Rivista Anarchica Online


violenza di Stato

Il fine della tortura? La tortura

di Daniela Mallardi


Nell'allucinante cronaca dei numerosi “omicidi di stato”, emerge una volontà di colpire, umiliare e distruggere gli individui, i “diversi”.
Una psicologa richiama l'attenzione su aspetti meno trattati della violenza statale.


La tragedia che ha colpito Cucchi - e altri prima di lui (si pensi al caso Aldrovandi o al caso Uva) - apre la strada all'orrore per cui si può morire senza avere la dignità di un riconoscimento di responsabilità da parte dello Stato. Il governo italiano si è rivelato spesso incapace di gestire i propri responsabili, fenomeno non lontano a quanto accaduto all'insegnante Mastrogiovanni, legato per 87 ore ad un letto a Vallo della Lucania. Oggi è più che mai necessario animare il dibattito sull'introduzione di uno specifico reato di tortura affinché non accadano più episodi di violazione dei diritti umani.
Il 6 aprile 2017 il governo italiano ha riconosciuto a Strasburgo, di fronte alla Corte Europea dei Diritti umani, la propria responsabilità per quanto accaduto a Bolzaneto tra il 20 e il 21 luglio 2001. Sono ormai sedici gli anni trascorsi dal G8 di Genova, ai margini del quale, nella caserma Nino Bixio, furono portati circa duecento manifestanti che subirono violenze senza soluzione di continuità da parte del gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Calci, sgambetti, colpi, ingiurie, offese, ritornelli d'ispirazione fascista. Sono queste solo alcune delle testimonianze dei 65 cittadini, italiani e stranieri, che si sono rivolti alla Corte di Strasburgo per vedere riconosciuta la propria violazione dei diritti. Tuttavia, solo con sei delle vittime complessive è stata firmata una risoluzione in base alla quale il governo italiano si impegna a colmare la lacuna legislativa, a predisporre corsi di formazione “sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell'ordine” e risarcire ciascuna vittima con “45mila euro per danni morali e materiali e per le spese processuali”.
L'Italia ha raggiunto dunque un patteggiamento, né più né meno che un “accordo amichevole”.
Come leggere, allora, questa vicenda? Senza dubbio quanto avvenuto a Strasburgo rappresenta un passo in avanti nel riconoscimento delle responsabilità del governo italiano ma se quest'ultimo non si impegna dinanzi ai giudici ad inserire una legge specifica sul reato di tortura, allora la vergogna cresce e il rischio è che di “amichevole” rimane solo un patto di forma. Nel nostro ordinamento non c'è un reato che abbracci tutti insieme i singoli comportamenti qualificabili come tortura, e allora, oggi i Pm possono solo “parcellizzare” i singoli reati, che però non danno l'idea di cosa sia davvero la tortura. E a dirlo è il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati, che ha condotto l'inchiesta sulle violenze alla caserma di Bolzaneto insieme con la collega Patrizia Petruzziello.
Una pratica della tortura accompagnata da giustificazioni pubbliche rinnova così lo scandalo della mancata introduzione del delitto di tortura, in aperta violazione dell'art. 13, 4° comma Cost. (“È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”) e degli impegni internazionali assunti dal nostro Paese già con la ratifica nel 1988 della Convenzione sulla tortura1.

Cucchi, Aldrovandi, ecc. ecc.

