatrico.
Il Telefono Viola è una rete di volontari e volontarie che condividono l'importanza di affrontare ogni singola criticità nella reciprocità della relazione. Dopo aver stabilito un primo contatto, si cerca di elaborare insieme a chi ci telefona, una strategia utile a favorire un'emancipazione dal regime psichiatrico, nella consapevolezza dei nostri stessi limiti. Il campo d'azione è prevalentemente territoriale, per facilitare l'intervento diretto, tuttavia riteniamo fondamentale operare in rete per interconnettere risorse, esperienze, criticità.
Se i vari servizi territoriali e ospedalieri, pretendono di risolvere la questione dei conflitti sociali e psicologici patologizzando tali problematiche esistenziali, calpestando la libertà personale e adoperando strumenti intimidatori, ricattatori e violenti che da sempre li contraddistinguono, il Telefono Viola nasce in opposizione a tutto ciò, con la ferma convinzione che solo la libertà di poter essere se stessi in un mondo libero possa realmente definirsi “una buona terapia”.
Infine, vorremmo ricordare che è sotto l'insegna dei suggerimenti e delle esperienze di tanti/e, con cui abbiamo condiviso un pezzo di strada in questi anni, che nasce questo progetto ed è in nome di coloro che non sono più con noi, che vogliamo continuare il viaggio.
Il Telefono Viola, realtà di volontariato attiva dal 1991, è totalmente autogestita nelle risorse umane e finanziarie e offre un reale sostegno a chi si trova o rischia di cadere, nei circoli viziosi della psichiatria.
Offriamo ascolto delle vicenda narrata dai soggetti che la vivono in prima persona o da familiari, amici, conoscenti che esprimono il vissuto di persone a loro vicine. Interventi diretti presso reparti ospedalieri e strutture residenziali. Informazioni e consigli orientativi per fare a meno della pseudo-scienza psichiatrica. Informazioni sui diritti di chi è sottoposto a trattamenti coercitivi A.S.O (accertamento sanitario obbligatorio) e T.S.O (trattamento sanitario obbligatorio), internamenti presso R.E.M.S (ex O.P.G) e Comunità residenziali “terapeutiche”. Informazioni sugli effetti collaterali dei vari psicofarmaci per una maggiore consapevolezza nell'eventuale libera scelta di assumere queste droghe legalizzate o per poter predisporre una graduale dimissione. Sostegno umano nella pianificazione con i vari soggetti interessati di reali percorsi per contrastare ab/usi della psichiatria, liberarsi dalla sua morsa o evitare di diventare “utente” dei suoi servizi. Contatto telefonico ed eventuali incontri con gli operatori. Sostegno medico (consulenza gratuita) offerto solo da alcuni Telefoni Viola, sostegno legale (consulenza gratuita).
Per maggiori informazioni, leggere i vari comunicati (anche su O.P.G/R.E.M.S), conoscere i vari numeri dei Telefoni Viola e sapere come poterci sostenere: www.telefonoviola.org.

Gli operatori del Telefono Viola Piacenza, Bergamo, Reggio Emilia, Sicilia, Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud (Pisa) e Collettivo antipsichiatrico Mastrogiovanni (Torino)



Anarchici italiani nei lager/ Errata corrige e una (bella) testimonianza

In seguito alla pubblicazione, sul penultimo numero (“A” 415, aprile 2017), del dossier sugli anarchici italiani internati nei lager nazisti, curato da Franco Bertolucci, abbiamo ricevuto da Michel Antony (Francia) le precisazioni qui sotto riportate e la lettera di Silvio Gori (Bergamo). Altre precisazioni troveranno spazio sul prossimo numero.
Intanto il lavoro di Bertolucci prosegue e già un'altra decina di anarchici italiani internati è... saltata fuori. Sul sito della BFS (www.bfs.it), è possibile trovare la documentazione a mano a mano aggiornata.

