Rivista Anarchica Online


astensionismo

La nostra astensione (dal voto)
la nostra partecipazione (alle lotte sociali)


Gli anarchici sono l'unico movimento che non partecipa alle elezioni politiche. In un mondo in cui la gente che si reca alle urne va generalmente calando, siamo sempre più circondati da persone che apparentemente fanno come noi. Ma il nostro astensionismo niente ha a che vedere con quello di chi diserta le urne perché “se ne frega”, “tanto non c'è più nessuno che sappia comandare”, ecc...
La nostra astensione è uno dei nostri modi per partecipare alla vita sociale, cercando di indirizzarla verso modalità di partecipazione diretta, autogestione, presa in carico dei problemi da risolvere.
Noi pensiamo che la delega ai potenti di turno per risolvere i problemi sociali – dalla disoccupazione alla violenza di genere, dai diritti negati alla mancanza di solidarietà, ecc. – sia un messaggio sbagliato. Con la nostra scelta astensionista, ci schieriamo ancora una volta contro il qualunquismo e... la delega.
Disertare le urne, per intensificare il nostro quotidiano impegno sociale. Questo il nostro messaggio. Il prossimo 4 marzo e oltre.



Vuoi vedere che l'astensionismo è attuale?

di Andrea Papi

I governi possono ben poco in modo autonomo, sottoposti alle fortissime pressioni economico-finanziarie sovranazionali. E il voto conta sempre meno. Anche per questo la partecipazione alle urne tende a calare, in Italia come altrove. Il senso del nostro impegno al di fuori dei riti elettorali.
Anche questa logora legislatura italiana è giunta ormai al fine. Così, per la gioia di alcuni e la noia di altri, il prossimo 4 marzo gli aventi diritto avranno di nuovo la possibilità di votare.


“Finalmente si andrà a votare e torni la voce al popolo” – dicono le attuali opposizioni. Mai balla fu più colossale. Nonostante sia un rituale ormai sfiancato e sempre più depresso, continua ad essere gabellato per la massima partecipazione democratica. A onor del vero è invece un consunto mezzo per spingerci a scegliere chi ci deve comandare, una manfrina che viene riproposta con assillante spietatezza da tutte le forze in lizza, continuando a voler far illudere che chi vincerà sarà il popolo perché, dicono i partecipanti all'agone, avrà scelto un'altra volta.
In realtà, se proprio di scelta si vuol parlare, sarà solo l'occasione perché una minoranza che si autoproclama maggioranza possa scegliere chi dovrà governare per la durata della prossima legislatura, dimenticando che, come già a suo tempo aveva individuato Proudhon, essere governato vuol dire essere sottoposto in tantissimi aspetti della vita, rinunciando ad ogni vera autonomia decisionale. È per caso migliore chi riesce a estorcere più consensi? Ha per caso ragione chi vince, solo perché ha vinto attraverso un gioco di deleghe di potere?
Date le esperienze poco invitanti in tal senso che la nostra storia ci ha propinato, queste favoline non dovrebbero più incantare. Non a caso cresce ogni volta il numero delle astensioni, delle schede nulle e di quelle bianche. Coloro che hanno capito che non conteranno comunque sono ormai la maggioranza della popolazione, alcuni perfino consapevoli che partecipare al voto vuol dire soprattutto essere complici di un sistema politico ingannatore e autoritario. Le percentuali di voto su cui vengono fatti i governi non sono altro che l'espressione di una minoranza la quale, compiendo un atto di grande autoritarismo politico, imporrà le proprie decisioni anche a chi a buon diritto ha deciso di astenersi.