Da Strasburgo spostiamoci a Roma, nel cuore di una Garbatella libertaria. È il 24 marzo, due settimane circa prima della sentenza della Corte Europea. Presso Casetta Rossa, davanti a una manciata di persone, viene presentato da Carlo Bonini, firma di “Repubblica” e già autore di “Acab” e “Suburra” (con Giancarlo De Cataldo), il suo ultimo libro Il corpo del reato (Feltrinelli, 2016).
Attraverso la lettura degli atti giudiziari, delle perizie medico-legali e il racconto dei familiari, Bonini ricostruisce passo per passo la vicenda di Stefano Cucchi, trentenne romano, in quell'arco di tempo che va dalla sua custodia cautelare presso il carcere di Regina Coeli al suo accertamento di decesso presso l'Ospedale Pertini. In una sola settimana di ottobre del 2009 si consumava una storia che sarebbe entrata di diritto nella cronaca italiana come memoria di travaglio giudiziario senza apparenti colpevoli. Dopo un primo tentativo di liquidarne la morte in modo piuttosto sbrigativo, la storia di Stefano ha invece trovato la sua veridicità grazie alla tenacia della sorella Ilaria e alla caparbietà dell'avvocato Fabio Anselmi.
Ad oggi sappiamo che i tre carabinieri che lo tennero in stato d'arresto con schiaffi, pugni e calci, lo fecero cadere, procurandogli lesioni divenute mortali per una successiva condotta omissiva da parte dei medici curanti. Che Stefano avesse dei problemi era diventata la giustificazione da parte di uno Stato assente per cui si pensava che un drogato in fondo la morte se la fosse cercata e se la fosse pure meritata. A dirlo l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi che a Radio 24, intervistato a meno di un mese dalla morte di Cucchi, disse che se aveva fatto quella fine era perché “anoressico, drogato e sieropositivo”. Insomma la morte di un tossico vale meno di un'altra morte, come se ci siano - da sempre - morti di serie A e morti di serie B. Bonini, nel suo taglio d'inchiesta civile, offre così una riflessione ampia di una vicenda simbolo, rinnovando la questione aperta dalla Corte di Strasburgo: l'indegnità della morte davanti all'impunità di Stato.
Quella di Stefano Cucchi non è l'unica storia nel nostro Paese che porta caratteristiche così dolorosamente faticose per la giustizia. Si pensi a Federico Aldrovandi, morto nel ferrarese a soli 17 anni. Era il 2005 quando Federico, al ritorno da una festa, veniva fermato da una pattuglia per non fare più ritorno a casa. Nemmeno di lui si comprese inizialmente il motivo per cui il corpo, prono sull'asfalto, fu trovato ammanettato in una pozza di sangue salvo poi osservare, anni dopo, la condanna, confermata dalla Cassazione, per i quattro poliziotti che lo fermarono e ne provocarono la morte per “eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi”. Il torace di Federico era stato infatti schiacciato dalle ginocchia dei poliziotti e al ragazzo gli era mancata l'aria e si era spezzato a furia di essere strattonato a testa in giù. Anche di Aldrovandi però si disse che fosse morto per quantitativi di sostanze stupefacenti rilevati dall'autopsia (eroina e ketamina) che alla lente dell'esame medico risultarono modesti e comunque non sufficienti per determinarne il decesso.
Emergerebbe così una fragilità dello Stato di diritto e una piena incapacità dello stesso di fare i conti con gli oneri dei propri funzionari. Si affaccia così il pericolo che noi stessi corriamo nel finire tra le mani di chi indossa la divisa o il camice bianco, di chi dovrebbe garantire la nostra sicurezza o dovrebbe tutelare la nostra salute.
È la violenza del potere che si incontra anche nella psichiatria dove a essere “torturatore” non è il poliziotto ma il medico o l'infermiere, nella stessa posizione di “operatore pubblico”. Succedeva così che nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Circolo, moriva il 14 giugno del 2008 Giuseppe Uva, la mattina dopo il suo fermo. Anche qui non si capì bene quale fosse stato l'inciampo, perché Uva dalle mani della polizia passò a quelle dei medici dell'ospedale che ne disposero il trattamento sanitario obbligatorio. La sorella Lucia, al momento dell'identificazione, trovò il corpo segnato da ampie strisce viola come se fosse stato colpito su più parti con violenza. Anche i testicoli apparivano tumefatti. “Stress derivante dalla costrizione e privazione della libertà personale” - per la Procura generale di Milano furono queste le cause della morte di Giuseppe, nell'impugnazione in appello della sentenza con cui i giudici della Corte d'assise di Varese avevano assolto i carabinieri e i poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Un “clochard sporco e puzzolente” – così lo aveva definito senza troppa eleganza l'avvocato Luciano Di Pardo, del collegio difensivo delle forze dell'ordine imputate.

Carne di stato

Nell'agosto dell'anno successivo alla morte di Uva, accadeva che Francesco Mastrogiovanni, maestro anarchico, venisse lasciato nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania per 87 ore legato per i polsi e le caviglie come un cristo in croce. Nel mentre, una telecamera h24 riprendeva tutto. Quel video d'orrore diventò così l'occhio lucido della testimonianza2. In questo reparto, Francesco di cura non ne ebbe nessuna e l'unico servizio di cui potè godere non fu quello psichiatrico bensì quello di tortura, con un trattamento da carcassa per un corpo ancora in vita.
La sentenza di Mastrogiovanni che ha visto la Corte di appello di Salerno condannare i sei medici e gli undici infermieri (questi ultimi assolti in primo grado) per sequestro di persona e per altri reati verte proprio in relazione alla contenzione fisica, ai suoi rapporti con il diritto costituzionale, con il diritto penale e con la deontologia medica e infermieristica, così come in fondo la storia di Cucchi, Aldrovandi e Uva che si sono trovati ad interfacciarsi con i loro “custodi” che in quel momento anziché esercitare un ruolo, hanno applicato la barbarie con la contenzione ora fatta di percosse ora fatta di fasce. Il caso di Mastrogiovanni, poi, è stato evocativo su quanto la contenzione meccanica sia strumento non solo violentissimo ma anche crudelmente illegale, aspetto - questo - che non è stato sancito dalla sentenza secondo la quale per i medici, rispetto alle condanne di primo grado, sono state ridotte le pene e revocata l'interdizione dai pubblici uffici. In poche parole questi signori continuano tutti a lavorare.
Allora la domanda che ci si può porre è “cosa accade in chi tortura questa gente che si trova in un certo momento in uno stato di particolare fragilità?” Difficile dirlo. Di solito, il buon senso vorrebbe che proprio dove c'è la fragilità si dovrebbe assumere una posizione di ascolto, di spazio, di possibilità, di profonda umanità. E invece no, I soggetti in questione, coloro che hanno pestato, contenuto e finanche ucciso l'hanno fatto non solo come soggetti civili, rispondendo ad una propria azione personale, ma anche come soggetti identificati nella loro funzione di Stato. Sono una cosa unica: lo Stato incarnato in loro e loro carne di Stato. Una sorta di dimensione in cui si è singoli ma collettivi allo stesso tempo. Con questo non voglio assolutamente intendere che tutte le forze dell'ordine e tutti gli psichiatri e/o infermieri siano dei torturatori e dei maltrattanti, ma può accadere che tra alcuni di loro ci sia una sorta di godimento sadico. Non sono d'accordo del tutto con Hannah Arendt, quando giudicò tutta la vicenda nazista nei termini di banalità del male. Aveva sì ragione nel dire che per molti perpetratori l'obbedienza rendeva normale lo sterminio, tuttavia molti di loro godevano di questa posizione. I perversi non sono folli, sono invece in grado di intendere e di volere se volessimo scomodare l'asse di valutazione giuridica per eccellenza.

