Rivista Anarchica Online


Voltairine de Cleyre/1

Una poetessa militante

scritti di Voltairine de Cleyre


È da poco uscito per Elèuthera il primo libro in italiano di questa anarchica statunitense, attiva a cavallo tra l'800 e il '900. Contemporanea di Emma Goldman, esercitò una forte influenza sugli anarchici dell'epoca e ancora oggi ha molto da dirci. In questi stralci, Voltairine parla della tradizione americana e del femminismo. Femminismo anarchico, niente a che vedere con quello delle suffragette.

Voltairine de Cleyre (1866-1912)

L'anarchismo e le tradizioni americane

Se l'istruzione pubblica, avendo direttamente a che fare con l'intelletto e lo spirito delle persone, è probabilmente il metodo più adatto ed efficace per poter tracciare il percorso di una nazione, è però il commercio che, avendo a che fare con cose materiali e producendo effetti immediati, ha scardinato per primo le barriere di carta innalzate dalle restrizioni costituzionali, modellando il governo secondo le proprie necessità. In effetti, una volta arrivati al punto in cui siamo, se ripercorriamo questi centoventicinque anni di indipendenza possiamo capire che quella forma minima e semplice di governo concepita dai repubblicani rivoluzionari era destinata a fallire. E lo era per i seguenti motivi: 1. l'essenza stessa del governo; 2. l'essenza stessa della natura umana; 3. l'essenza del commercio e della produzione industriale.
Sull'essenza del governo ho già parlato: esso è un'entità a parte che sviluppa i propri interessi a spese di chi gli si oppone. Qualunque tentativo di renderlo qualcos'altro è destinato a fallire. In questo gli anarchici concordano con i nemici tradizionali della rivoluzione: i monarchici, i federalisti, i più fervidi araldi dello Stato, i Roosevelt di oggi e i John Jay, i Marshall e gli Hamilton di un tempo. (...) La differenza è che mentre i filogovernativi credono che un governo sia tanto auspicabile quanto necessario, noi traiamo invece la conclusione opposta, ovvero nessun governo.
Per quanto riguarda l'essenza della natura umana, ciò che la nostra nazione ha reso ben chiaro è che restare costantemente in uno stato di esaltazione morale non rientra nella natura umana. È successo ciò che è stato profetizzato: dalla Rivoluzione in poi siamo scesi giù a picco, finendo per essere completamente assorti nel «fare soldi a ogni costo». Il desiderio di un'agiatezza materiale ha da tempo seppellito lo spirito del 1776. Di quale spirito parlo? Di quello che animò il popolo della Virginia, del North e South Carolina, del Massachussets, del New York State, dello spirito che li portò a rifiutare di importare merci dall'Inghilterra, preferendo (e attenendosi alla loro decisione) abiti grezzi e tessuti a mano da loro.
Lo spirito che li portò a decidere di bere birra di loro produzione e di appagare il proprio appetito con viveri autoprodotti piuttosto che sottomettersi alla tassazione dell'impero. Persino al tempo dei rivoluzionari questo spirito andò via via affievolendosi: l'amore per l'agiatezza materiale è stato sempre più forte, nella stragrande maggioranza degli uomini e in modo permanente, dell'amore per la libertà. A circa novecentonovantanove donne su mille interessa di più il taglio di un vestito che l'indipendenza del loro sesso, e a circa novecentonovantanove uomini su mille interessa di più bere birra che ragionare sull'imposta che grava su di essa. Quanti bambini sono disposti a barattare la libertà di giocare con la promessa di un nuovo cappellino o di un nuovo vestito? È proprio questo che fa girare il complicato meccanismo della società; è questo che, moltiplicando gli affari gestiti dal governo, ne moltiplica anche la forza e la conseguente debolezza del popolo. È questo che causa indifferenza verso le questioni pubbliche, rendendo così più facile la corruzione. (...)