La qualità dell'oppressione

Ma se vogliamo veramente guardare in faccia alle cose, i problemi che ci riguardano sono molto più ampi di questo stanco rituale e la contraddittorietà del sistema elettorale è soltanto un aspetto, seppur non secondario, di un insieme di sistemi di dominio e soggiogamento politico/economico che contribuiscono a renderci la vita sempre più infelice. Chi anela a un modo di vivere che abbia la dignità di corrispondere alle aspirazioni connaturate in ogni essere vivente, chi aspira a conoscere autentiche libertà e concrete possibilità di essere veramente autonomo, non può accettare di poter risolvere le proprie istanze di vita attraverso forme dette di democrazia rappresentativa che stanno schiacciando gli ideali di libertà autentica. Senz'altro più accettabili delle spietate dittature che in numero sempre maggiore impestano il mondo, ma del tutto insufficienti.
Per chi come me ha sperato, desiderato e amato e continua a sperare, desiderare e amare una situazione sociale emancipata da oppressioni e sfruttamento cercando di spendersi per essa, ciò che nell'oggi si prospetta all'orizzonte è troppo deludente, più fallimentare che altro. Il quadro che si prospetta, oltre a non essere affatto eclatante, appare addirittura carico di timori e genera pessimistiche apprensioni.
La qualità dell'oppressione da parte dei poteri di turno, da quelli costituiti a quelli più o meno occulti, è grandemente aumentata in efficacia. Sta mutando in profondità, per esempio, la qualità del potere, inteso come capacità di dominare. L'esercizio del dominio avviene sempre di più attraverso forme coattive-costrittive ingabbianti, che non permettono di fare diversamente da quello che il contesto egemone ti obbliga a fare. Metodologie e tecniche di assoggettamento vanno oltre la gerarchica sottomissione (mettere sotto). La classica pretesa di obbedienza, il comando da superiore a inferiore, tuttora prerogativa di situazioni la cui configurazione organizzativa lo richiede, non è più strettamente necessaria. Siccome imporre attraverso il comando comporta sempre il rischio della ribellione e della disobbedienza con tutto ciò che ne consegue, è molto più efficace rendere impossibile il far diversamente da ciò che la condizione impone. Questa modalità sta perciò diventando progressivamente il modus operandi egemone.
Anche il potere economico non è più lo stesso delle dotte analisi di classe otto e novecentesche. Il suo punto di forza non è più la proprietà privata. Il capitalista proprietario, che imponeva il suo potere all'insieme della società con la forza del possesso del capitale produttivo da cui ricavava enormi profitti, non è più l'apice del potere che s'impone, quindi ha smesso di essere l'antagonista di classe per eccellenza. La forza dominante sulle società umane del pianeta è stata trasferita alla speculazione finanziaria globale, inarrestabile potenza sovraterritoriale e sovrastatale, in grado di mettere in ginocchio intere popolazioni e intere nazioni, com'è successo per esempio con Grecia e Argentina. Al contempo, la sua sistematica incidenza sull'andamento delle politiche economiche degli stati sta portando a una degenerazione inarrestabile, per cui un numero esiguo di speculatori sono diventati ricchissimi continuando ad aumentare il loro accumulo di capitali, a fronte di un aumento sistematico di povertà, miseria e costrizioni familiari sempre più insopportabili.
A fianco e in conseguenza di queste situazioni di base, succede che il potere degli stati nazione si stia riducendo progressivamente. Il potere economico-finanziario, sia nelle sue scorribande speculative sia nella dislocazione produttiva delle multinazionali, si muove in modo autarchico a livelli sovranazionali e sovrastatali. Non gli interessano i confini e non ne ha, oltre a non tener conto di quelli che ci sono.
Essendo il fulcro della capacità di dominare e condizionare globalmente in questa fase, determina una situazione per cui gli stati con le loro politiche nazionali si trovano costretti. Non possono non muoversi dentro gli ambiti di manovra e condizionamento determinati dalla ineludibile influenza dell'enorme potenza economico-finanziaria globale. Così la loro autonomia di decisione e la possibilità delle loro scelte politiche è irrimediabilmente ridotta, sempre più ristretta,
È la ragione principale per cui i governi possono ben poco in modo autonomo, indotti fino al punto di essere obbligati a subire le fortissime pressioni economico-finanziarie sovranazionali. Se non lo facessero verrebbero schiacciati in breve tempo e le loro popolazioni ridotte in malo modo. È soprattutto questa la ragione per cui qualunque sia la forza politica che abbia l'incombenza di governare, destra sinistra centro non ha importanza, fa più o meno le stesse cose e non può fare diversamente. Non a caso le differenze di proposta e d'intervento tra coloro che aspirano a governare sono tecniche o funzionalistiche, non di sostanza.