Godimento di pura violenza?

Nelle democrazie contemporanee, in nome della sicurezza e della prevenzione, la perversione può intendersi come quell'insieme di meccanismi messi in atto di esercizio di sorveglianza che pretende di controllare attraverso la violenza. Ciò che colpisce nelle storie di Stefano, Federico, Giuseppe e Francesco è quanto l'autorità che hanno incontrato - nella sua natura abusante - sia stata un'obbediente macchina d'esecuzione, priva di sensi di colpa, convinta di assolvere ad un compito in nome del quale ogni remora morale è stata spazzata via. Questi “guardiani dell'istituzione” non hanno, di fatti, mai agito da soli, ma sempre assieme, come se stare in gruppo li avesse autorizzati maggiormente ad usare la violenza. Il gruppo è il luogo dove la paura - che di solito è un'adeguata forma di prudenza - viene ad essere anestetizzata e la coscienza etica destinata alla sconfitta.
La perversione di ogni diritto umanitario non è l'applicazione della misura di arresto piuttosto che di Tso, ma l'utilizzo della disposizione e la liceità della stessa che diventa coartata e disumana se tratta un soggetto riducendolo ad un oggetto che non si deve slegare, nutrire, curare, pulire. La violenza realmente vissuta come godimento di pura violenza che si fa padrone di una persona vulnerabile sa “essere grande” nel modo di annientare l'altro che immancabilmente perde. È chiaro che questa violenza - quando viene esercitata da uomini potenti in una certa condizione - non esprime solo l'arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è anche espressione di una angoscia profonda verso ciò che non si può governare (la complessità psichica?), avendo la sensazione di una falsa padronanza della persona che si ha sotto mano.
La tortura nella sua perversione calpesta la dignità dei torturati e dei torturatori corrompendo il giudizio e offendendo il senso di umanità di entrambi nell'impedimento di qualsiasi forma tutelativa di azione politica pacifica. Giulio Itzcovich, Professore di Filosofia del Diritto all'Università di Brescia, ci ricorda quanto la questione della tortura, per il diritto, rappresenti una soglia di non ritorno perché annulla la distinzione fra uso legale della forza e scatenamento di una violenza senza regole; superata tale soglia, lo stato di diritto si riduce a una forma vuota, alla mera burocratizzazione della crudeltà.
Tocca allora non abbandonare la ricerca di verità per i “devianti” come i drogati e i matti, quelli che nessuno vuole, alle volte nemmeno chi ha un mandato di cura. Occorre non stancarsi nel rivendicare la necessità dell'introduzione di uno specifico reato di tortura in Italia, rinnovando nel discorso pubblico la questione dell'illegittimità e dell'intollerabilità di certe morti.
La verità di una morte sta nei suoi lividi, nelle sue cavità offese, nelle sue scarnificazioni. Se da vivo, infatti, può scegliere di non parlare, il corpo ormai morto, invece, è costretto a parlare e a mostrare né più né meno che la sua nuda risposta perché come scrive la poetessa Wislawa Szymborska: “le torture c'erano e ci sono, solo la Terra è più piccola e qualunque cosa accada, è come dietro la porta”3.

Daniela Mallardi


  1. Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 489 del 3 novembre 1988 (Gazzetta Ufficiale n. 271 S.O. del 18 novembre 1988).
  2. La regista Costanza Quatriglio da quelle immagini delle videocamere di sorveglianza dell'ospedale ha dato vita a un film '87 ore - Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni' (documentario, 75 minuti, Italia, 2015).
  3. “Torture” in Elogio dei sogni, Rcs, 2011, pp.144-145.