Per quanto riguarda le nostre comunità, esse sono irrimediabilmente e sconsolatamente dipendenti, proprio come noi esseri umani, salvo quella piccola parte di persone, in costante diminuzione, ancora impegnata in agricoltura, anche se persino loro sono schiavi dei mutui. Tra le nostre città, probabilmente non ne esiste una che resisterebbe una settimana con le proprie forze e nessuna riuscirebbe a evitare la più disperata bancarotta se fosse costretta ad autoprodursi il cibo. In risposta a questa condizione e alla correlata tirannia politica, l'anarchismo sostiene un'economia di autosufficienza, la disintegrazione delle grandi comunità e il riutilizzo della terra.
Non sono pronta ad affermare che certamente questo avverrà, ma mi è ben chiaro che deve avvenire se l'uomo vuole riconquistare la libertà perduta. Sono così convinta che l'umanità preferisca i beni materiali alla libertà, che ho perso la speranza che un giorno, tramite i soli stimoli intellettuali e morali, gli uomini si sbarazzeranno del giogo dell'oppressione cui li ha condannati l'attuale sistema economico, istituendo finalmente società libere.
La mia unica speranza risiede nel cieco e fatale sviluppo del sistema economico e dell'oppressione politica stessa. La caratteristica principale di questo gigantesco potere è la produzione industriale, la tendenza di ogni nazione a diventare sempre più produttiva e a esportare piuttosto che a importare. Se questa tendenza continuerà a seguire una tale logica, farà sì che prima o poi ogni comunità saprà produrre i propri beni. Che ne sarà allora del surplus quando i produttori non avranno più un mercato estero? A quel punto l'umanità dovrà affrontare il dilemma se è preferibile non far niente e perire, oppure confiscare le merci in surplus.
In effetti stiamo già affrontando, almeno parzialmente, questo dilemma. E al momento abbiamo scelto di non far niente e perire. È mia opinione, però, che non sarà sempre così e quando, grazie a un atto di espropriazione generale, gli uomini avranno superato la paura e il rispetto della proprietà, quando avranno superato il timore reverenziale verso il governo, a quel punto forse si ridesteranno e capiranno che le cose vengono prodotte perché soddisfino i nostri bisogni e che gli uomini contano più delle cose che producono. Soltanto questo potrà risvegliare il nostro spirito di libertà.
Se, d'altra parte, la tendenza a semplificare delle moderne invenzioni, che consente di combinare i vantaggi offerti dai macchinari con piccoli gruppi di lavoratori, seguirà fino in fondo la sua logica, allora le grandi industrie di produzione cadranno a pezzi e la popolazione si approprierà dei suoi frammenti; non saranno più le comunità isolate e autosufficienti dei coloni americani, ma assisteremo alla nascita di migliaia di piccole comunità che si svilupperanno lungo le linee di comunicazione e che produrranno soprattutto per soddisfare i propri bisogni, il che consentirà loro di poter contare sulle proprie forze e quindi di essere indipendenti. Poiché le regole che valgono per gli individui valgono anche per le società: quelle che saranno autosufficienti saranno libere.
Riguardo alla disintegrazione della più abietta creazione della tirannia, ovvero l'esercito e la marina militare, è evidente che finché gli uomini desidereranno combattere, ci saranno forze armate in una forma o nell'altra. (...)

