rivoluzione russa
La disillusione
scritti di Camillo Berneri, Thomas Stearns Eliot, Emma Goldman, Errico Malatesta, Ida Mett, George Orwell, Volin
a cura di Carlotta Pedrazzini
Sono passati 100 anni dalla rivoluzione russa, quando il sogno della realizzazione del socialismo parve per un attimo realizzarsi. Le prime notizie che valicarono i confini russi parlavano dei soviet, di un nuovo modo di organizzare la produzione e la distribuzione, di un controllo popolare sulle scelte politiche. Nell'attesa che finita la prima guerra mondiale... Fu un attimo, appunto. Bastarono poche settimane perché cominciassero a giungere, perlopiù frammentarie, le prime notizie di nuove ingiustizie sociali, del tentativo di svuotamento del sistema dei soviet, di arresti e persecuzioni contro gli oppositori, tra cui gli anarchici. Cent'anni dopo riportiamo alcuni stralci di Emma Goldman, che espulsa dagli Stati Uniti nel 1919, visse per quasi due anni in Russia. Arrivata piena di entusiasmo verso la rivoluzione, con il suo compagno Alexander Berkman, dovette rendersi conto dolorosamente che la realtà del potere comunista era ben altra cosa rispetto a quel che se ne sapeva fuori dalla Russia. Nelle sue considerazioni, il dramma umano e politico di questa sua disillusione (questa parola è presente nel titolo di due suoi libri pubblicati una volta costretta a lasciare la Russia). Riportiamo anche contributi sull'argomento di altri anarchici di fronte alla degenerazione della rivoluzione: Errico Malatesta, Ida Mett, Camillo Berneri e Volin. Seguono due documenti di trent'anni dopo, relativi allo scrittore inglese George Orwell, autore tra l'altro de La fattoria degli animali, sarcastica critica del regime comunista stalinista. Si tratta della lettera con la quale un editore inglese rifiutò
la pubblicazione del libro nel 1944. E della premessa all'edizione ucraina del libro: entrambi pubblicati per la prima volta in italiano nella recente riedizione della Fattoria curata dall'editore Massari.
La rivoluzione russa portò, nella sua degenerazione autoritaria, prima sotto Lenin e Trotzsky quindi sotto Stalin, a una vera e propria tragedia etica e politica del movimento operaio, contadino e socialista internazionale. Per oltre settant'anni essa ha costituito la retorica iniziale di un sistema di dominio e di sfruttamento che ha segnato di sé una “metà” del mondo. È stata un'esperienza all'inizio esaltante, poi curvata in decenni di totalitarismo. Torneremo sull'argomento nei prossimi numeri.
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Nel disegno di Xavier Poiret - Lenin si dirige verso l'isola di Kotlin, dove si trova la città di Kronstadt, per reprimere la rivolta libertaria dei marinai, considerati una forza di punta della Rivoluzione Russa. Dal volume 1921-1981 Kronstadt (di Sergio Costa e Xavier Poiret, coop. tipolitografica editrice, Carrara, 1981, pp. 96, €10,30) |
Contraddizioni, ingiustizie,
favoritismi
di Emma Goldman
Nessun cambiamento rispetto al passato. Al mercato
i più poveri dei poveri erano cacciati dalla polizia.
Persone delle classi alte e di quelle basse si ritrovavano tra
i banchi del mercato a litigare, uno spettacolo offensivo della
dignità. E chiunque esprimeva critica o malcontento era
a rischio arresto. Alexander Berkman la criticava, non si poteva
giudicare una rivoluzione da simili dettagli. E invece...
Sasha [Alexander Berkman] mi disse che anche lui si era trovato
di fronte a parecchie strane contraddizioni. Ad esempio, molti
dei nostri compagni erano in prigione, apparentemente senza
alcun motivo, mentre altri non erano stati molestati nelle loro
attività. Avrei avuto comunque ampia occasione per constatare
ogni cosa coi miei occhi, soggiunse: il gruppo degli Universalisti
ci aveva invitato a una riunione straordinaria, durante la quale
tre esperti conferenzieri avrebbero parlato del punto di vista
anarchico rispetto alla Rivoluzione e della situazione attuale.
Non vedevo l'ora di partecipare a quell'incontro ormai imminente;
che mi faceva sperare di riuscire finalmente a capire meglio
la realtà russa. Nel frattempo giravo per Mosca ore ed
ore, a volte con Sasha, ma più spesso da sola. Sasha
infatti abitava troppo distante, a un'ora a piedi dal National
(Hotel), e non c'erano tram, ma solo qualche raro izvostchiky.
Insistetti però perché facesse almeno un pasto
al giorno con me: aveva bisogno di nutrirsi ed io avevo portato
con me da Pietrogrado parte delle nostre provviste. A Mosca
i mercati erano sempre aperti e facevano grandi affari. Non
mi sembrava che comprarvi ciò di cui avevamo bisogno
fosse un tradimento della Rivoluzione, tuttavia Zorin mi aveva
detto che qualsiasi tipo di commercio era la peggior forma di
controrivoluzione ed era tassativamente proibito. Quando poi
gli avevo ricordato la presenza dei mercati all'aperto, mi aveva
assicurato che vi si trovavano solo degli speculatori.
Personalmente mi sembrava del tutto privo di senno aspettarsi
che la gente morisse di fame quando aveva del cibo davanti agli
occhi. Non era una questione di eroismo, né la Rivoluzione
si sarebbe avvantaggiata da un simile comportamento. Chi muore
di fame non può produrre e senza produzione la rivoluzione
è condannata al fallimento. Zorin aveva insistito col
dire che erano il blocco, l'intervento degli alleati e i generali
Bianchi i responsabili della mancanza di cibo, ma io ero stanca
di sentir sgranare lo stesso rosario sulle cause dei mali russi.
Non mettevo in discussione i fatti così come li presentavano
Zorin e gli altri comunisti; ma pensavo che se il governo sovietico
non riusciva ad impedire che i generi alimentari arrivassero
ai mercati, doveva quanto meno chiudere questi ultimi. Se era
concesso vendere cibo nei luoghi pubblici, allora impedire alle
masse di rifornirsi di generi alimentari significava solo aggiungere
beffe al danno, tanto più che il denaro poteva circolare
e il governo stesso ne coniava in continuazione. A queste mie
argomentazioni Zorin rispondeva che erano le mie concezioni
teoriche della rivoluzione a rendermi incomprensibili i bisogni
della situazione concreta.
Il mercato principale di Mosca era il Soukharevka, che un tempo
era stato famoso, e che ora rappresentava la contraddizione
più stupefacente che fino a quel momento avessi visto
in Russia. Vi si radunavano persone di ogni tipo e ceto, prive
però di tutti quei segni esteriori che denotano l'appartenenza
a una data classe sociale. Aristocratici e contadini, colti
e villani, borghesi, soldati e operai stavano gomito a gomito
con i nemici del giorno prima, intenti a richiamare l'attenzione
sulle proprie mercanzie con grida che suscitavano compassione
oppure a comprare freneticamente.
Uno spettacolo insopportabile
Le barriere preesistenti erano cadute, non però grazie
all'eguaglianza apportata dal comunismo, bensì alla comune
necessità di pane, pane e ancora pane. Qui si potevano
trovare icone splendidamente intagliate e chiodi arrugginiti,
bellissimi gioielli e chincaglieria tanto vistosa quanto volgare,
scialli damascati e trapunte di cotone sbiadite. Tra ciò
che restava del lusso di una volta e gli ultimi, amati oggetti
di una ricchezza ormai andata, le folle si davano spintoni,
capannelli eterogenei si azzuffavano per impossessarsi degli
articoli desiderati. Era veramente un insopportabile spettacolo
di istinti primitivi, che cercavano di farsi valere senza ritegno
né paura.
Il Soukharevka rendeva più scandalosa la discriminazione
contro i posti più piccoli dove avveniva il baratto,
come il piccolo mercato vicino al National che vedeva il costante
intervento della polizia. Eppure qui c'erano solo i più
poveri dei poveri, che cercavano solo di restare in vita: donne
anziane, bambini vestiti di stracci, derelitti, e tutti carichi
di mercanzie miserevoli quanto loro stessi. Tshchi (minestra
di verdura) maleodorante, patate gelate, biscotti neri e duri,
qualche scatola di fiammiferi: li porgevano ai passanti con
mani tremanti e con voci egualmente tremanti supplicavano: «Comprate,
barinya (signora), comprate per l'amore di Dio, comprate!».