Pag. 80 Scheda biografica n. 3 leggasi Guérigny dans la Nièvre anziché Guerigny (Niève).

Pag. 80 Scheda biografica n. 4 leggasi Arcachon anziché Arrachon.

Pag. 86 Schede biografiche n. 32 e 33 invertito l'ordine alfabetico.

Pag. 92 Scheda biografica n. 56 leggasi 27 maggio 1924 e non 29 settembre; 18 aprile anziché 9 maggio 1944.



Da Pistoia al lager/ Mio cugino Giorgio

Cara redazione,
leggendo la “Lista degli anarchici italiani deportati in Germania” a cura di Franco Bertolucci (“A” 415, aprile 2017), ho trovato al n° 56 la nota riguardante mio cugino Giorgio e voglio fare alcune precisazioni (Franco ne farà l'uso che riterrà più opportuno).
Innanzi tutto la data di nascita: 27 maggio 1924 (il 29 settembre fa riferimento ad un altro omonimo).
Giorgio era figlio di Egidio, fratello minore di mio padre Egisto, e dopo la scuola dell'obbligo crebbe nella bottega artigiana del mio babbo. Era grande amico di mio fratello Minos (erano quasi coetanei essendo Minos del 1922) e, agli inizi del 1944, decisero insieme di unirsi alla formazione partigiana “Gino Bozzi” che operava sul nostro Appennino.
Il 17 Aprile, in seguito ad una spiata, la Bozzi cadde in una imboscata nei pressi della località di Treppio. Nel corso del combattimento che ne seguì Giorgio si trovò leggermente ferito e isolato dal gruppo che si ritirò verso l'Emilia protetto dalla mitragliatrice di Magni Magnino che dette la vita per permettere agli altri di sganciarsi.
Giorgio riuscì ad allontanarsi e raggiunse nella notte la famiglia a Pistoia. Nella fuga i membri della formazione furono costretti ad abbandonare gli zaini ed in uno di questi i fascisti trovarono dei documenti con i nomi di alcuni partigiani e fiancheggiatori, fra questi quelli di Giorgio, di Minos e del babbo Egisto.
Subito partirono le squadre per catturare le persone nominate, ma trovarono soltanto Giorgio che fu arrestato nella mattinata del giorno 18. I repubblichini si recarono anche al nostro indirizzo, ma non trovarono nulla perché la casa era andata distrutta da un bombardamento nel mese di marzo e nessuno sapeva dove eravamo sfollati.
Allora i comandanti fascisti pensarono di farselo dire da mio cugino e, al suo rifiuto, cominciarono a torturarlo fino a quando, la mattina del giorno 19 cedette.
Subito due camion di fascisti e due auto (in una vi era Giorgio ferito e torturato) vennero dove eravamo sfollati. Non ci trovarono perché eravamo andati io, babbo e mamma in montagna presso una persona che teneva i contatti con la formazione per avere notizie dei nostri cari.
Nel ritorno un contadino e uno spaccapietre che avevamo incontrato nell'andata, ci dissero che una pattuglia di repubblichini era passata poco dopo di noi cercandoci, ma che loro li avevano indirizzati su una strada diversa da quella presa da noi. Il babbo si nascose nel bosco sovrastante la casa dove abitavamo, io e mamma Marina tornammo a casa. La mamma fu interrogata per ore, ma riuscì a controllare la situazione dicendo che il babbo si era recato a cercare del legname per lavoro e che all'indomani sarebbe rientrato, il comandante diffidò mamma dal lasciare la casa dicendo che avrebbe piazzato diversi uomini per sorvegliarla con l'ordine di spararci addosso se avessimo pensato di fuggire.
Io ero un ragazzo, stavo per compiere 11 anni (li avrei fatti il 22 in montagna) e mi misi a curiosare fra i camion e le auto approfittando del fatto che non attiravo l'attenzione dei repubblichini. In una delle auto vi era Giorgio, non ti dico come era ridotto, nonostante i tanti anni passati la scena mi tormenta ancora qualche volta, mi chiese del babbo con un filo di voce, gli risposi che era al sicuro. Allora mi disse: “mi togli un gran peso dalla coscienza, ho sofferto tanto e non ce l'ho fatta a resistere fino in fondo”. In quel momento un fascista sopraggiunto mi cacciò via e quella fu l'ultima volta che vidi mio cugino.
Non starò a raccontarti come la notte io e mamma riuscimmo a sgattaiolare fra le guardie che sorvegliavano la casa e a fuggire tornando in montagna. Il babbo ci raggiunse qualche ora dopo. Dopo molte peripezie riuscimmo a raggiungere dei parenti a Firenze che ci nascosero in casa loro. Il babbo andò a trovare il compagno fornaio Augusto Boccone che ci fornì pane per vivere durante il tempo che restammo a Firenze.
Per noi finì bene non fu così per il povero Giorgio.
Un fraterno abbraccio