La politica imbavagliata

La politica in quanto tale, funzione regolatrice e fattore di cambiamento, che è sempre stata il luogo dell'esercizio della decisionalità più elevata del potere, è così imbavagliata, tendenzialmente annullata nella sua essenza. La sua autonomia è ridotta all'osso e le sue possibilità d'intervento sono sempre più limitate ad amministrare il flusso incontrollabile dei poteri che la sovrastano. La politica conta sempre meno e i politici, loro malgrado, sono esecutori amministrativi per conto di... In un tale contesto la capacità del politico, oltre ad amministrare quando raggiunge cariche governative, si riduce a gestioni di tipo clientelare, quando riesce a conquistare postazioni da cui può manovrare, e a chiedere e conservare consensi per mantenere la sua posizione.
Il sistema di dominio vigente non riesce più ad essere messo in discussione, mentre tutti coloro che competono elettoralmente si propongono di governarlo, regolamentarlo e aggiustarlo. Nei fatti le promesse sono specchietti per le allodole. Per legge non c'è nessun mandato da rispettare e sistematicamente non vengono onorate. Purtroppo nessuno dice la verità: siccome strutturalmente non può esser messo in discussione da chi è chiamato ad amministrarlo territorialmente, il sistema è ingovernabile e non è neppure riformabile, se non nel senso di qualche aggiustamento di facciata che non ne muta la sostanza. Tutti competono per vincere e provare a governare ciò che è solo amministrabile secondo direttive intrinseche su cui non si può intervenire. Nessuno può decidere veramente e dare una svolta propria per cambiare il corso delle cose, magari a favore dei più deboli e reietti. Tutto ciò non interessa al sistema. Non per cattiveria, ma perché non è funzionale al percorso intrapreso, impostato per continuare.
Questo mix di per sé già preoccupante, fra l'altro, è strettamente collegato a un avanzare tecnologico che attraverso le interconnessioni elettroniche sta trasformando la qualità delle relazioni in ogni ambito della nostra vita, sempre più dipendente dalla programmazione computerizzata, oltre a incidere profondamente nel sistema produttivo, dove la presenza operaia tende ad essere sempre meno rilevante rispetto alla preminenza robotica e informatica. Ciò che sta succedendo in tal senso è una vera e propria ingerenza a tutto campo, che sta cambiando i modi di pensare e percepire la realtà.
Al contempo in questa fase storica si sta verificando che la generalità dell'opinione pubblica, come pure tensioni e umori diffusi, siano tendenzialmente spostati a destra in modo preoccupante, come dimostra l'aumento di insofferenze xenofobe e di spiriti nazionalistici e sovranisti, sempre più frequentemente richiedenti uomini forti al comando per risolvere le ansie generate dall'aumento di malessere sociale che sta affliggendo le società.
È una giostra priva di speranza. Attraverso le elezioni e il sistema di governo in atto nulla di ciò che preme ad anarchici e libertari, utile umanamente e socialmente, può veramente mutare. Il cammino intrapreso dal potere dominante appare inarrestabile. Senz'altro non può essere mutato, o interrotto, neppure rallentato, attraverso gli strumenti amministrativi vigenti. I governi servono soprattutto per conservarne la funzionalità e il proseguimento di ciò che effettivamente è e si vuole che sia. Chi spera in un cambiamento radicale a favore dell'uguaglianza e della giustizia sociale non può pensare di poterlo fare attraverso interventi interni al sistema di cose presente, nell'illusione, continuamente frustrata, di agire per un cambiamento. Per tutto ciò pure questa volta, con ancora più convinzione delle precedenti elezioni, ci asterremo dal voto sicuri di fare un prezioso servizio per le aspirazioni della libertà sociale.
Se c'è una possibilità d'intervenire per tentare di mutare un sistema ingiusto e iniquo come quello che stiamo subendo, essa può prendere forma solo al di fuori degli strumenti governativi vigenti, reinventando, attraverso metodologie di decisionalità orizzontale, modi e forme di autogoverno che ridiano voce e dignità alle persone.

Andrea Papi
www.libertandreapapi.it



Astensione ed educazione

di Francesco Codello

Le pratiche educative libertarie, perlomeno come si configurano all'interno delle esperienze di scuole antiautoritarie, costituiscono soprattutto un concreto esempio di con-divisione di ogni aspetto dell'organizzazione tra i membri partecipanti, e rappresentano altresì un'evoluzione di consuetudini comportamentali. In questo quadro ciò che appare come decisivo è proprio quell'insieme di pratiche e di atteggiamenti relazionali che qualificano in modo radicalmente diverso queste esperienze.
Ogni gruppo sociale definisce delle regole dello stare insieme e il processo attraverso il quale queste disposizioni vengono assunte e modificate fa la differenza sostanziale tra forme di organizzazione gerarchica e statuale ed esempi di partecipazione diretta e attiva. Il tradizionale astensionismo anarchico, rispetto ai processi di delega elettorale, per non restare esclusivamente una denuncia (sacrosanta) delle forme di democrazia parlamentare maggioritaria, trova nutrimento in sperimentazioni educative che riescono a concretizzare esempi di modalità alternative di organizzazione non gerarchiche, ma egualitarie.