“Devono ancora imparare che esiste una lotta comune contro chi si è impadronito
della Terra, dei soldi e delle macchine”. Voltairine de Cleyre

Le porte della libertà

Giovani donne, se qualcuna di voi sta pensando di sposarsi, ricordate che è questo il significato di quel contratto. La vendita del controllo su voi stesse in cambio di «protezione e sostegno».
La cosa più triste è che la maggior parte delle donne pensa che non vi sia alcun male in tutto questo. L'ho sentito pronunciare dalle labbra di ragazze che, inconsapevoli del significato delle loro parole, ammettevano apertamente di volersi vendere all'uomo che avrebbe dato maggiori garanzie sulla sua capacità di alloggiarle, vestirle e proteggerle. Ho sentito ragazze istruite, brillanti, intelligenti, asserire con noncuranza di non aver alcun ruolo nel mondo, se non quello di adornare le vetrine del mercato matrimoniale così che chi viene ad acquistare possa sceglierle. Ho voltato loro le spalle, disgustata dal fatto che queste donne potessero essere soddisfatte di sacrificare così la propria individualità, preferendo (...) «la protezione dell'uomo a una vita indipendente». Ho voltato le spalle piena di disprezzo, per andare tra le lavoratrici economicamente indipendenti e trovare la stessa nauseante storia. Queste ultime di fatto invidiano le sorelle più pigre, convinte che esse ricoprano la vera posizione della donna nubile; e infatti aspettano impazientemente la stessa sorte: il giorno in cui non dovranno più competere nella lotta per la propria indipendenza e il proprio sostentamento, ma saranno sposate, mantenute e protette, generando figli per qualche uomo!
Peggio del parlare a vanvera di queste donne, ci sono soltanto le parole che ho udito pronunciare alle giovani donne sposate, il cui sogno d'amore si è tramutato in cenere in pochi e fugaci mesi. Le ho sentite accettare il carico di tutto quel peso, senza potersi opporre, un peso molto più gravoso di quanto avessero mai potuto sognare, e le ho sentite ammettere con disperazione che «è il fardello della donna. Adesso ho un tetto, sono nutrita, vestita e protetta. Per questo ho ceduto il controllo di me stessa, e se mio marito desidera dei figli, io dovrò darglieli». Una donna sposata da soli cinque anni che aveva già avuto tre figli, una volta mi ha detto: «Quando mio marito mi si avvicina, ho la sensazione che il mio cuore si tramuti in pietra. Ma ritengo di dover fare il mio dovere di moglie». Il suo dovere di moglie! Ma la cosa peggiore l'ho sentita dalle labbra di quelle nonne dai capelli bianchi che hanno ormai vissuto il freddo inverno dell'esistenza sacrificale della donna e che tuttavia ancora ripetono la vecchia bugia, ovvero che il fardello dell'umiliazione, della miseria, del vero e proprio martirio imposto dall'Uomo alla schiava che ospita, veste, nutre e protegge è inevitabile, e che dunque non ci sia altro da fare per la donna se non sopportarlo pazientemente.
È superfluo ripetere le motivazioni e i fragili abbellimenti con cui gli uomini mascherano alla donna la verità sulla propria condizione. (...) Quando coloro che desiderano proteggere la donna hanno finito di addobbare la loro verità in un drappeggio di impareggiabili bugie, ricorrendo ad aggettivi come «superba, pura, eterea, angelica» e avanti così ad nauseam, chi volesse guardare con occhio attento a questa diafana visione di noi stesse (della quale vorrebbero convincerci) potrebbe credere che noi siamo degli angeli, ma angeli calati su un palcoscenico che invece di volare con le proprie ali vengono tirati su con una carrucola. (...)
La giustizia è progressiva! La giustizia di un'epoca non è necessariamente quella dell'epoca successiva. E il fardello che le nostre antenate hanno portato sulle loro spalle non si adatta più alle nostre, anche se, a dire il vero, non si sarebbe dovuto adattare neppure alle loro spalle. Se l'umanità, nel corso del suo sviluppo, ha avuto bisogno di passare attraverso la fase del «cavallo da soma», non c'è motivo di maledirla, ma neanche di dover continuare a tutti i costi su quella linea. Insisto sulla progressività della giustizia, innanzi tutto perché non voglio sembrare una sognatrice metafisica convinta che i «diritti» siano qualcosa di certo, immutabile, indefinito, qualcosa che viene passato da una generazione all'altra come fosse una proprietà lasciata in eredità, qualcosa che si sarebbe palesato misteriosamente nel momento stesso in cui ci siamo evoluti passando dallo stato di primati a quello di umani. Ma non è questa la questione.
Insisto sulla progressività della giustizia proprio perché, per quanto forte possa essere la mia denuncia contro l'ingiustizia attuale, riconosco comunque che quella era la giustizia del passato, la condizione migliore alla quale la mente potesse aspirare a quel tempo: un'ineluttabile Necessità. Infine, mi avvalgo del concetto di giustizia progressiva anche per dimostrare la tesi che sostengo qui, ovvero che la schiavitù della donna, per quanto necessaria potesse essere, non collima più con gli ideali della presente civiltà.