Silvio Gori
Bergamo


dibattito anarchici e orientalismo

Un dibattito aperto (come tutti i nostri)

La questione dell'orientalismo e di una qualche forma di “superiorità” rispetto alle popolazioni locali, da parte di alcuni anarchici italiani emigrati in Egitto, oltre un secolo fa, è stata posta per la prima volta da Costantino Paonessa in “A” 405 (marzo 2016). Sullo scorso numero (“Un secolo fa, in Egitto”) Paonessa è ritornato sull'argomento. Giorgio Sacchetti ha replicato, contestualizzando la questione nel clima culturale dell'epoca. Sacchetti ha poi proposto uno stralcio da un intervento di Laura Galiàn.
Questa volta intervengono Pietro Di Paola, Laura Galiàn, Costantino Paonessa e Giorgio Sacchetti. Il dibattito resta aperto. Come tutti i dibattiti, da noi. Mai finiti, sempre aperti. A conferma che “A” non vuole dettare la linea, ma offrire stimoli alla riflessione. Per poi impegnarsi concretamente, sapendone un po' di più. Secondo la propria opinione e sensibilità.


1. L'approccio transnazionale, questo sconosciuto

L'intervento di Costantino Paonessa sugli anarchici italiani in Egitto ed il loro atteggiamento orientalista verso la popolazione locale induce a molte riflessioni. Che vi fosse, anche all'interno della comunità anarchica, una visione dell'oriente fortemente influenzata dalla cultura dell'epoca emerge, per esempio, anche nella opposizione alla invasione della Libia nel 1912. Gli anarchici attaccarono duramente l'invasione e la propaganda nazionalista che ne esaltava la missione 'civilizzatrice' ma, tra le righe, viene spesso il sospetto che gli anarchici considerassero comunque 'i beduini' una popolazione 'arretrata' o che potessero essere i portatori di una propria civiltà pari alle altre. Ma questo loro atteggiamento va valutato anche in relazione ad altri fattori, oltre a quello fondamentale del contesto culturale dal quale esso emergeva.
Il primo fattore riguarda la visione all'interno del mondo anarchico, ma non solo, della 'rivoluzione' e dell'abbattimento dello stato come momenti risolutori di ogni contraddizione sociale. Questa visione spesso limitava sia l'analisi che l'intervento su tematiche fondamentali come, per esempio i rapporti di genere o la condizione femminile. Non è un mistero che anche rispetto ai rapporti di potere tra i sessi, i militanti anarchici non fossero spesso particolarmente coerenti e che vi fossero notevoli contraddizioni tra le 'idee' professate e la 'prassi' della vita quotidiana. C'è poi la questione del complesso rapporto tra anarchismo, anticolonialismo, e lotte di liberazione nazionale. Come disgiungere l'opposizione al colonialismo dalle lotte di liberazione nazionale e la creazione di nuovi stati? Alcuni anarchici andarono a combattere e morirono nelle guerre di liberazione a Cuba, o in Grecia. Ma Malatesta commentava su questo che, volendo, c'era tanto da fare “contro i Turchi d'Italia”.
