Rivista Anarchica Online






Giornalismi

Non ho ancora capito in che momento la parola “giornalismo” si è dissociata in modo definitivo dalla nozione di “rispetto fatti”. Deve essere successo, nei vari paesi, in momenti diversi. E temo anche che vi sia stato su questo processo un impatto determinante delle nuove tecnologie, quei mirabolanti strumenti che hanno mille utilizzi decisamente utili ma anche alcuni effetti collaterali dei quali sarebbe bene tener conto, tipo dare a chiunque la sensazione di tenere in pugno il mondo e di aver capito tutto. È una comprensione, s'intende, che prescinde da qualunque coinvolgimento, che azzera qualsiasi rischio e che al meglio determina rassicuranti certezze, conseguite senza muovere il sedere dalla sedia. Si può diventare giornalisti in un nanosecondo, aprendo un blog e aggirandosi sui social, e dimostrando in via definitiva che per farsi strada nel mondo dell'informazione non occorre formazione e neanche cultura. Nemmeno memoria, e neppure curiosità. È quasi meglio se sei scemo, perché, come diceva Eco a proposito di Mike Buongiorno, un personaggio famoso più scemo di te è per definizione il tuo idolo, perché attribuisce a te il ruolo di genio. C'è una speranza per tutti.

Tre progetti

Sono stata per un po' in una cosa che si chiamava Comitato di indirizzo di una scuola di giornalismo piuttosto accreditata. Non mi è chiarissimo come io ci sia finita, ma già che c'ero, mescolata a professori di prestigio e giornalisti di grido, ho cercato di rendermi utile. Tra le altre cose (inutili), ci si aspettava che proponessimo agli studenti alcune master class utili alla loro formazione. Perciò mi son messa di buzzo buono e proposto tre progetti: il primo sul giornalismo e i fatti, il secondo sul giornalismo culturale e il terzo sul giornalismo letterario. Sono stati respinti tutti e tre i progetti, perché “la cultura non tira”. Nel tempo che ho passato a far parte di questa prestigiosa équipe, si è parlato soprattutto di sport e di politica (no, non di politica in senso stretto, che sarebbe stato molto bello, ma di copertura giornalistica di una campagna politica).
Forse le cose sono cambiate da allora, e forse io son stata parte di questa avventura in un momento sfortunato, anche se le trasmissioni RAI e MEDIASET di prima serata mi pare che confermino la mia percezione di giornalismo oggi. Mio padre, che appartiene a una generazione ancora capace di attribuire autorità a quello che viene detto in televisione, sostiene che non è vero che si parli solo di sport: c'è anche Belpietro che parla di migranti che ci rubano le donne e il lavoro e il TG che parla dell'inseguimento all'imprendibile serial killer serbo che si aggira nelle campagne di Budrio. Avrà ragione anche lui.
Però un tempo c'erano i fratelli Capa, e io non capisco che fine abbia fatto la loro eredità oggi. Capisco bene, tuttavia, le conseguenze del progressivo deteriorarsi dell'indagine giornalistica.


Qualche ipotesi

In un film ingiustamente poco conosciuto, Spy Game (T. Scott, 2001), compare un'intuizione interessante e probabilmente fondata: i servizi segreti americani organizzano e armano una fantomatica banda di terroristi islamici, commissionando attentati che devono servire a far montare la tensione tra certi paesi. Una volta addestrati e dotati dei mezzi necessari, però, i terroristi in questione decidono di apportare qualche trascurabile modifica al piano concordato, moltiplicando arbitrariamente il numero delle vittime occidentali previsto.
Ora, nessuna notizia di questo tipo è stata mai data dai giornali. E tuttavia questo non mi ha impedito di tornare con la mente a quel film mentre ascoltavo le dichiarazioni di Assad sull'accusa che gli è stata rivolta dall'occidente in relazione al presunto uso di armi chimiche: nel discorso Assad dice esplicitamente che l'accusa è finalizzata a far salire la tensione, e non corrisponde a un fatto reale. Essa è, in altri termini, una strategia sostenuta da una precisa campagna mediatica. Non avremo mai accesso alla verità. Conosciamo alcuni fatti, il numero dei morti, per lo più bambini, la tipologia di lesioni, il danno che è stato prodotto, la lacerazione provocata in una città come Aleppo, la cui storia è inevitabilmente spezzata, anche se poco o nulla ne sappiamo e sapremo.
Alla fine, la domanda è: a chi spetta il compito di documentare queste storie? Chi ha lasciato che esse venissero affidate ad altri, cavalieri solitari e coraggiosi, che non hanno saputo evitare di impegnarsi? Chi ha permesso che Rachel Corrie, Giulio Regeni, Gabriele del Grande e gli altri fossero lasciati da soli?
Io non so rispondere, ma qualche ipotesi la avrei.

Nicoletta Vallorani