Nelle incursioni poliziesche le loro povere merci venivano portate
via, la minestra e il kvass (bevanda tipica russa) rovesciati
sulla piazza e quei poveri infelici condotti in prigione come
speculatori. Coloro che avevano la fortuna di sfuggire all'incursione
tornavano subito dopo a raccattare fiammiferi e sigarette sparpagliati
qua e là e ricominciavano il loro sventurato Commercio.
I bolscevichi, insieme ad altri rivoluzionari, avevano sempre
sottolineato la potenza della fame come causa della maggior
parte dei mali nella società capitalista e non si stancavano
di condannare il sistema che puniva gli effetti lasciandone
immutate le fonti. Come potevano adesso seguire lo stesso stupido,
incredibile corso?
Ma erano semplicemente dei granelli di polvere?
È vero, quella fame spaventosa non erano stati loro a
crearla, i maggiori responsabili erano effettivamente il blocco
e gli interventisti, il che, a mio parere, costituiva una ragione
in più per non perseguitare e punire le vittime. Anche
Sasha era stato colpito dalla crudeltà e dalla inumanità
di una di queste incursioni, cui aveva assistito. Aveva protestato
vivacemente contro il modo brutale con cui i soldati e gli uomini
della Ceka avevano disperso la folla e lui stesso era riuscito
a sfuggire all'arresto grazie alle credenziali che Cicerin gli
aveva dato. Immediatamente l'emissario della Ceka di turno aveva
cambiato tono e maniera, profondendosi in scuse al «tovarishch
straniero» (compagno straniero). Stava soltanto facendo
il suo dovere, il suo compito era quello di eseguire gli ordini
dei superiori e lui non aveva colpa alcuna.
Era evidente che il nuovo potere del Cremlino era temuto esattamente
come il vecchio e che il suo sigillo ufficiale incuteva le stesse
paure. «Dove sta il cambiamento?» chiesi a Sasha.
«Non puoi misurare un gigantesco sollevamento come questo
a partire da pochi granelli di polvere» mi rispose.
Ma erano davvero dei semplici granelli? A me sembravano slavine
che minacciavano di abbattere l'intero edificio rivoluzionario
che mi ero costruita in America intorno ai bolscevichi, tuttavia
la fiducia che avevo nella loro onestà era troppo salda
perché ora addossassi a loro la responsabilità
di tutti i mali e di tutti i torti che vedevo a ogni piè
sospinto. Erano mali e torti che andavano crescendo giorno dopo
giorno, fatti molto brutti e che si scostavano totalmente da
ciò che la Russia sovietica andava proclamando al mondo.
Cercavo di evitare di guardarli in faccia, ma essi stavano in
agguato dietro ogni angolo e non si lasciavano ignorare.
Il National, occupato quasi esclusivamente da comunisti, era
dotato di un nutrito gruppo di persone in forza alle cucine
che sprecava tempo e preziosi generi alimentari per allestire
pasti immangiabili. Accanto c'era un'altra cucina dotata di
servitori privati occupati tutto il giorno a cucinare per i
loro padroni, importanti funzionari dei soviet. A loro e ai
loro amici erano concessi privilegi speciali e spesso ricevevano
tre o più razioni, mentre i comuni mortali consumavano
le poche energie loro rimaste per conquistarsi la loro magra
quota. [...]
Le ripugnanti piaghe che devastavano la Russia rivoluzionaria
non potevano essere ignorate a lungo. I fatti descritti durante
l'incontro degli anarchici di Mosca l'analisi della situazione
fatta dai socialrivoluzionari di sinistra e le conversazioni
che avevo avuto con persone comuni, prive di affiliazioni politiche,
erano tutti elementi che mi permisero di guardare al di là
delle scenografiche rappresentazioni della Rivoluzione e di
guardare in faccia la dittatura quand'era priva del suo belletto
di scena. Il ruolo che sosteneva era un po' diverso da quello
proclamato in pubblico: era l'esazione forzosa delle tasse imposta
con le armi e con effetti devastanti sui villaggi e sulle città;
era l'allontanamento da qualsiasi posto di responsabilità
di chiunque osasse pensare ad alta voce; era la morte spirituale
degli elementi più combattivi la cui intelligenza, la
cui fede e il cui coraggio avevano di fatto permesso ai bolscevichi
di raggiungere il potere.
Durante i giorni di Ottobre sia gli anarchici che i socialrivoluzionari
di sinistra erano stati utilizzati da Lenin come pedine e adesso
erano condannati all'estinzione dalla sua ideologia e dalla
sua linea politica. La dittatura significava anche la pratica
di trasformare i rifugiati politici in ostaggi, senza risparmiare
neppure vecchi genitori e bambini in tenera età. Le oblavas
notturne della Ceka, retate che avvenivano sia nelle strade
che nelle case, vedevano la popolazione svegliarsi di soprassalto
nella notte, i loro pochi beni messi a soqquadro e lacerati
alla ricerca di documenti nascosti, con la rete di soldati tesa
tutt'intorno a pescare tra gli ignari visitatori che si recavano
nella casa assediata. Le pene, anche nel caso di imputazioni
inconsistenti, spesso comportavano lunghi anni di prigione o
l'esilio in territori desolati e perfino l'esecuzione capitale.
Emma Goldman
Errico
Malatesta/
Ma quale dittatura del proletariato?
Carissimo
Fabbri,
sulla questione che tanto ti preoccupa, quella della dittatura
del proletariato, mi pare che siamo fondamentalmente
d'accordo.
A me sembra che su questa questione l'opinione degli anarchici
non potrebbe essere dubbia, ed infatti prima della rivoluzione
bolscevica non era dubbia per nessuno. Anarchia significa
non-governo e quindi, a maggior ragione, non-dittatura,
che è governo assoluto, senza controllo e senza
limiti costituzionali.
Ma quando è scoppiata la rivoluzione bolscevica
parecchi nostri amici hanno confuso ciò che era
rivoluzione contro il governo preesistente, e ciò
che era nuovo governo che veniva a sovrapporsi alla rivoluzione
per frenarla e dirigerla ai fini particolari di un partito
- e quasi si sono dichiarati bolscevichi essi stessi.
Ora, i bolscevichi sono semplicemente dei marxisti, che
sono onestamente e conseguentemente restati marxisti,
a differenza dei loro maestri e modelli, i Guesde, i Plechanov,
i Hyndman, gli Scheidemann, i Noske, ecc. che han fatto
la fine che tu sai. Noi rispettiamo la loro sincerità,
ammiriamo la loro energia, ma come non siamo stati mai
d'accordo con loro sul terreno teorico, non sapremmo solidarizzarci
con loro quando dalla teoria si passa alla pratica.
Ma forse la verità è semplicemente questa:
che i nostri amici bolscevizzanti con l'espressione «dittatura
del proletariato» intendono semplicemente il fatto
rivoluzionario dei lavoratori che prendono possesso della
terra e degli strumenti di lavoro e cercano di costituire
una società, di organizzare un modo di vita in
cui non vi sia posto per una classe che sfrutti ed opprima
i produttori. Intesa così, la «dittatura
del proletariato» sarebbe il potere effettivo di
tutti i lavoratori intenti ad abbattere la società
capitalistica, e diventerebbe l'anarchia non appena
fosse cessata la resistenza reazionaria e nessuno più
pretendesse di obbligare con la forza la massa ad ubbidirgli
e a lavorare per lui. Ed allora il nostro dissenso non
sarebbe più che una questione di parole. Dittatura
del proletariato significherebbe dittatura di tutti,
vale a dire non sarebbe più dittatura, come governo
di tutti non è più governo, nel senso autoritario,
storico, pratico, della parola.
Ma i partigiani veri della «dittatura del proletariato»
non la intendono così, e ce lo fanno ben vedere
in Russia. Il proletariato naturalmente c'entra
come c'entra il popolo nei regimi democratici,
cioè semplicemente per nascondere l'essenza reale
della cosa. In realtà si tratta della dittatura
di un partito, o piuttosto dei capi di un partito ed è
dittatura vera e propria, coi suoi decreti, con le sue
sanzioni penali, con i suoi agenti esecutivi e soprattutto
con la sua forza armata, che serve oggi anche a
difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che
servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà
dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare i
nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro
le masse una nuova classe privilegiata.