In cosa consiste il progresso della giustizia? La sociologia, analizzando gli uomini nelle varie fasi dello sviluppo sociale, proprio come il naturalista analizza la stratificazione delle rocce o traccia l'evoluzione della flora e della fauna di un territorio, ha tratto dai fatti accuratamente raccolti questa conclusione: il progresso sociale consiste in un ampliamento delle attività e delle necessità individuali, che corrisponde a una riduzione del potere di uno o di pochi sugli altri. In altre parole, la sociologia conferma ciò che il 1793 aveva preannunciato, la scienza applaude alla bandiera rossa della rivolta e fa suo il motto della Rivoluzione: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza.
Gradualmente, una dopo l'altra, varie forme di asservimento come il feudalesimo, lo schiavismo e la monarchia sono scomparse o stanno scomparendo (detto tra noi, credo che il repubblicanesimo le seguirà a ruota). Gradualmente, Dio, il Destino, la Legge, l'Adattamento, o comunque vogliate chiamare questo fenomeno, ha «rovesciato i potenti dai loro troni e ha elevato gli umili». Nel corso del tempo, si è combattuto per conquistare ogni minima porzione di terreno e neppure un pollice ne è stato ceduto, finché coloro che avevano una visione più grande della libertà, che erano capaci di prefigurare gli attuali «diritti», finalmente «osarono affermarli», e attraverso grandi lotte si elevarono verso la dignità di un'esistenza più alta. E noi che oggi rivendichiamo l'abolizione della schiavitù della donna, è proprio da queste battaglie che traiamo la nostra ispirazione.
Ma è solo se teniamo ben presente nella memoria che prima dell'avvento di un «nuovo ordine» le nostre voci dovranno gridare nel deserto e gli uccelli sbattere le ali ferite nel turbine della tempesta. È solo se intraprendiamo il nostro compito con la certezza di essere animate dalla «potenza del dovere interiore», che tutte le altre donne ci seguiranno. È solo se ci rendiamo conto della vastità del genere umano, della nobiltà del nuovo ideale, della scarsa rilevanza del «sé», che potremo mettere da parte la sofferenza che comporta questo tentativo di risvegliare le anime assopite, riconoscere finalmente i propri diritti e osare affermarli.
Per tornare all'applicazione della deduzione sociologica prima citata, noi asseriamo che, se il progresso sociale consiste in una costante tendenza verso l'equiparazione delle libertà tra le varie parti sociali, allora le rivendicazioni del progresso non saranno soddisfatte finché una metà della società, in questo caso le donne, resterà schiava. Se gli uomini possono godere di tutti i loro «diritti», e persino di alcuni dei nostri, ciò che ne risulta non è certo uguaglianza, ma privilegio e furto. La vecchia idea di giustizia deve fare spazio a una nuova idea, poiché la donna, sebbene la sua coscienza sia appena emersa, sta iniziando a percepire di essere schiava, di dover ottenere un necessario riconoscimento da parte dei suoi padroni prima che l'uomo venga deposto e lei possa elevarsi verso l'uguaglianza. Questo riconoscimento si chiama: la libertà di avere il controllo su se stessa.
Non esisterà alcuna società libera, giusta o equa, né nulla di vagamente simile, finché la donna verrà comprata, venduta, alloggiata, vestita, nutrita e protetta come fosse una proprietà altrui.
Noi risvegliate dalle prime luci del domani, noi che non siamo più prigioniere del torpido sonno di chi si accontenta, vogliamo mostrarvi le nostre sorelle esauste mentre si trascinano senza sosta, settimana dopo settimana, mese dopo mese, per anni interi, alzandosi presto ogni mattina per adempiere ogni giorno, tutto il giorno, ai loro estenuanti e meschini doveri, spesso rubando ore di sonno alla notte per poter finire quei compiti il cui valore non può essere calcolato, perché è uguale a zero. Vogliamo mostrarvi una di queste donne quando la notte, finalmente con le mani in mano, sta seduta da sola di fianco al camino, dopo una lunga e faticosa giornata fatta di piccole torture; e sta lì con l'anima dolorante come lo sarebbe un corpo infilzato da mille aculei; lì nel silenzio mentre cerca di imparare qualcosa, non dal marito che è alla locanda, ma da se stessa, dalla sua povera anima negletta, da quella fragile crisalide che si agita debolmente in lei.
Cerca di comprendere se è un equo compromesso, una cosa giusta e virtuosa, cedere il proprio lavoro per tutti questi anni, mettendo da parte i suoi desideri, e aspettare, aspettare, aspettare finché, dopo un così lungo diniego, le ambizioni muoiono e lei non è altro che un docile blocco d'argilla cui è stata conferita la mostruosa capacità di rassegnarsi alla disperazione. E rimane seduta lì, alla luce del fuoco, in attesa che un'altra pena dello spirito le strisci addosso proprio come il tempo striscia addosso all'eternità. In attesa del momento in cui il marito l'avrà così tanto superata intellettualmente che finirà per compatirla. Buon Dio! Sì, la compatirà, ma allo stesso tempo, trovandola così «intellettualmente inferiore», la sua compagnia lo infastidirà. Rimane dunque seduta lì, con il suo sordo dolore, mentre dentro di sé si sente morire dissanguata, e si chiede: «È forse giustizia questa? È forse uguaglianza?».