Oltre l'astensionismo tradizionale

Ciò di cui abbiamo bisogno è proprio di superare la denuncia e la fase negativa della nostra azione (peraltro sempre importante) attraverso pratiche sperimentali di organizzazione del processo decisionale, che superino l'evidente contraddizione insolubile insita nella cosiddetta democrazia rappresentativa. Insomma credo quanto mai importante e urgente di inserirsi in tutti quei contesti di autogestione e di democrazia diretta, che esistono in vari ambiti (non solo squisitamente educativi), e provare e testare modalità di gestione coerenti con la nostra visione libertaria. Proprio dall'osservazione di questi comportamenti virtuosi è possibile trarre alcune riflessioni che aiutino questo processo di cambiamento radicale rispetto non solo a delle modalità (tecnicismi) di organizzazione ma, soprattutto, a cogliere con che profondità queste pratiche incidono nell'assunzione di posture libertarie all'interno di un gruppo di condivisione. Ecco allora che emergono alcuni interrogativi e si pongono alcune questioni più teoriche che scaturiscono proprio dal fare quotidiano, dall'essere in situazione, dalle scelte che si impongono all'interno di una grande e piccola comunità auto-educante.
Nell'ambito ristretto di queste pagine è possibile solo elencare alcune problematiche che emergono, ognuna delle quali meriterebbe uno specifico approfondimento, ma mi sembra importante anche solo stendere un possibile elenco. Ciò che va detto con chiarezza è che, ovviamente, ogni singola situazione può rappresentare e contenere uno o più elementi di approfondimento, inoltre che ogni soluzione adottata può non essere completamente praticabile in contesti diversi. Ciò che sta alla base comunque è comune a tutte le pratiche di sperimentazione antiautoritaria: impedire la formazione di ogni forma di dominio e l'instaurarsi di qualche forma di disuguaglianza.
Ecco allora un possibile primo elenco (in ordine non di importanza) di questioni aperte, come sono state da me dedotte dall'osservazione di queste esperienze: esiste un vincolo tassativo che impegna tutti i membri di un gruppo al rispetto di decisioni assunte collettivamente (con tutte le implicazioni successive)? Ogni regola che viene assunta prevede necessariamente una sanzione nel caso venga disattesa? La deliberazione all'unanimità e il superamento della logica della maggioranza garantisce una coerente decisione rispetto al fine oppure si può negare il valore libertario di una scelta anche all'unanimità? Le decisioni che si assumono hanno tutte lo stesso valore oppure ci sono alcune di esse che potrebbero contraddire in maniera radicale il fine dell'associazione? Può (o deve) esistere un diritto di veto individuale a salvaguardia di un processo autenticamente antiautoritario? In altri termini: è più importante garantire la correttezza del processo oppure la qualità della scelta finale? Quali sono (se ci sono) i modi, i tempi, i limiti, le potenzialità di un processo decisionale? In che modo il gruppo si interroga su se stesso, come contiene le possibili frustrazioni che emergono rispetto a una decisione presa? Come si può controllare la possibile manipolazione occulta che deriva da diversi fattori? Insomma una infinità di problematiche ci appaiono sempre più evidenti quando sperimentiamo quell'al di là della democrazia che rappresenta un nostro fine possibile. Andiamo oltre dunque l'astensionismo tradizionale e proviamo a sperimentare forme alternative che sole ci possono aiutare a configurare un altro mondo possibile e urgente.

Francesco Codello




46 anni fa/ Il solito imbroglio

di Amedeo Bertolo (1972)

In vista delle elezioni politiche del maggio 1972, con il suo abituale pseudonimo di “A. Di Solata”, l'allora redattore di “A” scriveva questo articolo astensionista. Molto legato al linguaggio dell'epoca e coerente con il tono militante di quella fase iniziale della nostra rivista, Bertolo critica con particolare vigore la scelta votaiola dell'estrema sinistra marxista, compreso il quotidiano comunista “Il Manifesto” che propone la candidatura di Pietro Valpreda, allora detenuto. Candidatura-protesta propostagli da quel giornale e criticata dal movimento anarchico organizzato.
Quasi mezzo secolo fa, le ragioni di una scelta.