Anche il generale Bonaparte servì a difendere la
Rivoluzione Francese contro la reazione europea, ma nel
difenderla la strozzò. Lenin, Trockij e compagni
sono di sicuro dei rivoluzionari sinceri, così
come essi intendono la rivoluzione, e non tradiranno;
ma essi preparano i quadri governativi che serviranno
a quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione
ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo,
e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È
la storia che si ripete: mutatis mutandis, è
la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla
ghigliottina e prepara la via a Napoleone.
Queste sono le mie idee generali sulle cose di Russia.
In quanto ai particolari, le notizie che abbiamo sono
ancora troppo varie e contraddittorie per poter arrischiare
un giudizio. Può anche darsi che molte cose che
ci sembrano cattive siano il frutto della situazione e
che nelle circostanze speciali della Russia non fosse
possibile fare diversamente da quello che hanno fatto.
È meglio aspettare, tanto più che quello
che noi diremmo non può avere nessuna influenza
sullo svolgimento dei fatti in Russia, e potrebbe in Italia
essere male interpretato e darci l'aria di far eco alle
calunnie interessate della reazione.
Errico
Malatesta
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A colloquio con Lenin
di Emma Goldman
Marzo 1920. Goldman e Berkman vengono ricevuti da Lenin nel suo ufficio. Il suo atteggiamento verso gli anarchici è benevolo, purché non credano alle menzogne. E accettino di collaborare con la Rivoluzione (cioè con i suoi capi, cioè con lui). I due anarchici, al momento, accettano. Nonostante tutto, non sono ancora pronti a cogliere appieno la realtà. E gli anarchici russi non mancheranno di criticarli.
Quando Angelica Balabanoff mi aveva suggerito di parlare con
Lenin, avevo deciso di redarre un memorandum sulle contraddizioni
più salienti della vita sovietica, ma poiché non
avevo sentito più nulla riguardo a quell'eventuale incontro,
non me ne ero più occupata. Mi trovai perciò in
grande imbarazzo quando, una mattina, arrivò la telefonata
di Angelica la quale ci informava che “ll'ic” stava
aspettando me e Sasha e che la sua auto sarebbe venuta a prenderci.
Sapevamo che Lenin era così occupato da essere quasi
inaccessibile, per cui l'eccezione che veniva fatta in nostro
favore andava colta al volo. Ritenevamo comunque che anche senza
il memorandum saremmo riusciti a trovare la prospettiva giusta
da cui affrontare la discussione e inoltre ci veniva offerta
l'occasione per presentargli le risoluzioni che ci avevano affidato
i nostri compagni di Mosca.
L'auto di Lenin attraversò di corsa le strade affollate ed entrò a gran velocità nel Cremlino, senza che le sentinelle ci fermassero per controllare i propusk [lasciapassare]. Ci fu chiesto di scendere davanti all'ingresso di uno degli antichi edifici che si erigevano a una certa distanza dagli altri. Accanto all'ascensore c'era una guardia armata, evidentemente già informata del nostro arrivo.
Senza dire una parola, aprì la porta chiusa a chiave e ci fece cenno di entrare, poi la richiuse e si mise la chiave in tasca. Sentimmo il soldato al primo piano gridare i nostri nomi, e lo stesso avvenne al secondo, e poi ancora al successivo. Mentre l'ascensore saliva lentamente, un vero e proprio coro annunciava il nostro arrivo. In cima una guardia ripeté la cerimonia dell'apertura e della chiusura della porta dell'ascensore, dopo di che ci introdusse in un ampio salone annunciando: «Tovarishtchy Goldman e Berkman».
Ci fu chiesto di aspettare un attimo, ma passò quasi un'ora prima che riprendesse la cerimonia del nostro avvicinamento al seggio del sommo. Finalmente un giovane ci fece cenno di seguirlo. Attraversammo un certo numero di uffici dove ferveva una grande attività, tra ticchettii delle macchine da scrivere e va e vieni di corrieri. Fummo fatti fermare davanti a una porta di legno massiccio, ornata da motivi finemente scolpiti dietro alla quale, dopo essersi scusato, sparì il nostro accompagnatore. Poco dopo la porta si aprì e la nostra guida ci invitò ad entrare, per poi chiuderla alle nostre spalle e sparire. Restammo sulla soglia, in attesa di altre istruzioni su come procedere. A un tratto ci rendemmo conto di due occhi che ci stavano fissando come a volerci trapassare. L'uomo a cui appartenevano era seduto dietro a un'enorme scrivania, dove tutto era disposto con assoluta precisione, mentre anche il resto della stanza dava la stessa impressione di meticolosità. Alle sue spalle c'era un pannello con numerosi interruttori del telefono e una cartina geografica del mondo che ricopriva l'intera parete; ai lati contenitori di vetro colmi di pesanti volumi. Poi un grande tavolo oblungo ricoperto di rosso, dodici sedie dallo schienale dritto e parecchie poltrone alle finestre: nient'altro a ravvivare l'ordinata monotonia dell'insieme, se non quel po' di rosso fiammante.
Era uno sfondo molto adatto a un uomo noto per le sue rigide abitudini di vita e il suo atteggiamento pratico. Lenin, l'uomo più idolatrato al mondo, ma anche il più odiato e il più temuto, sarebbe stato fuori posto in un ambiente meno austero.
«Il'ic non spreca tempo coi preliminari, va dritto allo scopo» mi aveva detto una volta Zorin con evidente orgoglio e in effetti ogni mossa che aveva fatto a partire dal 1917 lo testimoniava. Tuttavia, se fossimo stati in dubbio, il modo in cui ci ricevette e le modalità del colloquio ci avrebbero rapidamente convinto del risparmio emotivo che lo caratterizzava. Straordinaria era non solo la velocità con cui valutava l'emotività altrui, ma anche l'abilità con cui la utilizzava per i propri scopi.
Non meno stupefacente era lo scoppio di allegria con cui sottolineava tutto ciò che riteneva buffo in sé o nei visitatori e, soprattutto se poteva mettere l'altro in posizione di svantaggio, il grande Lenin si metteva a tremare tutto per il gran ridere, come se volesse costringere anche gli altri a ridere con lui.
Dopo che ci ebbe trapassato da parte a parte con lo sguardo, fummo sottoposti a una tempesta di domande che si susseguivano una all'altra come frecce scoccate da un arco di precisione. Prima l'America, con le sue condizioni politiche ed economiche: che probabilità c'erano di una rivoluzione nell'immediato futuro? Poi l'American Federation of Labour: era intrisa di ideologia borghese, oppure lo erano solo Gompers e la sua cricca? E la massa degli iscritti, poteva costituire un terreno fertile con cui aprirsi un varco dall'interno? Poi gli I.W.W.: qual era la loro forza? E gli anarchici erano davvero tanto efficaci come pareva indicare il nostro recente processo?
“Anarchici in carcere? Sciocchezze” disse Lenin
Aveva appena finito di leggere i discorsi che avevamo tenuto in aula. «Ben fatto! Chiara analisi del sistema capitalistico, splendida propaganda!». Peccato che non avessimo potuto restare negli Stati Uniti, non importa a che prezzo. Certamente eravamo i benvenuti nella Russia sovietica, ma persone combattive come noi erano estremamente necessarie in America, dove avrebbero potuto dare il loro apporto all'imminente rivoluzione, «così come molti dei vostri migliori compagni hanno fatto con la nostra». «E voi, tovarishch Berkman, che abile organizzatore dovete essere, proprio come Shatoff. Di vero acciaio, il vostro compagno Shatoff: non si tira indietro davanti a niente e lavora come dodici uomini messi insieme. Adesso è in Siberia, Commissario alle ferrovie della Repubblica Estremo-Orientale. Molti altri anarchici hanno avuto cariche importanti con noi. Tutte le porte sono spalancate se sono disposti a collaborare come veri anarchici ideiny [idealisti]. Voi, tovarishch Berkman, troverete presto il vostro posto. Peccato, però, che siate stato strappato via dall'America in questo momento prodigioso.
E voi, tovarishch Goldman? Che spazio avevate! Avreste potuto restare. Perchè non l'avete fatto, anche se il compagno Berkman era cacciato via? Beh, adesso siete qui. Avete pensato a che tipo di lavoro vi piacerebbe fare? Siete entrambi anarchici ideiny [idealisti], lo vedo dalla vostra posizione sulla guerra, dalla vostra idea dell'“Ottobre”, la lotta che avete condotto in nostro favore e la fede nei soviet. Proprio come il vostro grande compagno Malatesta, che è al fianco della Russia sovietica. Che cosa preferite fare?».