Un secondo elemento su cui riflettere è quello del problematico rapporto tra la 'minoranza cosciente' e le masse. Invettive simili a quelle riportate nei confronti dei lavoratori egiziani non sono inusuali nella stampa anarchica dove si possono trovare sfoghi, espressi con toni di superiorità o paternalismo, contro gli operai ignoranti, passivi e succubi dei padroni, e della necessità di educarli o di 'elevarli'.
La storia degli esiliati anarchici in Egitto fa parte di un'esperienza più ampia, quella dell'esilio anarchico e dell'anarchismo come fenomeno transnazionale che da qualche anno sono oggetto di ricerche che mettono in discussione la prospettiva 'euro-centrica' e spostano l'attenzione su aree finora poco considerate come quella medio-orientale. Questo approccio sta ponendo nuovi interrogativi e aprendo nuove aree di ricerca, inclusa la questione del colonialismo. Uno dei temi che accomuna spesso queste ricerche è il rapporto tra i militanti 'anarchici' e le comunità ospiti e su quanto gli anarchici siano stati in grado di radicare le loro idee al di fuori delle loro comunità.
Le differenze tra le varie località (tra Sud e il Nord America, la Svizzera, l'Inghilterra) sono rilevanti e sono dovute a questioni di lingua, di religione, di tipologia delle comunità immigrate, del loro livello di politicizzazione, e dei rapporti di integrazione o meno con le comunità ospiti. Queste ricerche spesso mettono in discussione l'emergere del movimento anarchico esclusivamente come fenomeno di 'importazione' (per esempio negli Stati Uniti) e sottolineano il contributo che è stato dato anche dall'elemento 'locale'. Interessante sarebbe quindi non guardare solo agli anarchici italiani come i supposti necessari vettori dell'anarchismo in Egitto, ma sapere come 'i lavoratori indigeni' vedevano gli anarchici italiani e non solo italiani.
Se l'orientalismo è stata la causa, o una delle cause, del mancato radicamento dell'anarchismo in Egitto, sarebbe interessante (se possibile) verificarlo dal punto di vista 'nativo' oltre che da quello 'occidentale'. Anche per considerare la relazione tra, come scrive Maia Ramnath, la A maiuscola cerchiata, parte specifica della tradizionale sinistra occidentale, e l'anarchismo con la a minuscola, le tendenze verso uguaglianza, anti-autoritarismo e giustizia che erano presenti anche al di fuori dell'Europa senza doverle però misurare su quanto o meno esse si avvicinino alle tradizioni libertarie occidentali.1
Un'ultima riflessione rispetto all'imperdonabile ritardo nell'acquisire un approccio transnazionale. Come ho già detto, negli ultimi anni diversi ricercatori (soprattutto nel mondo anglosassone, ma non solo) hanno studiato e studiano il movimento anarchico con una prospettiva transnazionale con risultati interessanti e innovativi. Però spesso questi lavori, per ragioni su cui ci sarebbe molto da discutere, purtroppo stentano ad uscire dai ristretti circoli accademici. Si tratta, quindi, più che di un imperdonabile ritardo, di un problema di comunicazione e di trasmissione del sapere di non facile soluzione.