Voltairine de Cleyre, Un'anarchica americana (a cura di
Lorenzo Molfese, Elèuthera, Milano, 2017, pp. 184, € 15,00)

La questione della donna

Una parte degli anarchici nega che ci sia una «questione femminile», ma questa affermazione è principalmente fatta da uomini e, si sa, gli uomini non sono certo le persone più adatte a comprendere la schiavitù della donna. Gli scienziati sostengono che le funzioni essenziali della società siano meglio espletate dagli uomini, mentre le funzioni riproduttive spettano alla donna, che deve anche procurarsi il cibo all'esterno della casa e occuparsi dell'educazione dei figli all'interno della casa; se perciò la donna dovesse entrare nella cosiddetta arena industriale, perderebbe necessariamente i suoi tratti più distintivi. Eppure all'interno della classe operaia non è così: non solo le donne lavorano duramente per svolgere i doveri domestici, ma molto spesso prendono lavori di cucito da fare in casa oppure vanno fuori per fare il bucato di altre persone. Il lavoro domestico che la donna svolge è infatti il lavoro peggio retribuito al mondo. (...)
Ma ora le donne entrano sempre di più nel mondo industriale e questo significa che nuove porte si stanno aprendo, liberandole finalmente dalla sfera domestica. Il che comporta che proprio come gli uomini hanno sviluppato una propria individualità una volta catapultati in ogni sorta di impiego e in ogni sorta di condizione, lo stesso succederà anche alle donne. E con lo sviluppo della diversità arriverà anche l'irrefrenabile desiderio di esprimersi a partire da questa diversità e, di conseguenza, la necessità che si manifestino quelle condizioni materiali che permetteranno tale espressione.
L'assenza di quiete che si vive normalmente in una casa milita contro l'emergere di queste condizioni, e così fa «l'abominevole improduttività» in cui viene svolto il lavoro domestico, che è al contempo, ma in scala infinitesimale, una lavanderia, un forno, un alloggio, una trattoria, un asilo nido. Comunque, con l'avvento delle concezioni legate al lavoro femminile nel mondo industriale, l'attuale idea di casa dovrà sparire. Nel frattempo, consiglierei a ogni donna che contempla un'unione sessuale di qualunque sorta, di non vivere mai insieme all'uomo che ama, nel senso di affittare una casa o una stanza insieme... e così diventare la sua governante.
Per ciò che concerne i bambini, considerando anche l'alto numero di infanti che muore ogni anno, l'allarme lanciato mi pare piuttosto ipocrita. Ma al di là di questa considerazione, il compito della donna dovrebbe essere, prima di tutto, quello di approfondire il concetto di sessualità e di informarsi sul controllo delle nascite: mai avere un bambino a meno che non lo si voglia davvero e mai volerlo egoisticamente, per il puro piacere di avere un giocattolo carino con cui intrattenersi. Mai averlo, inoltre, se non si è in grado di mantenerlo da sola.
Gli uomini, da parte loro, dovrebbero contribuire al mantenimento dei bambini, ma in virtù del fatto che tale supporto deve essere un atto volontario, gli uomini sarebbero comunque messi nella posizione di avere sì voce in capitolo sull'educazione e sull'allevamento dei figli, ma solo se il loro comportamento risultasse confacente. (...)
Dalla nascita della Chiesa, la cui madre è stata la Paura e il cui padre è stato l'Ignoranza, ci è stata insegnata l'inferiorità della donna. In una forma o nell'altra, anche attraverso varie leggende mitologiche espresse da vari credi mitologici, è iniziata a circolare in modo sotterraneo la credenza che la caduta dell'uomo sia da attribuire all'intervento della donna. Di conseguenza, la sua sottomissione all'uomo è soltanto una giusta punizione, dovuta anche alla sua naturale viltà, alla sua infinita depravazione, eccetera.
Dai tempi di Adamo fino ad oggi, la Chiesa cristiana, con cui abbiamo avuto maggiormente a che fare, ha reso la donna un pretesto, il capro espiatorio per le azioni malvagie dell'uomo.
Così questa idea è penetrata a fondo nella nostra società, tanto che molti di quelli che hanno ripudiato in toto la Chiesa sono comunque pervasi da questa narcotizzante idea di giusta moralità. La creazione maschile è così tanto intrisa di questo autoritarismo che persino quelli che sono andati oltre, ripudiando lo Stato, si aggrappano ancora a Dio, alla società così com'è, abbracciano ancora la vecchia concezione teologica secondo cui loro devono essere «i capofamiglia», condividendo quella ingegnosa formula traslativa secondo cui «il marito è capo della moglie, proprio come Cristo è capo della Chiesa». (...)
Restatevene a casa, voi scontente! Siate pazienti, obbedienti, sottomesse! Continuate a rammendare i nostri calzini e le nostre camicie, a pulire le nostre stoviglie, a cucinare i nostri pasti, a servirci a tavola, a badare ai nostri bambini! Le vostre belle voci non delizieranno né voi stesse né il pubblico; il vostro genio creativo non verrà utilizzato; il vostro raffinato gusto artistico non verrà mai coltivato; le vostre abilità imprenditoriali non verranno sviluppate. Il vostro grande errore è di essere nate con queste capacità, e ora soffrite per la vostra follia! Perché siete donne! E quindi siete delle governanti, delle domestiche, delle cameriere, delle ostetriche!

Voltairine de Cleyre