Sasha fu il primo a recuperare l'uso della parola. Cominciò a parlare in inglese, ma Lenin lo bloccò immediatamente con un'allegra risata. «Credete che capisca l'inglese? Neanche una parola. E neanche le altre lingue. Non sono bravo, anche se sono vissuto all'estero molti anni. Strano, no?». Altri scoppi di risa. Sasha proseguì in russo. Era orgoglioso di sentir lodare i suoi compagni, disse, ma perché c'erano degli anarchici nelle prigioni russe? «Anarchici?» lo interruppe Lenin. «Sciocchezze! Chi vi ha riferito simili fandonie, e come avete potuto crederci? In prigione abbiamo banditi e seguaci di Machno, ma non anarchici ideiny [idealisti]».
«Anche l'America capitalista divide gli anarchici in due categorie, i filosofi e i criminali» intervenni a quel punto. «I primi sono ben accetti anche nella migliore società ed uno di loro è tenuto in grande considerazione perfino dall'amministrazione Wilson. La seconda categoria, alla quale abbiamo l'onore di appartenere, viene perseguitata e spesso chiusa in prigione. Anche voi pare che facciate una distinzione senza che vi sia una reale differenza. Non vi sembra?». Ragionavo in modo sbagliato, replicò Lenin, facevo una gran confusione e tiravo conclusioni simili da premesse differenti. «La libertà di parola è un pregiudizio borghese, un cataplasma buono per tutti i mali sociali. Nella Repubblica dei lavoratori il benessere economico parla con voce più forte dei semplici discorsi e la sua libertà è molto più sicura.
La dittatura del proletariato sta seguendo questa rotta. Proprio adesso si trova di fronte a gravissimi ostacoli, il principale dei quali è l'opposizione dei contadini. Hanno bisogno di chiodi, sale, tessili, trattori, elettricità. Quando riusciremo a dar loro tutto questo, saranno con noi e nessun potere controrivoluzionario li farà tornare indietro. Nello stato attuale della Russia qualsiasi chiacchiera oziosa sulla libertà serve solo ad alimentare la reazione che vuole atterrare la Russia. Solo i banditi si macchiano di una simile colpa e devono essere tenuti sotto chiave».
Sasha gli consegnò le risoluzioni del convegno anarchico e sottolineò quanto i compagni di Mosca assicuravano, e cioè che i compagni imprigionati erano ideiny [idealisti], non banditi. «Il fatto che la nostra gente chieda di essere legalizzata prova che sono al fianco della Rivoluzione e dei soviet» sostenemmo. Lenin prese il documento e promise di sottoporlo alla prossima riunione dell'esecutivo del partito. Saremmo stati informati delle decisioni prese, ma in ogni caso si trattava di una questione di poco conto, niente che valesse la pena per un vero rivoluzionario. C'era qualcosa d'altro?
Lenin entusiasta del nostro progetto...
Gli dicemmo che in America avevamo combattuto perfino per i diritti politici dei nostri avversari e che pertanto il fatto che questi diritti fossero negati ai nostri compagni non era cosa di poco conto per noi. Per quanto mi riguardava personalmente, lo informai, non me la sentivo di collaborare con un regime che perseguitava gli anarchici o altri per le loro idee. C'erano poi dei mali ancora più gravi: come potevamo conciliarli con l'alto obiettivo cui lui stesso aspirava? Gliene citai alcuni. Mi rispose che il mio atteggiamento denotava sentimentalismo borghese. La dittatura del proletariato era impegnata in una lotta mortale e i fattori secondari non potevano essere presi in considerazione. La Russia stava facendo passi da gigante sia al proprio interno che all'estero. Stava innescando la rivoluzione mondiale ed io mi lamentavo di qualche piccolo spargimento di sangue. Era assurdo, dovevo superarlo. «Fate qualcosa», consigliò, «è il metodo migliore per recuperare il vostro equilibrio rivoluzionario».
Forse Lenin aveva ragione, mi dissi. Avrei seguito il suo consiglio. Gli dissi quindi che avrei cominciato subito, non con qualche attività interna alla Russia, ma piuttosto con qualcosa che avesse un valore di propaganda negli Stati Uniti. Mi sarebbe piaciuto organizzare un'associazione di amici russi della libertà americana, che svolgesse attività a sostegno della lotta per la libertà che si svolgeva in America, così come gli amici americani della Russia avevano appoggiato la Russia e la sua battaglia contro il regime zarista.
Per tutta la durata del colloquio Lenin non si era mosso dalla sedia, ma ora poco ci mancava che facesse un balzo in avanti. Fece un giro su se stesso, poi si parò davanti a noi. «Ecco un'idea brillante!» esclamò, sfregandosi le mani con un sorrisino. «Una bella proposta pratica. Dovete darvi da fare per attuarla subito. E voi, tovarishch Berkman; collaborerete anche voi?»
Sasha rispose che ne avevamo già parlato tra di noi e avevamo già elaborato i dettagli del progetto. Potevamo iniziare subito se avessimo avuto l'attrezzatura necessaria. Nessun problema, ci assicurò Lenin, avremmo avuto tutto: un ufficio, l'attrezzatura per stampare, corrieri, e tutti i fondi necessari. Dovevamo però fargli avere un prospetto con il dettaglio delle spese preventivate. Se ne sarebbe occupata la Terza Internazionale. Era il canale adatto per il nostro progetto e ci avrebbe fornito ogni aiuto necessario.
Muti per lo stupore, ci guardammo l'un l'altro e poi rivolgemmo lo sguardo verso Lenin. Parlando insieme, cominciammo a spiegare che i nostri sforzi sarebbero stati efficaci solo se fossimo stati liberi da qualsiasi affiliazione alle organizzazioni bolsceviche. Dovevamo condurre il progetto a modo nostro: conoscevamo la psicologia degli americani e qual era il sistema per svolgere il lavoro al meglio. Prima però che potessimo addentrarci in ulteriori dettagli, ricomparve improvvisamente la nostra guida, con la stessa discrezione con cui era sparita, e Lenin ci porse la mano in gesto di commiato. «Non dimenticatevi di farmi avere il prospetto» ripeté mentre già lasciavamo la stanza.
Emma Goldman
Ida Mett/
L'aspetto minaccioso della burocrazia
L'insurrezione
di Kronstadt si verificò tre mesi dopo la liquidazione
dell'ultimo fronte della guerra civile nella Russia europea.
Dopo la fine vittoriosa di questa guerra, la popolazione
lavoratrice del paese, in uno stato di carestia permanente,
era in balia del regime dittatoriale di uno Stato totalitario
diretto da un solo partito. Tuttavia, la generazione d'Ottobre
ricordava ancora le parole d'ordine della rivoluzione
sociale che spingevano all'edificazione di un mondo nuovo.
Questa generazione d'Ottobre, che contava nelle sue file
proletari di notevole statura, aveva acconsentito, con
il cuore stretto, ad abbandonare momentaneamente le sue
parole d'ordine di uguaglianza e di libertà, credendole,
se non incompatibili, almeno difficilmente realizzabili
in tempo di guerra. Ma una volta vinta e terminata la
guerra civile, i proletari delle città, i marinai,
i soldati rossi, i contadini lavoratori, tutti coloro
che avevano versato il sangue durante la guerra civile,
non vedevano più le ragioni di una persistente
condizione di fame e soprattutto non giustificavano più
la necessità di sottomettersi ancora in modo cieco
e totale a una disciplina, tanto feroce. Questa, se aveva
potuto trovare delle giustificazioni in tempo di guerra,
ora non ne aveva più.
Così, mentre gli uni combattevano sui fronti, gli
altri, gli organizzatori dello Stato, rafforzavano le
loro posizioni distaccandosi sempre più dai lavoratori.
La burocrazia assumeva un aspetto minaccioso. Lo Stato
era diretto da un solo partito che incorporava in sempre
maggior numero elementi arrivisti. Conseguenza di questo
stato di cose era il fatto che un proletario non membro
del partito dirigente valeva sulla bilancia della vita
quotidiana infinitamente meno di un ex-nobile o ex-borghese
che fosse diventato membro del partito. La libera critica
non esisteva più e qualsiasi comunista poteva dichiarare
controrivoluzionario un operaio che difendesse il proprio
diritto e la libertà di classe.
