Rivista Anarchica Online





Progetto e risultato
dalla libertà dell'estetico
ai vincoli dell'etico


1.
Narra la storia dell'arte fotografica che, nel 1991, in occasione del suo ottantesimo compleanno, Brett Weston (1911–1993) abbia fatto un bel falò di tutti i suoi negativi, “mandando in fumo”, dal punto di vista di qualcuno, “una vita di lavoro”. Anche Anselm Adams (1902–1984) – altro famoso fotografo – tentò di distruggere i propri negativi, ma, a quanto narra ancora la storia dell'arte fotografica, dopo le prime vittime, “quasi in lacrime”, rinunciò all'impresa. A quanto sembra, invece, un altro famoso fotografo come Henri Cartier Bresson (1908–2004) non si è mai posto il problema negli stessi termini concedendo ai suoi assistenti di utilizzare i suoi negativi più volte. Weston sosteneva che “le stampe, non i negativi” fossero la “posterità” e che nessuno avrebbe dovuto – né potuto – stampare le sue fotografie, perché il suo non era né “giornalismo fotografico” né “ritrattiamo commerciale”, ma “lavoro personale”. Senza la sua presenza in camera oscura – senza le sue operazioni –, insomma, il prodotto finale non sarebbe stato lo stesso. Diciamo che sono i rappresentanti di due modi di guardare al proprio lavoro e di considerarne il risultato.

2.
Quando inizio un mio qualsiasi lavoro – per esempio, un saggettino come questo – so perfettamente dove andrò a parare. Se no, non inizio. Per me è questione di rispetto per il lettore: se sento l'esigenza di dirgli qualcosa è perché so che cosa devo dirgli e perché sento indispensabile – più per lui che per me – dirglielo. In caso contrario non vedo perché dovrei fargli perdere del tempo o deluderlo, promettendogli qualcosa che, poi, si rivela poca cosa: nessuna informazione, nessun problema su cui riflettere, aria fritta. È vero che, a volte, mentre sto scrivendo mi capita di porre una relazione cui non avevo ancora pensato e, dunque, di scrivere anche qualcosa che non avevo previsto, ma ciò può avvenire comunque – magari sotto forma di digressione, di arricchimento – solo nell'ambito di un programma già impostato e rispettato. Qualsiasi cosa si dica, peraltro, se vuole ambire all'attenzione altrui, necessita di una struttura narrativa – e questa o ha una sua logica o ha ben poche probabilità di gratificare entrambi i poli del rapporto in atto, ovvero l'autore e il suo lettore.

3.
Pavone e rampicante di quell'Antonia Susan Byatt che mi ha dato tanto nel corso delle nostre rispettive vite (dalla quadrilogia de La vergine nel giardino, Natura morta, La torre di Babele e Una donna che fischia allo stupendo Libro dei bambini) è dedicato a due straordinari artisti come William Morris (1834–1896) e come Mariano Fortuny (1871–1949). Il primo lo conoscevo come socialista dalle idee chiare in fatto di “commercio capitalista” e di rapporti tra arte e mercato, ma il secondo non lo conoscevo affatto. A Morris, la cui amatissima moglie ebbe la disgrazia di innamorarsi di Dante Gabriele Rossetti, la vita non lesinò pene e amarezze senza peraltro che il suo entusiasmo mai venisse meno; a Fortuny, discendente da una famiglia di artisti ma agiata – unico artista contemporaneo ad essere citato nella Recherche du temps perdue di Proust –, andò meglio. Entrambi inventarono e realizzarono tessuti. Tuttora, se non vado errato, vengono prodotte tappezzerie e stoffe disegnate da Morris, gli abiti di Fortuny stanno nei musei, i suoi velluti vengono imitati dagli stilisti e la sua sciarpa Knossos – quella che, finendone un lembo nel mozzo di una ruota di automobile scoperta, strangolò Isadora Duncan – si è ritagliata un posto di rilievo nella storia dell'abbigliamento.
Qualcosa li accomunava – a detta della Byatt – e ne giustificava l'associazione in un libro di rara eleganza testuale e tipografica: entrambi “avevano reso il luogo dove vivevano identico al luogo in cui lavoravano. Entrambi si sporcavano le mani, con le tinture e le plissettature, con i blocchi da stampa, cercando procedimenti diversi o migliori. Entrambi hanno inventato colori nuovi e riesumato colori vecchi e abbandonati”; entrambi, infine, “conducevano ricerche appassionate nel loro campo, e possedevano vaste biblioteche, specialistiche e generali”. Troppo poco.

4.
Infatti, alle conclusioni, la Byatt dichiara beatamente che si è “imbarcata” in un saggio senza sapere ciò che avrebbe “scoperto”: “quando ho cominciato questo saggio non sapevo se e in quale misura avrebbe riguardato un altro argomento che mi ossessiona come lettrice e scrittrice. Il lavoro”. È vero, da finissima e acutissima osservatrice qual è – curiosa e solidamente ancorata alla storia –, è vero che ci offre descrizioni estremamente esaurienti di ambienti e manufatti vari – del come vennero ideati, progettati e realizzati –, ma è vero anche che, nello sviluppo della sua narrazione, non “scopre” alcunché. Il che, a mio avviso, costituisce una sorta di tradimento. Mi manca una tesi, mi manca quella tensione politica che, facendo scaturire tutto il suo potenziale critico nei confronti di persone e relativi ambiti della loro socialità, fonda ogni sua narrazione. Come se, nei panni della saggista, la Byatt perdesse la lucida radicalità che caratterizza l'architettura della sua narrativa.

5.
Però però. Weston valorizza come suo risultato soltanto ciò che è manipolato da lui stesso – scatto, camera oscura, sviluppo e stampa – può sacrificare tutta la prima serie di operazioni e salvare soltanto l'ultima; Cartier Bresson si ferma prima – allo scatto; la Byatt valorizza il suo “grande piacere sensuale” che ha ricavato dal suo progetto di associare Morris e Fortuny e dei loro tessuti può dire che non si stanca di “tornare a guardarli”. E ciò le basta – ed è forse ingiusto che io mi ribelli a che ciò le basti. Io mi sento vincolato ad un progetto che, di principio, deve contenere – e saper offrire – una tesi, ma, temo così facendo di sconfinare in un'esigenza di ordine etico. In ogni gesto artistico – artistico, ci tengo a sottolinearlo anche nel mio caso –, c'è, insomma, la libertà di sottrarne o mantenerne le varie fasi. Forse è questo che, pur nell'omissione di un approfondimento sul proprio lavoro, resta implicito nell'ossessiva attenzione della Byatt per quello altrui.

Felice Accame

Nota
Per l'atteggiamento dei famosi fotografi nei confronti del loro prodotto, cfr. Donald F. McKenzie, Il passato è il prologo, Edizioni Silvestre Bonnard, Milano 2002, pag. 36 (dove Weston, peraltro, è citato come Western). Per le tesi di Morris, cfr. W. Morris, Arte e socialismo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2015). Pavone e rampicante di Antonia S. Byatt è pubblicato da Einaudi (Torino 2017). Alla Byatt ed a sua sorella Margaret Drabble, altra scrittrice, ho dedicato Parentela, indici e indizi genealogici (ebook, Odradek, Roma 2016).