A un mese dalle elezioni, la campagna pubblicitaria è ancora abbastanza fredda, nonostante tutto. E impareggiabilmente monotona. Ricompaiono sugli squallidi tabelloni i consunti simboli, i soli nascenti, gli scudi crociati, le falci-martello, le fiamme tricolori, le foglie d'edera,... vecchi marchi di fabbrica di vecchia merce avariata.
Con gli slogan pubblicitari, si sa, si va a mode (il “bianco - più - bianco”, il “biologico”...): i mercanti della politica quest'anno hanno scelto per la loro immagine elettorale il filone dell'“ordine”. Tutti promettono ordine, dai fascisti ai comunisti. Ordine e democrazia, naturalmente: tutti, dai comunisti ai fascisti. Tutti cercano così di raccogliere i frutti di tre anni di provocazioni, di attentati fascisti, di strategia della tensione. Perfettamente a loro agio in questo filone pubblicitario i democristiani ed i neo fascisti del PSDI, più truculenti i missini, più goffi i comunisti.
Assieme all'universale amore d'ordine la campagna elettorale mostra sin dagli inizi un altro tratto comune: la simulata convinzione dei politicanti (che essi cercano di trasfondere nell'elettorato) che le prossime consultazioni presentino caratteri di eccezionalità. Per la destra esse saranno la squilla della riscossa anti-comunista, per la sinistra esse devono costruire una barriera di voti contro il neo-fascismo. Tra i due estremi il centro se la gode... un po' meno del solito e strilla che da queste elezioni deve essere sancito il rifiuto degli opposti estremismi, ecc. Tutto questo alone di eccezionalità non stupisce: è un vecchio trucco da ciarlatani (“vendita straordinaria”, “saldi di fine stagione”...) per attirare una clientela sempre meno interessata alla loro merce.
Meno comprensibile è l'importanza che a questa faccenda delle elezioni vogliono dare quei neo-rivoluzionari che, acerrimi nemici del “revisionismo” invitano a votare per i “revisionisti” o quelli che, acerrimi nemici e spregiatori del parlamento borghese si presentano come candidati. I secondi fanno del 7 maggio un momento basilare di crescita organizzativa delle forze rivoluzionarie, i primi ne fanno una scadenza antifascista di vitale importanza. Gli uni e gli altri motivano la loro contraddizione con le contraddizioni del sistema, di cui essi profitterebbero per fare un uso anti-borghese degli strumenti borghesi.
Vediamo un po' questa paura dello slittamento a destra che dovrebbe portare i rivoluzionari alle urne. Il pericolo si basa sostanzialmente su tre fenomeni: il rafforzamento del MSI, l'accentuarsi della repressione, la rinata vocazione centrista della DC e dei partitini moderati PRI e PSDI. Esaminiamoli.
Il rafforzamento dell'MSI, cioè una radicalizzazione della destra, è naturale e prevedibile effetto delle vicende economico-politiche di questi ultimi anni, la risposta dei ceti più reazionari alla crisi economica e insieme alle riforme (più minacciate che attuate) ed alla rivoluzione (solo minacciata). Questo rafforzamento dei neo-fascisti, che supererà quasi certamente la misura di due-tre punti percentuali, non potrà avere alcuna influenza sulle scelte di governo, anche perché sarà accompagnato probabilmente da un simmetrico, seppur più lieve, rafforzamento del PCI e del PSI. Semmai una moderata pulizia a destra delle frange più reazionarie dell'elettorato democristiano attivo e passivo potrebbe in teoria favorire una più coerente ed agile collocazione di centro-sinistra della DC.
Senonché l'arresto e forse l'arretramento della DC sul cammino degli equilibri più avanzati, della collaborazione sempre più diretta e determinante dei sindacati e del PCI con la politica governativa, sono determinati da ben altri motivi che non la “contabilità” parlamentare. Non è infatti nel parlamento, non dimentichiamocelo se siamo rivoluzionari e materialisti, che vengono fatte le scelte politiche: in parlamento esse vengono solo “rappresentate”. La rinata vocazione centrista (cioè l'annacquamento della strategia delle riforme) è legata al perdurare della stagnazione economica, della inflazione, della bassa produttività, cioè alla impossibilità del sistema di reggere una politica seria di riforme.