La produzione industriale ed agricola scendeva vertiginosamente.
Nelle officine le materie prime erano quasi scomparse,
le macchine erano vecchie e poco curate; il proletariato
passava il suo tempo a inventare trucchi contro la fame.
I furti nelle officine, diventati una specie di compenso
per un lavoro pagato in modo miserevole, erano all'ordine
del giorno e tutto ciò malgrado le perquisizioni
quotidiane che i funzionari della CEKA facevano all'uscita.
I proletari che avevano ancora dei legami con la campagna
vi si recavano per scambiare dei viveri contro vecchi
capi di vestiario, fiammiferi, sale. I treni erano pieni
di costoro, chiamati «mechotchniki», che attraverso
mille difficoltà portavano dei viveri verso le
città affamate; grande era lo sdegno dei proletari
quando i posti di blocco della milizia rossa sequestravano
la farina o le patate trasportati a spalle per impedire
ai figli di morire di fame.
Sottoposti alla requisizione i contadini seminavano sempre
meno, malgrado le chiare minacce di carestia conseguente
ai cattivi raccolti. Ora i cattivi raccolti non erano
rari, solo che, normalmente, la superficie seminata era
molto più estesa e i contadini potevano fare deIle
riserve per gli anni più neri.
Ida Mett, 1938 |
Ospedali e militarizzazione del lavoro
di Emma Goldman
Goldman era un'ostetrica (diplomata a Vienna) e si rese disponibile. Il clima sociale intorno peggiorava, il partito imponeva comando e arbitrio, l'aria per chi non si piegava era sempre più brutta.
Le lussuose residenze che in precedenza erano appartenute ai ricchi e che si trovavano in una zona di Pietrogrado nota come Kammenny Ostrov, Isola, dovevano essere trasformate in case di riposo per lavoratori. «Idea meravigliosa, non è vero?» ci chiese Zorin. «Saranno finite in sei settimane». Solo la velocità e l'efficienza americane potevano portare a termine l'impresa nei tempi previsti. Potevamo essere d'aiuto? Prendemmo in mano la situazione e ci impegnammo a fondo, finché non andammo a sbattere di nuovo contro l'insormontabile muro della burocrazia sovietica.
Fin dall'inizio avevamo insistito perché ai lavoratori impegnati nella preparazione delle case di riposo per i loro fratelli venisse assicurato almeno un pasto caldo al giorno e mi ero messa personalmente a controllare la preparazione dei pasti e la corretta distribuzione delle razioni. Per un po' di tempo andò tutto bene: gli uomini erano soddisfatti della sistemazione e il lavoro faceva progressi insoliti - insoliti per i russi, quanto meno. A un certo punto però gli impiegati bolscevichi e i loro protetti cominciarono ad aumentare e le razioni degli operai a diminuire. Questi ultimi non tardarono a capire che venivano derubati della loro quota a favore di funzionari statali e tirapiedi. Il loro interesse per il lavoro mostrò segni di calo e ben presto gli effetti divennero visibili. Protestammo con Zorin contro quella farsa, che permetteva di trattar male un gruppo di lavoratori per lasciare che un altro gruppo si godesse tempo libero e riposo. Protestammo con egual forza contro lo sfratto forzato di persone la cui unica colpa era l'avere una laurea universitaria. Vecchi insegnanti e vecchi professori occupavano alcune case sull'isola fin dall'“Ottobre” e nessuno aveva mai dato loro fastidio; adesso però loro e le loro famiglie stavano per essere cacciati senza che avessero la possibilità di procurarsi un altro tetto. Zorin aveva chiesto a Sasha di far eseguire gli sfratti, ma Sasha si rifiutò energicamente di fungere da bravaccio dello stato comunista.
“Ma siete sentimentalisti”
Zorin era indignato del nostro «disgustoso sentimentalismo». Un uomo con il passato rivoluzionario di Berkman, diceva, non poteva tirarsi indietro davanti a nessun compito; non faceva alcuna differenza se dei parassiti borghesi finissero sulla strada o si buttassero nella Neva. Gli rispondevamo che far vivere il comunismo nella vita quotidiana della Russia era più rivoluzionario che negarlo e tradirlo in nome di un non meglio precisato futuro. Ma Zorin era troppo accecato dai propri dogmi per vederne gli effetti disgreganti e devastanti. Smise di passare da noi per accompagnarci in auto all'isola. Non volevamo che pensasse che il nostro interesse per il lavoro dipendesse dalla comodità della sua auto continuammo a fare il lungo tragitto a piedi, il che voleva dire tre ore di marcia. Ben presto, però, trovammo altre persone al nostro posto, persone più malleabili dalla macchina politica. Non ci volle molto a capire.
Le case di riposo furono inaugurate con gran clamore. A noi quelle lunghe file di letti di ferro arrugginito allineati nelle vaste camerate, con le loro sbiadite coperture di seta e di felpa parevano fredde, squallide, poco invitanti. Nessun lavoratore dotato di autostima poteva sentirsi a proprio agio o godersi un po' di riposo in un ambiente simile. Molti condividevano il nostro punto di vista ed alcuni erano addirittura convinti che nessuno all'infuori di chi stava nel partito o gli reggeva la coda avrebbe mai visto neppure l'interno della Casa di riposo per lavoratori sulla Kammenny Ostrov.
Proseguimmo per la nostra strada, meditando tristemente sulla tragedia della Rivoluzione e sulle malerbe velenose che ne succhiavano la preziosa linfa. Eppure anche allora non perdemmo ogni speranza, né gettammo la spugna. Da qualche parte, in qualche modo, doveva essere possibile aprirsi un varco. Solo un piccolo inizio, non volevamo altro. Eravamo certi che lo avremmo trovato, bastava perseverare nella nostra ricerca.
Zorin ci aveva detto ripetutamente che le mense per i poveri del soviet erano un orrore e ci aveva chiesto se avevamo qualche miglioramento da proporre. L'interesse di Sasha si riaccese immediatamente ed egli si gettò a capofitto nel nuovo progetto di riorganizzare le nauseanti sale da pranzo. In pochi giorni ne aveva studiato ogni dettaglio, con la precisione che gli era caratteristica. Si trattava di organizzare una catena di self-service che coprisse l'intera città, in modo tale da eliminare il grande spreco di cibo e il personale in eccedenza nelle cucine preesistenti. Anche con le provviste date, per quanto scarse, si potevano servire dei piatti appetibili in ambienti puliti ed accoglienti. Sasha si sarebbe fatto carico dell'organizzazione ed era certo che lo avrei assistito nell'impresa. Saremmo partiti da un piccolo numero di self-service, per poi ampliarlo.
Ma il partito bloccò tutto
Un'idea stupefacente, approvò Zinov'ev. Come mai nessuno ci aveva pensato prima? Molto semplice e facile da mettere in pratica. Ci fu un grande entusiasmo da tutte le parti, ci furono molte promesse. Pietrogrado era piena di magazzini che erano stati chiusi e sigillati dopo la Rivoluzione: Sasha poteva scegliere l'arredamento adatto, far ristrutturare gli ambienti prescelti e ottenere le provviste e quant'altro gli occorresse. Il mio compagno era di nuovo pronto a lanciarsi nell'impresa e non stava in sé dall'impazienza di mettere le proprie capacità organizzative a disposizione del progetto.
Questa volta non ci sarebbero stati ostacoli imprevisti, ci venne assicurato. Ma la burocrazia bloccò ogni iniziativa presa fuori dal suo controllo. Cominciarono a sorgere difficoltà nei punti più impensati. I funzionari erano troppo occupati per assistere il lavoro di Sasha e, dopo tutto, che importanza avevano delle sale da pranzo salubri in vista della rivoluzione mondiale che doveva scoppiare da un momento all'altro? Era assurdo dare risalto a un miglioramento a breve respiro a fronte della situazione generale. Nel migliore dei casi non poteva avere alcun effetto di vitale importanza sul corso della Rivoluzione. E Berkman poteva occuparsi di qualche incarico più importante, non doveva darsi da fai come un riformista. Molto deludente, e pensare che tutti lo avevano ritenuto un rivoluzionario inflessibile. Era anche molto ingenuo da parte di Berkman sostenere che sfamare le masse fosse la prima preoccupazione della Rivoluzione, o che le speranze della sua sopravvivenza si fondassero sull'attenzione per la gente, l'appagamento dei loro bisogni e la loro felicità, come se questi ne costituissero di fatto l'unica raison d'étre l'unico significato morale. Sentimentalismi di questo tipo facevano parte della più pura ideologia borghese. Erano l'Armata Rossa e la Ceka costituire la vera forza della Rivoluzione, la sua miglior difesa. Il mondo capitalista lo sapeva e tremava di fronte alla potenza della Russia in armi.