Pietro Di Paola

1. Maia Ramnath, Decolonizing Anarchism, Oakland: AK Press, 2011.



2. È necessario decolonizzare l'anarchismo

Ringrazio “A” Rivista Anarchica per aver dato spazio a questo dibattito su anarchismo e sue intersezioni con razzismo e colonizzazione. Questioni importantissime che necessitano di un'attenzione particolare e che finora non sono state al centro degli interessi degli storici dell'anarchismo.
Possiamo affermare che l'anarchismo italiano in Egitto, prima e dopo la Prima Guerra Mondiale, non sia riuscito a mobilizzare la popolazione locale egiziana e a caratterizzarsi come il principale vettore della lotta anti-coloniale e sociale. Per cercare di capire i motivi per cui il variegato movimento anarchico egiziano sia rimasto confinato alle comunità straniere (italiani e greci principalmente) e sia scomparso dopo la Prima Guerra mondiale, senza riuscire a formare un movimento anarchico locale e autonomo, autori come Anthony Gorman1 e Ilham Khuri Makdisi2 hanno proposto due spiegazioni. Prima di tutto la nascita del movimento nazionalista guidato dalla borghesia capitalistica egiziana che mise in secondo piano la lotta sociale a favore della lotta anti-coloniale e l'indipendenza nazionale. In secondo luogo, l'assorbimento nelle fila dei neonati partiti comunisti e socialisti (anni '20) dell'elemento anarchico. Allo stesso modo, la limitazione del regime delle capitolazioni3, dunque dei privilegi della classe lavoratrice (italiana in questo caso) portarono molti militanti anarchici a lasciare il paese o a terminare la loro attività politiche nella regione. Tutto questo, insieme a una forte repressione globale e locale dell'anarchismo, ha fatto cadere nel dimenticatoio la pur importantissima e articolata storia del movimento nel Mediterraneo meridionale, e in Egitto in particolare.
Mentre queste variabili sono certamente fondamentali per la comprensione della “scomparsa” storica (e storiografica) dell'anarchismo in Egitto, ritengo che, il principale merito dello scritto di Costantino Paonessa, sulla scia di quanto già fatto ad esempio dalla militante anarchica Maia Ramnath per l'India4, è di aver evidenziato come il discorso universalista ed eurocentrico degli anarchici europei in Egitto (così come in altre parti del mondo) abbia utilizzato gli stessi termini dei colonizzatori nella loro impresa civilizzatrice. Il che ha sicuramente impedito una cooperazione politica tra eguali.
Il secolo XVII, l'Illuminismo e la rivoluzione francese hanno forgiato le basi concettuali dell'anarchismo ottocentesco ed i principi di un corpo teorico che ha accompagnato e ha fatto parte delle pratiche rivoluzionarie e sindacali del primo Novecento.
Come tradizione, l'anarchismo ha incorporato i principi della modernità: il rifiuto della tradizione, la fede nella libertà e l'uguaglianza, la fede nel progresso scientifico, sociale e tecnologico che porta la società ad uno stato di perfezione e di fede cieca nella ragione. Precisamente, queste radici moderne e illuminate del pensiero europeo e eurocentrico dei discorsi anarchici dell'Ottocento, hanno spesso privilegiato il concetto di classe sul concetto di razza, alludendo ad una sua presunta universalità. Nonostante nei contesti colonizzati, come quello egiziano di cui si parla, gli anarchici abbiano provato a mobilizzare tutte le comunità di lavoratori come un corpo unico, i lavoratori migranti europei e il proletariato egiziano non formavano, nei fatti, uno stesso gruppo classe sociale.
Analizzare e riconoscere questi discorsi e i vari livelli dell'oppressione non vuol dire, a livello teorico, disprezzare il grandissimo lavoro di propaganda libertaria di questi gruppi di militanti, che di fatto, ha aiutato alla trasmissione transnazionale dell'anarchismo a livello globale.
Al contrario, aiuta a un'autocritica dell'anarchismo, a non riprodurre attraverso discorsi e pratiche politiche le stesse dinamiche contro cui si vuole lottare. È altresì vero che attraverso queste stesse valutazioni e analisi, gli e le attiviste dal sud globale stanno contestando contemporaneamente, da una parte, la visione eurocentrica e bianca dell'anarchismo, e dall'altra, le forme e i contenuti di alcuni atti di solidarietà di anarchici e attivisti che provengono dal Nord del mondo. Specie quando questi si basano su una visione neocoloniale e orientalista degli anarchismi e degli attivisti dal sud come dichiara l'anarchica palestinese Budour Hassan nel suo articolo “The Colour brown: de-colonising anarchism and challenging white hegemony”5 (Il colore marrone: de-colonizzare l'anarchismo e sfidare l'egemonia bianca).
La decolonizzazione dell'anarchismo comincia attraverso una revisione della storia di una tradizione il cui obiettivo è la liberazione totale dell'essere umano da tutte le oppressioni (siano queste di classe, di razza, di genere, sessuali, religiose, etc.).

