Rivista Anarchica Online





La banalità del bene/
Ricordi dell'Asinara 1992

Mi ricordo che ero arrivato nell'“Isola del Diavolo”, come la chiamavamo noi, nell'anno 1992. Ci sono rimasto per cinque lunghi anni scontandoci un anno e sei mesi d'isolamento diurno, pena accessoria all'ergastolo, che sottoposto al regime di tortura del 41 bis, diventò un isolamento totale. Non potevo parlare né incontrare nessuno. E andavo a passeggiare in cortile in piena solitudine. Quel carcere mi sembrò subito un inferno dantesco.
Mi ricordo che le celle erano umide e buie, larghe un metro e mezzo e lunghe due metri e mezzo. Con le pareti scrostate. Avevano i pavimenti di cemento color pece con davanti grossi cancelli arrugginiti. E dietro pesanti blindati dotati di una feritoia per far passare i pasti. Nelle finestre c'erano le doppie sbarre esternamente circondate da spesso filo spinato. Sia il cancello che il blindato rimanevano sempre chiusi sia di giorno che di notte sia d'inverno che d'estate. Stavo tutto il giorno chiuso, senza far nulla, a giocare con le formiche d'estate e con i topolini d'inverno. Potevo usufruire solo di due ore di aria al giorno. Una settimana le facevo di mattina e una settimana di pomeriggio.
In quel periodo facevo fatica a pensare che il mondo esisteva ancora e decisi per soffrire meno di escludere mentalmente il mondo esterno. In questo modo, in quegli anni feci scomparire la paura dal mio cuore e per sopravvivere lo svuotai di ogni desiderio. E gli feci dimenticare che un giorno era stato un cuore libero. Gli lasciai solo un po' d'amore per la mia compagna e i miei figli perché senza i loro ricordi il figlio di puttana del mio cuore avrebbe smesso di battere.
Mi ricordo che i cortili dei passeggi del carcere dell'Asinara assomigliavano a piccole gabbie per topi. Erano larghe una diecina di passi e lunghe una quindicina. Erano circondati da alte mura ed il cielo era coperto da una fitta rete metallica. Ricordo ancora come se fosse adesso quelle lunghe passeggiate con le spalle curve in un fazzoletto di terra di pochi metri. Intorno a me c'era un assordante silenzio da cimitero che faceva rumore, interrotto ogni tanto dal mio respiro e dai dialoghi ad alta voce che di tanto in tanto facevo con il mio cuore.
Le giornate mi sembravano eterne e interminabili. Per questo la discussione pubblica scaturita da una circolare dell'amministrazione penitenziaria che peggiora, non certo migliora, la vivibilità dei detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis, mi ha fatto amaramente sorridere. Penso che questo terribile regime più che uno strumento contro la mafia sia diventato uno strumento di lotta politica. E a nessuno viene in mente che nel nome della lotta alla mafia militare sconfitta si fanno gli interessi della mafia politica e finanziaria che si trova in ottima salute specialmente adesso che s'è sbarazzata dei mafiosi che ammazzavano.
Tra i vari argomenti propagandati dai detrattori di questa circolare un noto giornalista ha descritto questo regime come se fosse una vacanza, “Dura la vita al carcere duro: ciabatte, caffè, biscotti e... bicarbonato” (Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2017). Forse, sotto certi aspetti il regime di tortura del 41 bis non è più come quello che ho scontato io nell'isola del diavolo dell'Asinara negli anni '90. Probabilmente ora c'è più ipocrisia. E vogliono i detenuti mafiosi bravi, buoni, pacifici, moderati, ragionevoli per distruggergli meglio l'anima e lasciarci il fisico sano.
Adesso forse non li picchiano più come prima, li nutrono sufficientemente, li fanno studiare, li curano, ma in compenso gli hanno tolto qualsiasi speranza. Per quanto riguarda tutto il resto, nulla è cambiato. I carcerieri possono fare tutto quello che vogliono come allora. Mentre ai miei tempi qualche fetta di cielo si poteva vedere dalle celle, ora mi dicono che nelle sezioni del regime di tortura del 41 il cielo non è più di tutti, perché tutt'intorno alle finestre hanno messo delle lamiere e i detenuti non possono più vedere né il sole né la luna.
A mio parere, questo regime di tortura del 41 bis è una delle peggiori torture che l'uomo abbia potuto escogitare. E non serve a niente, non migliora certo le persone, anzi produce cultura mafiosa dentro, ma anche fuori, nei parenti che vedono trattati i loro congiunti come bestie. Mi chiedo come mai lo Stato contribuisce a rendere la società molto più insicura, o se volete mafiosa, perché in nome della sicurezza esterna non fa nulla per recuperare queste persone.

Carmelo Musumeci