Così svanì un'altra speranza, come era successo a quelle precedenti, ma solo per riaccendersi di nuovo ad ogni battito di un cuore valoroso. La determinazione e la forza di Sasha non erano mai state così grandi, e anche la mia perseveranza yiddish si rifiutò di arrendersi. Non tutti i fiumi sovietici portano alle stesse pozzanghere fangose, pensavamo. Ce ne dovevano essere altri che scorrevano fino al mare profondo e vivificante. Dovevamo tener duro e ricercare altri settori.
Vietati i dubbi
Parlai delle condizioni degli ospedali con la moglie di Lashevic, un amico di Zinov'ev tenuto in gran conto nei circoli bolscevichi. Le dissi che ero un'infermiera professionale e che sarei stata felice di offrire il mio contributo ed ella si offrì di sottoporre la mia proposta all'attenzione del compagno Pervukhin, il funzionario preposto al Commissariato alla Sanità a Pietrogrado. Passarono delle settimane prima di ricevere la sua risposta e quando infine giunse mi precipitai al ministero.
Ma come, un'infermiera professionale che aveva già trascorso mesi in Russia e che non era stata ancora assegnata al suo ufficio? Si lamentò Pervukbin. Avrei dovuto sapere che erano alla ricerca disperata di persone come me. Gli ospedali versavano in condizioni spaventose e c'era un'enorme penuria di dispensari e di personale qualificato, per non parlare delle attrezzature mediche e degli strumenti chirurgici. Aveva lavoro per centinaia di infermiere americane ed io ero restata senza far nulla per tutto quel tempo: dovevo cominciare subito, sentenziò. Quanto alla sua collaborazione, potevo contarci fino in fondo, e comprendeva anche un'auto per i miei spostamenti. Appena fossi stata pronta ad iniziare, mi avrebbe condotto di persona a fare il primo giro di ispezione. Potevo presentarmi già la mattina successiva?
Sì e anche di buon'ora, gli risposi, ma aggiunsi che non doveva sopravvalutare le mie capacità e la mia rilevanza rispetto al compito immane che ci stava davanti. Avrei fatto comunque del mio meglio, questo mi sentivo di prometterglielo. Replicò che non si aspettava niente di meno da parte di una tovarishch, da parte di una vecchia rivoluzionaria e comunista qual ero, stando alle informazioni ricevute. Certo che ero una comunista, assentii, ma della scuola anarchica. Oh, certo, capiva benissimo e per lui non faceva differenza: anche molti anarchici l'avevano capito ed erano schierati al fianco del partito, lavorando con i bolscevichi e facendo un ottimo lavoro. «Anch'io sono con voi, e difenderò la Rivoluzione fino all'ultimo respiro» esclamai. Non stavo però dalla parte del comunismo che appoggiava la dittatura, specificai: a quello non potevo rassegnarmi, dato che non riuscivo a vedere neanche il più lontano rapporto tra la forma stato coatta e imposta dal comunismo e la libera, volontaria cooperazione del comunismo anarchico.
In situazioni analoghe avevo visto i comunisti cambiare tono e modo di fare così spesso che non fui sorpresa dall'improvviso mutamento che si verificò nel Commissario Pervukhin. Il gentile medico tanto preoccupato per la salute della gente, il filantropo che fino a un momento prima si era lamentato della mancanza di infermiere per assistere i malati e gli afflitti, diventò di colpo un fanatico della politica che traboccava aggressività e risentimento. Gli chiesi perciò se il mio diverso punto di vista avesse qualche rilevanza rispetto alla cura degli infermi o se viceversa lui pensasse che inficiasse la mia utilità in quanto infermiera. Si costrinse a un forzato sorrisetto e mi rispose che nella Russia sovietica chiunque volesse lavorare era il benvenuto. Non venivano messe in questione le idee di nessuno, purché si fosse dei veri rivoluzionari, disposti ad accantonare qualsiasi considerazione politica. Lo avrei fatto? Gli risposi che non facevo alcuna promessa, tranne una: quella di aiutarlo al meglio delle mie capacità.
La macchina burocratica onnipresente
Ripassai da lui il giorno seguente e feci altrettanto ogni giorno per una settimana. Pervukhin non mi accompagnò a fare il giro di ispezione già progettato e mi tenne per ore nel suo ufficio a discutere sull'infallibilità dello stato comunista e sull'immacolata concezione della dittatura bolscevica. Bisognava accettare senza avere dubbi o si veniva tagliati fuori. Ospedali in condizioni spaventose, mancanza di attrezzature mediche, inadeguata assistenza dei pazienti: tutte questioni di scarsa rilevanza rispetto alla prescritta fede nella nuova trinità. Evidentemente non c'era più un «disperato bisogno» di me. E venni tagliata fuori.
Con l'aiuto del mio giovane vicino all'hotel Astoria, Kibalcic, riuscii a visitare alcuni ospedali. Le loro condizioni erano effettivamente spaventose, e la vera causa non erano tanto l'attrezzatura deficitaria o la mancanza di infermiere, quanto la macchina onnipresente: la “cellula” comunista, i commissari, e sospetti e sorveglianza senza fine. Medici e chirurgi con una grandissima esperienza nella loro professione e con una commovente dedizione al lavoro erano ostacolati a ogni pié sospinto e venivano paralizzati da quell'atmosfera fatta di paura, di odio, di terrore. Perfino i comunisti erano ridotti all'impotenza.
Alcuni non erano stati del tutto privati di sentimenti umani da parte del regime, ma dato che facevano parte dell'intellighenzia, erano considerati personagigi dubbi e tenuti sotto controllo. Capii perché Pervukhin non potesse includermi tra il personale alle sue dipendenze.
Questi bruschi richiami alla realtà nell'Arcadia sovietica della dittatura furono seguiti da scossoni ripetuti e ancora più prepotenti, che contribuirono a sradicare la fiducia da me a lungo riposta nei bolscevichi come araldi dell'“Ottobre”.
La militarizzazione del lavoro, decisa in tutta fretta da IX Congresso del partito con metodi a rullo compressore stile Tammany Hall, trasformarono definitivamente ogni lavoratore in galeotto. La sostituzione nelle fabbriche e nelle officine della gestione cooperativistica con una direzione aziendale riportò le masse sotto il dominio di quegli stessi elementi che nei tre anni precedenti esse avevano imparato ad odiare come il loro peggior nemico. Gli “specialisti” e i professionisti dell'intellighenzia, denunciati in un primo tempo come vampiri e nemici, colpevoli di sabotaggio nei confronti della Rivoluzione, vennero installati in posizioni di comando e dotati di potere quasi assoluto su coloro che lavoravano in fabbrica. Era un passo che in un colpo solo distrusse le conquiste principali dell'“Ottobre”, vale a dire il diritto degli operai di esercitare il controllo sulla produzione.
Ai danni si aggiunse la beffa quando venne introdotto il “libretto del lavoro”, che di fatto marchiava chiunque come un criminale, lo privava delle ultime vestigia di libertà, gli toglieva la possibilità di scegliere posto e tipo di lavoro e lo legava a un dato distretto senza alcun diritto di allontanarsene, pena severe punizioni. Queste misure reazionarie e antirivoluzionarie vennero combattute con determinazione da una considerevole minoranza all'interno del partito e furono ampiamente criticate dal popolo. Tra questi c'eravamo anche noi, e Sasha con maggior deteminazione di me, benché fosse ancora salda la sua fiducia nei bolscevichi. Non era ancora pronto per ammettere dentro di sé quelle cose che già erano ovvie ai suoi occhi, e cioé il tragico fatto che il Frankestein bolscevico stava sgretolando l'edificio dell'“Ottobre”.
Emma Goldman
Camillo Berneri/
A proposito delle nostre critiche al bolscevismo
I
comunisti e i sindacalisti veronesi-moscoviti ci accusano
di compiere opera anti-rivoluzionaria, poichè critichiamo
la politica bolscevica, mentre la rivoluzione russa ha
bisogno di tutta la solidarietà dei partiti d'avanguardia
dell'Occidente perché ancora minacciata dalla politica
reazionaria dell'intesa e perché immersa in un'enorme
sciagura: la carestia.