Laura Galiàn

  1. Gorman, A., 2010. ”Diverse in race, religion and nationality... But united in aspirations of civil progress”: the anarchist movement in Egypt 1860-1940. In S. Hirsch & L. Van Der Walt, eds. Anarchism and Syndicalism in the Colonial and Postcolonial World, 1870-1940. Leiden, Boston: Brill, pp. 3-31.
  2. Khuri-Makdisi, I., 2010. The Eastern Mediterranean and the Making of Global Radicalism, 1860-1914, Los Angeles, London: University of California Press.
  3. Si rimanda agli articoli di Costantino Paonessa pubblicati su A416 e A405.
  4. Ramnath, M., 2011. Descolonizing Anarchism: An Antiauthoritatian History of India's Liberation Struggle, Edinburgh: AK Press - Institute for Anarchist Studies.
  5. https://budourhassan.wordpress.com/2013/07/24/the-colour-brown-de-colonising-anarchism-and-challenging-white-hegemony/.


3. Anarchici: razzisti e orientalisti? Qualche precisazione...

Ho letto con molta attenzione le osservazioni che sono state rivolte al mio articolo E se ad essere razzisti e orientalisti sono gli anarchici? da Giorgio Sacchetti, che ringrazio vivamente per osservazioni e valutazioni. Vorrei, tuttavia, approfittare dello spazio concessomi da A per fare alcune brevi precisazioni.
Comincio subito con l'espressione “presunti anarchici” da me utilizzata e ripresa tra virgolette dal collega Sacchetti. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di un giudizio di merito personale ma di una semplice constatazione legata allo studio dei fascicoli dell'epoca prodotti dai consolati italiani in Egitto e schedati col nome “anarchici”. Gran parte dei nomi che vi figurano corrispondono a delle persone sospettate di anarchismo, su cui la polizia fa delle indagini, ma che nulla hanno a che fare con il movimento.
Quanto alla questione metodologica di “isolare un solo tema nella ricerca” e alla mancanza di contestualizzazione di quello che scrivo vorrei rispondere citando un esempio. Scrive Bettini nei suoi Appunti per una storia dell'anarchismo italiano in Egitto: “certamente scarsa, se non nulla, fu in ogni modo l'influenza esercitata dal movimento sul proletariato indigeno, anche se non mancò, specialmente in alcuni periodi, qualche serio tentativo di avviare un rapporto dialettico con la classe operaia locale. La violenta opposizione degli individualisti a questo genere di iniziative e, d'altro lato, la mancata diffidenza della popolazione arabofona, per ogni genere di prodotto anche culturale d'importazione europea, contribuirono a vanificare ogni sforzo di pene”.
Ora, a prescindere dal giudizio erroneo (in parte pregiudiziale?!) sull'operato della corrente individualista, possibilmente dettato dalla natura delle fonti a disposizione dell'autore, è la seconda parte della frase ad essere particolarmente significativa in questo dibattito. Bettini, infatti, si limita a colpevolizzare la “diffidenza” della popolazione locale senza analizzarne le cause.