Ma le lotte operaie del '71 e del '72 sono aumentate

Alle stesse radici economiche si deve far risalire la crescente repressione, scoperta o strisciante, diretta contro i movimenti extraparlamentari e contro le minoranze operaie ribelli a quel minimo di pace sociale che è indispensabile ai padroni per programmare l'economia e allergiche a quel piano di incremento della produttività senza il quale è impossibile la ripresa dell'economia ed il finanziamento delle riforme. Il dato più preoccupante per i padroni è che le lotte operaie nel '71 e nei primi mesi del '72 sono aumentate rispetto al '70 anziché calare (e c'è in vista l'autunno...), così come s'è generalizzato il rifiuto di intensificare i ritmi di lavoro. I sindacati non sono riusciti a mantenere la conflittualità entro limiti accettabili, nonostante una continua affannosa rincorsa di recupero dietro tutte le lotte autonome.
Ecco allora spiegato lo “slittamento a destra” del governo e l'aumento della repressione, che non hanno nulla a che vedere con una supposta “fascistizzazione” progressiva dello stato (in senso stretto, perché in senso lato lo stato è sempre fascista e tanto più quello italiano che ha conservato del fascismo storico le strutture portanti). Anche il rinnovellato plateale anti-comunismo dei democristiani e dei loro botoli repubblicani e socialdemocratici non è altro che fumo parolaio, dietro il quale c'è la sostanza della impossibilità di proseguire il “discorso a sinistra” sinché non si ripresentano le condizioni economiche ed i presupposti politici per riaprirlo.
Se queste sono, come noi crediamo, le cause dello slittamento a destra esso continuerà dopo il 7 maggio indipendentemente da previsti o imprevisti (comunque lievi) travasi di voti. Così come si cercherà di ridurre l'agibilità politica delle minoranze rivoluzionarie indipendentemente dall'indebolimento improbabile o dal probabile rafforzamento del PCI. La repressione di queste minoranze è destinata ad inasprirsi così come, soprattutto, la repressione della rinata, episodica, frammentaria, fragile ma pericolosissima (per i padroni) autonomia operaia.
Aspettarsi dal PCI la difesa di uno spazio politico alla sua sinistra è veramente ingenuità sorprendente per dei rivoluzionari, quando è evidente che la riduzione di tale spazio, cioè un riacquistato efficiente controllo sulla forza operaia, è condizione necessaria per la realizzazione della strategia di governo dei comunisti.
Questi rivoluzionari che, contro la logica, ai primi accenni repressivi cercano l'aiuto di mamma PCI dimostrano chiaramente di non aver ancora superato la loro adolescenza politica. Oltre tutto peccano di presunzione o non sanno fare di conto se pensano che i voti degli extra-parlamentari possano pesare sui risultati elettorali.
Oltre ai “rivoluzionari” che votano “scheda rosa” per paura della DC e dei fascisti, queste elezioni vedono anche i rivoluzionari che invocano per sé “schede rosse”, in una inflazione mai vista di falci e martelli. Queste mini caricature del PCI (come il PCI-marxista-leninista, ex “Unione”) sono naturalmente folclore e non meritano un discorso politico. Né lo meriterebbero quelli del Manifesto, se non avessero tirato in ballo gli anarchici mettendo in lista Valpreda, pubblicando sul loro quotidiano lettere fasulle attribuite ad anarchici (o forse lettere autentiche di anarchici fasulli) che promettono il loro voto, scrivendo articoli zeppi di errori (o falsi) storici a proposito di anarchici, di astensionismo, di candidature protesta, ecc.
A questi signori ed al loro quotidiano hanno risposto adeguatamente le prese di posizione di tutte le organizzazioni anarchiche italiane dichiaratesi contrarie senza mezzi termini alla candidatura Valpreda (nello stesso senso s'è espresso all'unanimità il Convegno unitario del Movimento Anarchico riunitosi a Carrara l'8-9 aprile, presenti 300 delegati vecchi e giovani di ogni parte d'Italia). A quei signori ha già risposto per le rime il settimanale anarchico Umanità Nova ed il quindicinale L'Internazionale.
D'altro canto il gioco di questi vecchi politicanti non è riuscito nemmeno con le altre organizzazioni marxiste-leniniste: i tre possibili “grandi elettori” della sinistra extra-parlamentare, Lotta Continua, Potere Operaio e Avanguardia Operaia, non voteranno o voteranno scheda nulla, non si sa bene se più per gelosie e rivalità non risolte o per scarsa forza di convincimento delle motivazioni elettorali del Manifesto. Motivazioni riprese dal vecchio armamentario ottocentesco dei primi socialisti parlamentaristi (e poi saremmo noi gli ottocenteschi!): le elezioni come momento di “conta”, la campagna elettorale come occasione di agitazione politica, l'uso del Parlamento come tribuna per una “testimonianza rivoluzionaria” che rifiuta anche il ruolo di “opposizione funzionale”. A tutto questo è stato aggiunto il pepe della “candidatura-protesta” (anch'essa una vecchia trovata ottocentesca).