Meritiamo questo rimprovero? Io credo di no. La nostra
critica al governo bolscevico non implica per nulla mancata
solidarietà con la Russia della rivoluzione e si
differenzia profondamente dalla campagna condotta dalla
stampa reazionaria e social-riformista. Criticare i criteri
ed i metodi del partito comunista russo, illustrare gli
errori e gli orrori del governo bolscevico, è per
noi un dovere ed un diritto, poiché nel fallimento
del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma
delle nostre teorie libertarie. Bisogna, inoltre, notare
che quando la Russia era, per il proletariato italiano,
la terra santa della libertà e della giustizia,
che quando il miraggio del mito russo esercitava il suo
fascino rivoluzionario su tutto il mondo, noi tacemmo,
ad eccezione di qualche voce isolata, poiché la
rivoluzione russa era un grandioso fatto da accettare
così come era, in blocco, se non se ne voleva diminuire
la ripercussione in quei paesi che sembravano, come il
nostro, prossimi a seguire l'esempio che veniva dall'Oriente.
Ma due fatti ruppero il nostro volontario silenzio: le
rivelazioni fatte da Serrati, Colombino, Nofri e Pozzani,
ed altri, e, più che altro, la sistematica importazione
di tutta quanta la letteratura bolscevica russa e lo scimmiottamento
di tutti i criteri tattici e la pedissequa imitazione
di tutti i punti programmatici di Lenin e compagni. Ci
trovammo nella necessità di non più tacere
ciò che era ormai rivelato dalla stampa socialista
e nella necessità di opporci a quella propaganda
giacobina che dilagava tra le masse, pregiudicando quello
che noi riteniamo il giusto indirizzo rivoluzionario.
A tutto questo si aggiunse la reazione anti-anarchica
del governo di Mosca e la convinzione che la politica
dei bolscevichi russi portasse ad un ripiegamento rivoluzionario
in Russia e nell'Occidente.
I comunisti ebbero torto a fulminarci come piccoli-borghesi
e come anti-rivoluzionari ed hanno torto a persistere
in questo atteggiamento di ostilità.
(...)
È inutile sofisticare su quello che la rivoluzione
russa avrebbe potuto essere. Essa è quella che
è. E nel criticare il suo attuale arresto bisogna
tener conto del fatto che alla politica di ripiegamento
del governo bolscevico contribuiscono realtà più
forti dei principî teorici.
I contadini si sono appropriati delle terre che, di diritto,
sono nazionalizzate, ma, di fatto, sono suddivise tra
i piccoli proprietari che costituiranno la futura borghesia
rurale.
Lo scambio dei prodotti, più o meno clandestino,
è generale ed arricchisce tutta una categoria di
nuovi pescecani. La burocrazia sta costituendo una nuova
classe di privilegiati. In tutto questo complesso di ricorsi
economici e sociali bisogna ricercare le cause della nuova
politica bolscevica, la quale ha contribuito a creare
la nuova situazione ma non è stata essa sola a
determinarla.
Ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è capace
il popolo che la compie. L'economia russa era primitiva.
Il regime czarista dimostra come fosse primitiva e retrograda
anche la vita politica della Russia. Non si può
dunque giudicare con criteri occidentali una rivoluzione
che appartiene più all'Asia che all'Europa.
Con questo non vengo a giustificare tutta la politica
bolscevica. Credo anzi necessario criticare il regime
bolscevico perché ad esso guardano, come ad un
archetipo, i comunisti italiani, ma credo anche necessario
impostare la nostra critica su più solide basi.
E per fare questo bisogna osservare la rivoluzione russa
con occhio storico più che con occhio politico.
Questo tentativo di obbiettività, che non esclude
la critica, ma la rende più acuta e più
giusta, gioverà anche a liberarci di molti apriorismi
teorici che minacciano di irrigidire il nostro movimento
e di allontanarlo dall'esatta comprensione della vita
odierna, che presenta aspetti nuovi e non sempre tali
da conciliare la realtà delle cose e degli uomini
alle ideologie dell'anarchismo classico.
Camillo Berneri, 1922 |
|
Nel
disegno di Xavier Poiret - Il mercato nero. Dal volume 1921-1981 Kronstadt (di Sergio Costa e Xavier Poiret, coop. tipolitografica editrice, Carrara, 1981, pp. 96, € 10,30) |
Volin (Vsevolod Michajlovic Eichenbaum)/
Una guerra di sterminio contro gli anarchici
Con
l'obbiettivo di impressionare le masse, di guadagnarsi
la loro fiducia e le loro simpatie, il partito bolscevico
lanciò, con tutta l'efficace forza del suo apparato
di agitazione e di propaganda, parole d'ordine che, fino
allora, erano state proprio caratteristiche degli anarchici:
Viva la Rivoluzione Sociale! Abbasso la guerra! Viva
la pace immediata! La terra ai contadini! Le officine
agli operai!
Le masse lavoratrici le fecero subito proprie, perché
quegli slogan esprimevano perfettamente le loro aspirazioni.
Ora, nella bocca e sulla penna degli anarchici tali parole
d'ordine erano sincere e concrete, perché corrispondevano
ai loro principi e, sopratutto, concordavano con il metodo
di azione da loro predicato. Mentre per i bolscevichi
le stesse parole d'ordine implicavano soluzioni pratiche
totalmente diverse da quelle dei libertari e non rispondenti
per nulla alle idee che le parole intendevano di esprimere.
(...)
La lotta fra le due concezioni della Rivoluzione Sociale
statale-centralista e libertaria-federalista, era ineguale
nella Russia del 1917. La concezione statale ebbe il sopravvento.
Il governo bolscevico s'installò sul trono vacante.
Lenin ne fu il capo incontrastato. (...)
II nuovo governo – bolscevico – era, in sostanza,
un governo di intellettuali, di dottrinari marxisti. Installati
al potere, pretendendo di rappresentarvi i lavoratori
e conoscere in maniera esclusiva il vero mezzo per condurli
al socialismo, essi intendevano governare, anzitutto a
mezzo di decreti e di leggi, che le masse lavoratrici
erano tenute ad approvare e applicare. (...)
Nel 1919-1920 si intensificarono le proteste e i movimenti
degli operai e dei contadini che si erano delineati nel
1918, contro i procedimenti monopolizzatori e terroristi
del potere bolscevico. Il governo, sempre più implacabile
e cinico nel suo dispotismo, rispose con rappresaglie
vieppiù accentuate. Naturalmente, gli anarchici
erano, come sempre, corpo ed anima con le masse ingannate,
oppresse, in lotta aperta, sostenevano gli operai, e reclamavano,
per i lavoratori e le loro organizzazioni, il diritto
di dirigere direttamente e liberamente la produzione,
all'infuori d'ogni ingerenza di uomini politici. Per i
contadini rivendicavano l'indipendenza, l'auto-amministrazione,
il diritto di trattare liberamente e direttamente con
gli operai. A nome degli uni e degli altri reclamavano
la restituzione di quanto era stato conquistato dai lavoratori
con la Rivoluzione e che il potere «comunista»
aveva loro tolto, e segnatamente la restaurazione del
«vero regime sovietico libero», il ristabilimento
delle «libertà politiche» per tutte
le correnti rivoluzionarie, ecc. In conclusione, esigevano
la restituzione delle conquiste d'ottobre al popolo stesso
e alle libere organizzazioni operaie e contadine.
Naturalmente, essi smascheravano e combattevano, in nome
di tali principi, con la penna e con la parola, la politica
del governo.
Com'era da prevedersi, il governo bolscevico non tardò
a scatenare contro di loro una guerra di sterminio. Dopo
la prima grande operazione della primavera del 1918, le
persecuzioni si succedettero quasi ininterrottamente,
rivestendo un carattere sempre più brutale e decisivo.
Verso la fine dello stesso anno 1918, parecchie organizzazioni
libertarie, in provincia, furono nuovamente messe a sacco;
quelle che, per caso, poterono sfuggire, per la ferocia
dimostrata dalle autorità non ebbero più
la possibilità di fare qualche cosa.
