Rivista Anarchica Online






Il torto

Ogni tanto mi vengono in mente cose del passato. Forse invecchio, e divento nostalgica. Così oggi, mentre in un'aula di università spiegavo il rapporto tra Illuminismo e Romanticismo, mi sono ricordata di quando, in un paesino della provincia marchigiana, nella scuola media quasi spopolata che sopravviveva un po' a stento, un'insegnante mia amica stava spiegando lo stesso argomento, con parole più semplici e con molti esempi.
E alla fine della lezione, soddisfatta della chiarezza con la quale le sembrava di aver posto i concetti, e osservando alla lavagna il sistema di opposizioni che aveva disegnato, si è voltata e ha scelto uno studente a caso, il più timido, quello che forse un giorno sarebbe diventato un artista e che in quel preciso momento stava disegnando cerchi colorati su un foglio bianco. Lo ha scelto e gli ha chiesto: «Quindi, Mario, se l'Illuminismo è l'epoca della ragione, il Romanticismo, che è il suo opposto, è l'epoca ...?»
Quello ha spalancato inermi occhi azzurrissimi e ha esclamato soddisfatto: «L'epoca del torto!»
E non faceva una grinza. Nel sistema di opposizioni, il contrario della ragione è il torto, quello che oggi abbiamo sempre, noi insegnanti di ogni ordine e grado, se lavoriamo bene e con coscienza, ma magari ci immaginiamo che il nostro faticare venga premiato, non necessariamente con denaro sonante, forse anche col semplice riconoscimento di quel che facciamo. Questo, apparentemente, è impossibile, e non è sempre colpa solo delle istituzioni. A volte la responsabilità cade su una serie di principi corporativi che, per difendere tutti, non proteggono nessuno.
Scriverò una cosa molto impopolare ora. Scriverò sulla questione dell'illicenziabilità di un dipendente dello stato, condizione sempre fortemente voluta e che si è trasformata in una ghigliottina che al tempo stesso uccide la fantasia, azzera l'impulso verso ogni forma di originalità (che tra non molto arriverà a essere punita per legge) e spesso innesca una strana gara a chi lavora di meno, perché chi lavora di più alza colpevolmente lo standard, e questo potrebbe avere conseguenze deteriori sulla pratica, ampiamente tollerata, del fancazzismo inoffensivo.
Questo è un principio non scritto ma ampiamente rispettato: fare meno possibile, cercando di non disturbare il quieto svolgersi di pratiche consolidate e legate all'interpretazione della legge. Sono pratiche supremamente attendibili, e ciò che le rende tali – soprattutto nella scuola, meno nell'università – è l'impossibilità prescrittiva di far carriera, che è compensata (si fa per dire) da una clamorosa illicenziabilità. Essa è applicata, mi pare, in Italia a ogni struttura pubblica, dal consiglio dei Ministri in giù: se si fa male il proprio lavoro, la penalità è la rimozione topografica, non professionale. Si viene estirpati da un posto per andare a far danno in un altro. E si viene puniti, più spesso di quanto si pensi, se si pretende di lavorare bene.

È parte della vita

Quando si subisce quest'ultimo sopruso, la soluzione possibile è solo l'intervento armato di un leguleio, ma anche quella è pratica complicata e costosa. Il ricorso al TAR, del quale non ho esperienza diretta alcuna, a guardarlo da fuori è un percorso talmente casuale da essere superato in termini di rigore persino dalla procedura della paglia più corta o dal famoso metodo scientifico del lancio della moneta.
In tutto questo – anche qui andando in controtendenza rispetto alla prospettiva attuale – continuo a pensare che l'istruzione debba essere pubblica e accessibile a tutti (anche se mi piacerebbe che fosse anche ben fatta). Continuo a pensarlo per un motivo elementare: essa non è scorporabile dalla vita reale, e nella vita reale, la cultura non dev'essere funzionale allo stipendio, vero o fittizio che sia.
Quando racconto queste cose alle mie figlie, di norma mi rispondono: «Va bene, mumis. E com'è che finisce la favola?» È preoccupante che alla mia età io creda ancora in queste cose. Che si possa cioè “fare scuola“. E che questo significhi insegnare la vita, la memoria, quel che serve per operare delle scelte, il senso di essere liberi, alcuni elementari principi etici, cosa comprare al supermarket senza avvelenarsi, e, perché no, quale erba si fuma e quale è meglio di no.
Perché tutto questo è parte della vita, e non si scappa.

Nicoletta Vallorani