L'esemplare coerenza di Andrea Costa

A queste motivazioni gli anarchici non hanno bisogno di trovare risposte diverse da quelle che in passato hanno già dato ai padri del trasformismo rivoluzionario-riformista. La risposta più convincente, del resto, l'ha data la storia, smascherando quelle motivazioni per quello che erano: copertura ideologica (in buona o mala fede, non ha nessuna importanza) della fase di transizione tra il socialismo rivoluzionario (delle lotte sociali, dell'inconciliabilità delle classi sfruttatrici e sfruttate, della nuova società costruita dal basso, del rifiuto dei padroni) ed il socialismo riformista (dei patteggiamenti parlamentari, dell'interclassismo, della vecchia società puntellata con le riforme, del cambio dei padroni). Il caso più esemplare, perché più sfacciato, fu forse quello di Andrea Costa, ex anarchico, socialista rivoluzionario convertitosi all'elettoralismo “tattico”, il quale motivò la sua candidatura in termini analoghi a quelli del Manifesto ma ancora più radicali, garantendo al suo elettorato che non sarebbe mai entrato nel Parlamento borghese... ed una volta eletto si rimangiò tutto, giurò fedeltà al re e si sedette alla Camera divenendo un riformista ortodosso.
Come i paladini di un “parlamentarismo tattico” servirono cent'anni fa a recuperare al riformismo i socialisti rivoluzionari così - fatte le debite proporzioni! - il Manifesto sembra confermare il ruolo, che gli è stato già rinfacciato, di recuperatore della sinistra extra-parlamentare.
Gli anarchici hanno avuto raramente dubbi su come comportarsi in occasione delle giostre elettorali e quando li hanno avuti è stato in situazione di eccezionalità neppure lontanamente paragonabili a questa consultazione. Non basta certo un minuetto governativo, un Valpreda candidato, per rompere il tradizionale astensionismo degli anarchici, un astensionismo rivoluzionario, non certo qualunquistico, che da cento anni li caratterizza e che puntualmente confermano, con rara ostinata coerenza, e motivano ad ogni occasione.
Le motivazioni sociologiche, storiche, economiche, politiche e psicologiche con cui gli anarchici non solo non votano ma combattono attivamente il voto sono abbastanza note e investono in una critica lucida e definitiva tutti gli aspetti sia della delega di potere in sé, sia della natura del parlamento borghese, del potere statale e del suffragio universale.
C'è poco da aggiungere alle analisi già fatte, alle spiegazioni ripetute ad ogni occasione ed in buona parte, del resto, fatte proprie dalla sociologia più “spregiudicata”, sia di destra (Michels, Pareto, Mosca...) che di sinistra. Vogliamo in questa sede solo sottolineare una evoluzione nelle strutture di potere che rende ancora più formale il “potere legislativo” del parlamento e quindi ancora più valida la critica anarchica alla illusorietà della “lotta” parlamentare. Questa evoluzione è il progressivo trasferimento del potere politico reale dal legislativo all'esecutivo. Il potere esecutivo si rafforza ininterrottamente. Questo processo è iniziato nella maggior parte dei paesi, nel corso della prima guerra mondiale, ma in alcuni paesi è iniziato prima. In Germania, ad esempio, la predominanza dell'esecutivo è divenuta operante proprio con la comparsa stessa del suffragio universale.
Oggi tale evoluzione è talmente avanzata che non è più possibile credere che sia veramente il parlamento a governare, a dirigere lo stato. Il potere dello stato è un potere permanente, esercitato da un certo numero di istituzioni autonome dall'influenza instabile del suffragio. Sono questi organi che bisogna esaminare per scoprire dove risiede il vero potere. I governi vanno e vengono, ma la polizia, l'amministrazione, rimangono. Lo stato consiste innanzitutto di queste istituzioni: esercito (ufficiali e sottufficiali di carriera, carabinieri, truppe speciali, ecc.), la polizia, i ministeri, la magistratura, gli enti assistenziali (INPS, INAM,...), le grandi aziende e i trust “pubblici” (ENI, IRI,...), ecc., cioè le istituzioni non vincolate dall'influenza del suffragio.
Il potere di queste istituzioni si rafforza continuamente. Se dunque ai tempi d'oro del Parlamento, all'epoca del capitalismo privato, giovane e concorrenziale, il potere reale era già fuori del Parlamento che svolgeva solo il ruolo di mediatore tra i diversi gruppi borghesi in continua contrapposizione per gli interessi settoriali, regionali, corporativi, che rappresentavano, esso risiede ora più che mai fuori dal Parlamento, nei centri di potere economico privati e statali e negli alti gradi degli apparati statali (con una fusione progressiva, sia detto per inciso, di potere politico e di potere economico che rende discutibile la tipica subordinazione borghese del primo al secondo ed in prospettiva addirittura capovolgere la situazione).

