Rivista Anarchica Online





Forme di coraggio

Anni fa, ero in una situazione lavorativa sfortunata: mi trovavo a dover interagire con un superiore con il quale registravo numerose divergenze di vedute. Non è bene divergere dalle opinioni di chi – occupando spesso accidentalmente un grado più alto nell'ambito professionale nel quale ci si trova ad operare – è nella posizione di condizionare la tua libertà espressiva e questo non aiuta il proprio benessere.
All'epoca, il mio superiore girava dicendo che ero una rompiscatole, a volte usando termini più espliciti, perché è questo che a volte fanno gli uomini tra uomini, goliardicamente. Il termine non veniva usato in modo “simpaticamente affettuoso”: piuttosto, direi che all'epoca il tipo in questione amava attribuirmi una responsabilità molto chiara, di cifra isterica e femminile, in modo da poter così motivare di fronte ad altri la sua incapacità di ottenere condizioni più eque di lavoro per tutti. E per questa mancanza di equità io, appunto istericamente, protestavo.
Non mi era possibile – allora come ora – sfuggire alle “punizioni” riservate a chi si permette di comportarsi in modo libertario e tendenzialmente equo quando occupa la posizione di un sottoposto. Potevo solo fare i conti con la situazione, e anche allora i libri mi erano d'aiuto. Guardando come si comportava quest'uomo senza dignità, mi veniva regolarmente in mente Sciascia e la catalogazione poetica del genere umano di sesso maschile che compare in Il giorno della civetta: “E quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità bella parola piena di vento, la divido in 5 categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà”.
Ecco: quel mio superiore sarebbe stato bene nell'ultima categoria, composta di personcine senza qualità, “ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre”.

Il ruolo della cultura

Sciascia era uno scrittore completo e geniale, un uomo di abbagliante cultura che ha sedimentato nei suoi testi un campionario di umanità intuitivamente rappresentata nella sua essenza. Rifletterci mi ha portata a farmi alcune idee sugli ambienti che frequento e sulle gerarchie che li abitano. E anche considerando superficialmente le categorie umane che tendono ad aver successo in questi contesti, mi son resa conto che il genere prevalente in assoluto, nelle posizioni apicali, è maschile, e il profilo umano ricorrente è, appunto, tristemente orientato verso l'ultima categoria di Sciascia.
Ne esiste anche una fenomenologia comportamentale consolidata. Il quaquaraquà, per esempio, è forte con i deboli (o almeno ritenuti tali) e molle con i forti. Ha il coraggio di una pozzanghera di grasso. Fa battute politicamente scorrette e spesso di dubbio gusto quando è in ambiente solo maschile, mentre si atteggia a gentiluomo quando è in contesti di genere misto. Cita dal latino e dal greco, senza cercare le citazioni su google: è un suo vezzo ricordarle dai tempi della scuola superiore (o almeno affermare che se le ricorda dai tempi della scuola superiore). Si vanta spesso di aver rubato il cuore a tutte le sue studentesse. Si pregia di essere uomo di grande cultura, e in effetti spesso lo è, nel senso nozionistico del termine. Ed etichetta come “rompiscatole” qualunque soggetto – soprattutto se di genere femminile – che tenti di ricordargli le sue responsabilità.
Ora, io non so se queste caratteristiche alla fine si radunino in una sola, ovvero l'assenza di coraggio. Ho sempre pensato che il coraggio risulti inevitabilmente dalla consapevolezza e dall'autoconsapevolezza. E consapevolezza e autoconsapevolezza nascono, per come la vedo io, da una buona formazione culturale.
Dunque, se uno ha cultura, dovrebbe avere il coraggio che risulta dalla conoscenza di quel che si è, nei tempi buoni come in quelli cattivi, e dalla consapevolezza del proprio limite come delle proprie possibilità. E il coraggio si lega a una cognizione di cultura che tuttavia va definita con un certo rigore. Non è nozione, anche se forse la nozione ne fa parte, ma contatto reale col mondo della conoscenza, un contatto che deve essere di testa e di emozione, senza fermarsi né all'uno né all'altro.
E se la cultura non ti aiuta a capire che genere di persona sei e a guardare negli occhi il mondo, essa è “sapientia” e basta.
Peccato che la cultura vera sia “sapientia cordis”.

Nicoletta Vallorani