Nel 1919, mentre continuava la repressione nella grande
Russia, incominciarono le persecuzioni in Ucraina dove,
per parecchie ragioni, la dittatura bolscevica si installò
assai più tardi che altrove. Ovunque i bolscevichi
prendevano piede, i gruppi libertari venivano liquidati,
i militanti arrestati, i giornali sospesi, le librerie
distrutte, le conferenze proibite. Inutile dire, tutte
queste misure erano prese per via puramente poliziesca,
militare, amministrativa, totalmente arbitraria, senza
regolare atto di accusa, istruzione o altra procedura
giudiziaria. Il modello era stato dato, una volta per
tutte, dalla «procedura» di Mosca, instaurata
dallo stesso Trotsky nella primavera del 1918. (...)
Nella maggior parte dei casi, la soppressione delle organizzazioni
libertarie era accompagnata da atti di selvaggia violenza,
di vandalismo insensato da parte dei «cekisti»
(poliziotti comunisti) e dei soldati rossi, ingannati
o sovraeccitati: si torturavano selvaggiamente i militanti,
uomini e donne, come dei «criminali»; si bruciavano
i libri, si demolivano i locali, ecc. Era una vera furia
di repressione.
Volin (Vsevolod Michajlovic Eichenbaum), 1947 |
Nelle fabbriche
di Emma Goldman
Durante la visita alle Officine Putilov Goldman e Berkman hanno modo di verificare in concreto quali siano le condizioni dei lavoratori. Restano in fondo al gruppo dei visitatori per riuscire a parlare con un po' di loro. Altro che rivoluzione, al vecchio potere padronale si è sostituito quello della burocrazia partitica.
Il ruolo di cicerone ufficiale non era esattamente di mio gradimento, tuttavia non volli dire di no alla Ravic, che si era sempre dimostrata pronta ad accogliere i miei appelli a favore degli sventurati. Inoltre avevo la sensazione che la situazione russa fosse troppo complessa e vitale e che io non l'avessi ancora afferrata a pieno, anche se ero arrivata alla conclusione definitiva che non avrei lavorato all'interno delle strutture politiche bolsceviche. Mi premeva però non essere citata da qualche giornale americano mentre esprimevo delle posizioni contrarie alla Russia sovietica, perlomeno finché quest'ultima era costretta a combattere per difendere la propria vita su così tanti fronti. Mi trovavo quindi in una situazione imbarazzante, in cui da una parte non volevo che [John] Clayton [giornalista del Chicago Tribune] ottenesse delle informazioni con il mio appoggio, e dall'altra non mi garbava la prospettiva di mentirgli deliberatamente. Alla fine mi dissi che la signora Ravic doveva ben sapere il fatto suo quando aveva concesso a Clayton il permesso di visitare le fabbriche. Probabilmente non erano così terribili come mi era stato detto, oppure aveva pensato che con me come guida forse le cose sarebbero sembrate meno crude. Fortunatamente sarebbe venuto anche Sasha, il che avrebbe dato ad uno di noi due la possibilità di restare indietro e parlare con gli operai mentre l'altro faceva da interprete a Clayton e gli passava la versione ufficiale della situazione.
Anche i muri avevano orecchie
Le officine Putilov mostrarono di essere in uno stato di degrado, con la maggior parte dei macchinari abbandonati, altri fuori uso, e gli ambienti sporchi e trascurati. Mentre Sasha spiegava a Clayton quello che diceva il sovrintendente della fabbrica, io rimasi indietro. Gli operai erano restii a parlare, fino a quando non accennai al fatto che ero una tovarishch americana, non una bolscevica. Ciò faceva una grossa differenza e mi dissero che avevano molto da raccontarmi, ma che anche i muri avevano orecchie. Non passava giorno senza che qualcuno dei loro compagni non tornasse al lavoro. Malati? No, semplicemente avevano protestato a voce un po' troppo alta. Feci presente che, stando a quello che mi avevano detto le autorità, gli operai della Putiov ricevevano razioni decisamente migliori degli altri, proprio in considerazione del fatto che lavoravano in una delle industrie vitali: due libbre di pane al giorno e quantitativi speciali degli altri prodotti.
Gli uomini mi fissarono stupiti. Potevo assaggiare il loro pane nero, propose uno di loro porgendomene un pezzo. «Mordi forte» mi disse ironicamente. Provai a farlo, ma sapendo che non potevo permettermi di pagare il conto del dentista, dovetti ridargli la coriacea pagnotta tra gli sguardi divertiti del gruppetto che mi circondava. A quel punto avanzai l'idea che non si poteva imputare ai comunisti fatto che il pane fosse scarso e di cattiva qualità: se gli operai della Putilov e i loro fratelli nelle altre fabbriche avessero aumentato la produzione, i contadini a loro volta sarebbero stati in grado di produrre più grano. Sì, mi risposero, era proprio quella la storia che veniva loro rifilata ogni giorno per spiegare la militarizzazione del lavoro. Già era stato difficile lavorare con lo stomaco vuoto quando non erano forzati, adesso però era diventato del tutto impossibile.
Il nuovo decreto non aveva fatto altro che aumentare la sofferenza e l'amarezza generali: costringeva operai a lavorare troppo lontano dai villaggi di provenienza, che precedentemente li avevano riforniti di provviste; inoltre era stato aumentato il numero dei funzionari e dei sorveglianti, e anche costoro andavano sfamati. «Delle settemila persone che lavorano qui, solo duemila sono addette effettivamente alla produzione», osservò un vecchio operaio vicino me. Non avevo visto i mercati? Sussurrò un altro. Avevo notato scarsi di prodotti per quelli che potevano pagare il prezzo richiesto? Non ci fu tempo di rispondergli. A un cenno di avvertimento da parte dei compagni di lavoro, gli uomini si affrettarono a tornare ai loro banconi ed io raggiunsi gli altri.
Furti e guardie
La nostra meta successiva aveva l'aria di un campo militare, con sentinelle armate che stazionavano tutt'intorno al grande magazzino all'interno stesso della fabbrica. «Come mai tante guardie?» chiese Sasha al commissario responsabile. Ultimamente la farina aveva cominciato a sparire dal carico, fu la risposta, e di conseguenza erano stati appostati dei soldati per impedire che il danno si ripetesse. Per la verità non erano riusciti a bloccare i furti, comunque alcuni trasgressori erano stati presi. Erano operai portati sulla cattiva strada da un gruppo di speculatori.
Quella spiegazione ufficiale non mi suonava del tutto plausibile, perciò rallentai il passo nella speranza di avvicinarmi a qualcuno dei lavoratori. Conoscevo ormai la parola d'ordine giusta: «Vengo dall'America e vi porto i saluti e la solidarietà del proletariato militante insieme a delle sigarette in regalo». Un giovanotto dai lineamenti decisi e con lo sguardo, intelligente catturò la mia attenzione mentre mi passava a fianco con un sacco di farina sulle spalle. Quando ritornò a prenderne un altro, provai la mia chiave magica. Funzionò.
Gli chiesi dunque perché ci fossero tanti soldati armati in giro. Non sapevo del nuovo decreto che militarizzava il lavoro? mi chiese a sua volta. I lavoratori lo avevano sentito come un insulto alla loro determinazione rivoluzionaria. Come risultato i loro fratelli soldati, che li avevano aiutati durante i giorni di Ottobre, adesso li controllavano come cani da guardia. Gli chiesi dei furti di farina e se le guardie non fossero state mandate lì per impedirli. L'uomo sorrise tristemente e mi disse che nessuno meglio dei commissari sapeva chi rubava la farina, dato che erano loro stessi a farla passare dai cancelli. «E la rivoluzione? Non ha dato niente a voi lavoratori?» gli chiesi. «Oh sì, ma tutto si è fermato molto tempo fa» mi rispose. «Adesso è come una pozza stagnante. Ma scoppierà di nuovo, niente paura».
Quella sera, mentre Sasha ed io confrontavamo i nostri appunti, fummo d'accordo nel dire che avevamo visto tutto quello che volevamo sapere sulle condizioni delle fabbriche sovietiche. Potevamo lasciare il dubbio onore che ci era stato conferito alle guide ufficiali, che erano meno schizzinose di noi quando si trattava di cambiare il nero in bianco e il grigio in rosso splendente. Sasha si rifiutò recisamente di far ancora da cicerone ed io portai a termine il mio non richiesto incarico accompagnando Clayton alle manifatture di tabacco Laferm. Le trovammo in buone condizioni, anche perché il precedente proprietario e lo stesso direttore erano ancora alla guida del complesso.
Emma Goldman
Gli stralci sono ripresi dal libro Vivendo la mia vita (1917-1928)
(Zero in Condotta, Milano, 1993, pp. 386)
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