Spagna '36, gli anarchici, il non-astensionismo

L'unico episodio di rilievo nella storia del movimento anarchico, relativo ad una scelta tattica diversa dall'astensionismo, è quella delle elezioni spagnole del febbraio 1936. Nelle galere spagnole erano rinchiusi oltre trentamila prigionieri politici, di cui buona parte anarchici ed anarco-sindacalisti ed una vittoria elettorale del “Frente Popular” avrebbe portato alla loro liberazione. Al fronte popolare si opponeva un fronte “nazionale” accentuatamente reazionario. Dopo accesissimi dibattiti interni, la C.N.T., grande organizzazione anarco-sindacalista forte di oltre un milione di iscritti, decise di astenersi dalla tradizionale campagna anti-elettorale, invitando così implicitamente se non proprio esplicitamente i suoi simpatizzanti a votare per il fronte popolare. Con il determinante apporto dei voti “cenetistas”, il fronte popolare vinse le elezioni ed i compagni furono liberati. Senza entrare nel merito della validità di tale scelta (tuttora discussa nel movimento anarchico, soprattutto perché in essa si vedono o si vogliono vedere i primi germi della successiva perniciosissima deviazione “ministeriale” della C.N.T.) bisogna comunque sottolineare che essa nacque in una situazione veramente eccezionale: trentamila compagni sono trentamila compagni ed è anche grazie alla liberazione di questi prigionieri politici (tra i quali si trovavano molti dei militanti più attivi e coraggiosi) che cinque mesi dopo le elezioni la C.N.T. poteva assaltare le caserme ed alzare le barricate per bloccare il colpo di stato fascista.
Una situazione, quella spagnola del '36, certamente eccezionale anche per altri versi ed una scelta eccezionale che nessun anarchico, neppure quelli che la giustificano, si sognerebbe mai di generalizzare e tanto meno (come ha cercato di fare goffamente il “Manifesto”) di riferire alla situazione italiana di oggi. Se non altro perché la C.N.T. poteva influenzare la scelta di un paio di milioni di lavoratori, tra iscritti e simpatizzanti, cioè una fetta decisiva dell'elettorato.
Comunque sia, l'esperienza spagnola del '36 è soprattutto illuminante per un altro verso (e con significati proprio anti-elettorali): dopo la vittoria del Frente Popular il fascismo, tutt'altro che domato dalla sconfitta elettorale, giocava la carta del colpo di stato e fu sulle piazze prima e nelle trincee dopo che il popolo dovette combatterlo in una lunga, eroica, tragica, sfortunata guerra civile.
Non è con il voto - ecco il primo insegnamento - che si vince il fascismo, se ad esso i padroni hanno deciso di ricorrere come estrema risorsa controrivoluzionaria. In secondo luogo la C.N.T., per nulla addormentata sugli allori elettorali (altrui), seppe organizzare l'insurrezione prima e la rivoluzione poi, ed ecco un'altra indicazione, in apparenza banale ma che spazza via tanta falsa problematica: se un movimento rivoluzionario ha una forza numerica tale da pesare elettoralmente, esso ha anche la forza di fare la rivoluzione e questo è il suo compito.

Rivoluzione sociale egualitaria e libertaria

Da quanto abbiamo detto sin qui dovrebbe risultare chiaro che l'astensionismo non è per gli anarchici un feticcio, un dogma della tradizione ottocentesca, ma una scelta motivata razionalmente, una scelta di coerenza e di chiarezza rivoluzionaria cui lo sviluppo socio-economico e le esperienze parlamentaristiche hanno puntualmente dato conferma. Questo significa anche che gli anarchici, pur non sopravvalutando il momento astensionistico (che sarebbe un errore simmetrico, cioè uguale ma di segno opposto, a quello di chi vorrebbe ricondurre la politica alle elezioni), non lo limitano però ad una passiva non partecipazione al gioco elettorale, ma lo sostanziano attivamente con la demistificazione della “democrazia” parlamentare e dei meccanismi con cui lo stato simula il consenso popolare.
La crescita rivoluzionaria degli sfruttati passa anche attraverso il rifiuto di collaborare con lo stato, di lasciarsi coinvolgere nella politica dei padroni. La politica degli sfruttati è quella delle loro lotte nelle fabbriche, nei quartieri, nei campi, nelle miniere, negli uffici, è quella della loro faticosa conquista di una coscienza, è quella della costruzione della loro solidarietà organizzata, è quella della rivoluzione sociale egualitaria e libertaria.

Amedeo Bertolo
in “A” 12 (aprile-maggio 1972)


“Il suffragio universale, io credo, è l'esibizione più completa e nello stesso tempo più raffinata della ciarlataneria politica dello stato, uno strumento pericoloso, senza dubbio, e che richiede una grande abilità da parte di chi se ne serve, ma che, per chi sa ben servirsene, è il mezzo più sicuro per far cooperare le masse alla costruzione della loro stessa prigione”

M. Bakunin