L'Egitto in cui operano gli anarchici italiani era, all'epoca, un protettorato britannico, la cui marina non aveva esitato a bombardare Alessandria nel 1882. Ben quindici comunità occidentali/cristiane, compresa quella italiana, godevano del sistema delle capitolazioni che rendeva i loro membri degli “intoccabili” agli occhi della popolazione locale. Per non parlare di lavoratori e lavoratrici autoctone che recepivano salari molto più bassi e godevano di molti meno diritti dei/delle loro pari europei/e.
D'altronde è sufficiente leggere gli scritti di Enrico Pea, l'anarcoide fondatore della Baracca Rossa, per avere un'idea del razzismo europeo nell'Egitto dell'epoca.
Nei mio precedente intervento ho cercato di mettere in evidenza come proprio nel contesto coloniale del tempo, gli anarchici italiani impegnati nel loro intento missionario di esportazione dell' «Idea», furono di fatto incapaci di valutare le differenti dimensioni dell'oppressione e delle ineguaglianze, compresa quella di classe, che ne facevano degli oppressori agli occhi della popolazione locale. Il che è sicuramente alla base del fallimento cui accenna – per la verità anche in questo caso molto drastico - anche Bettini (così come poco più tardi – repressione wafdista a parte – fallirono anche il partito socialista e quello comunista).
Naturalmente non si tratta di screditare l'eccezionale lavoro svolto dagli anarchici italiani, greci e di altre nazionalità, né l'importanza dei loro tentativi di generare forme di cooperazione tra lavoratori stranieri e autoctoni. Si vuole solo evidenziare come le analisi, le opinioni, i giudizi sulle genti e sul luogo in cui gli anarchici italiani si trovavano a vivere, lavorare e militare, soffrirono molto della prospettiva eurocentrica, razzista e orientalista dell'epoca.
Dopo di che, di fronte a definizioni dell' «indigeno» come inattivo, apatico, indifferente, incivile, inferiore, rude, ignorante e così via dicendo; o dichiarazioni del tipo: «la classe operaia egiziana, [...] o ancora per il clima o i costumi orientali, è rimasta costantemente e ostinatamente lontana dagli anarchici»1, non si tratta di isolare un tema, né di pensare che l'anarchismo sia “un'isola felice”, quanto di ragionare sulle cause e conseguenze di discorsi creati solo in funzione delle rappresentazioni e valutazioni. Il che da un punto di vista più prettamente militante spinge a riflettere su quanto l'eurocentrismo di taluni militanti abbia impedito (impedisca) di comprendere le realtà dei soggetti e delle lotte a cui si esprime solidarietà, o si rivolgono critiche. E questo, evidentemente, è un grave problema con cui continuiamo a convivere nella quotidianità.

Costantino Paonessa

1. «Il libertario», Anno III, n. 102, 14 settembre 1905



4. Approccio storiografico transnazionale e dibattito “anarchici – orientalismo”

Esprimo prima di tutto il mio compiacimento per questa dotta tavola rotonda planetaria tra studiosi che operano in realtà ambientali parecchio diversificate; occasioni così capitano molto di rado e bisogna per questo ringraziare la nostra bella Rivista.
Sui temi sostanziali che sono poi stati toccati, ossia il famoso approccio storiografico transnazionale e l'orientalismo vero o presunto degli anarchici, aggiungerò soltanto una breve chiosa a quanto già scritto. Prima però, mi piace segnalare il recentissimo lavoro di Lucia Carminati – giovane PhD alla University of Arizona – dedicato proprio al nostro tema.
Il saggio, reperibile facilmente in rete e forse non ancora noto ai più, si intitola: Alexandria, 1898: Nodes, Networks, and Scales in Nineteenth-Century Egypt and the Mediterranean, ed è stato pubblicato in «Comparative Studies in Society and History» (Volume 59, Issue 1 January 2017, pp. 127-153). Si tratta di un'ottima ricerca che risponde, a mio avviso, all'esigenza di bilanciare sul piano euristico le dimensioni micro e macro. “Ho utilizzato – chiarisce l'autrice – il caso degli anarchici di Alessandria d'Egitto a fine Ottocento per dimostrare come si possa impiegare il concetto di scala per evidenziare le interazioni che si rilevano in particolari processi e nei differenti spazi”.
Ma veniamo a noi. Pietro accenna al fatto che ultimamente molti lavori scientifici innovativi di storia dell'anarchismo, in genere redatti da ricercatori anglofoni, stentino a “uscire dai ristretti circoli accademici”. È vero, ed è soprattutto una questione di comunicazione, ma ci vuole pazienza e costanza, e soprattutto è necessario analizzare e comprendere le situazioni ambientali in cui operano gli altri.
Tanto per fare un esempio: in Italia si è a suo tempo presentato un problema esattamente opposto per gli studiosi della mia generazione, ossia quello di far “entrare” la nostra valida e copiosa produzione scientifica nei circuiti virtuosi (o almeno ritenuti tali). Abbiamo dovuto insomma affrontare – per decenni – un'ostilità ingiustificata da parte di alcuni settori ben individuati del mondo universitario, con discriminazioni indicibili: un increscioso e non privo di conseguenze “caso italiano”, che non ha avuto eguali altrove.
Questo non ci ha impedito certo di lavorare tanto e bene, ma sicuramente c'è stato un imperdonabile ritardo a connettersi con bravi colleghi attivi in altri paesi e continenti.
Grazie poi a Laura per averci qui fornito i punti essenziali e i risultati della sua pregevole ricerca. Su questi aspetti così “delicati” e controversi, la cui sola enunciazione è talvolta considerata fastidiosa e inopportuna nel milieu militante, valgano i principi della libera, onesta e laica ricerca scientifica, attenta a valutare sempre e comunque le risultanze storiche, senza letture moralistiche retrospettive. E a parer mio: ben vengano gli “scandali”.
Del resto gli studi di settore dedicati agli anarchici, visti ogni volta sotto qualche prisma particolarmente contraddittorio, hanno fin qui dato esiti molto interessanti. Si pensi al lontano tema degli interventisti nella prima guerra mondiale, oppure alla questione di genere e alle incongruenze maschiliste in campo libertario; si pensi al nesso anarchia-violenza su cui si è appena iniziato a discutere, complice anche il sottoscritto, in ambito accademico... Non vedo perché non dovrebbe essere la stessa cosa per l'orientalismo.
Grazie infine a Costantino per avermi dedicato la citazione di Leonardo Bettini, che però conoscevo già.

Giorgio Sacchetti






I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Claudio Grigolo (Torricella – Svizzera) 800,00; Daniele Frattini (San Vittore Olona – Mi) 10,00; Giovanni Canonica (Barolo – Cn) 10,00; Pietro Steffenoni (Lodi) 20,00; Marco Paglietti (Cagliari) 10,00; Albino Trucano (Borgiallo – Torino) 15,00; Michele Morrone (Rimini) 10,00; Alfredo Simone (Genova) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Matilde Bassani e Ulisse Finzi, 500,00; Diego Fiorani (Concesio – Bs) 10,00; Federico Maio (Codroipo – Ud) 10,00; Francesca Barca (Parigi – Francia) per una copia pdf, 5,00; Angelo Roveda (Ospiate di Bollate – Mi) 50,00. Totale € 1.460,00.

Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo anche le quote eccedenti il normale costo dell'abbonamento. Per esempio, chi ci manda € 50,00 per un abbonamento normale in Italia (che costa € 40,00) vede registrata tra le sottoscrizioni la somma di € 10,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo di cento euro). Gianpiero Bottinelli (Massagno – Svizzera); Renzo Bresciani (Campi Bisenzio – Fi); Pietro Steffenoni (Lodi); Fabrizia Golinelli (Carpi – Mo); Gianluigi Tartaull (Ravenna); Valeria Nonni (Ravenna); Angelo Carlucci (Taranto); Alessandro Marutti (Cologno Monzese – Mi); Antonio Pedone (Perugia); Giuseppe Rinaldi (Barolo – Cn). Totale € 1.000,00.