Repressione/
La pistola che fa la contenzione perfetta
Quando Andrea Soldi nel 2015 fu preso da psichiatra e infermieri
per essere sottoposto a TSO, visto che non voleva fare il depot
(farmaco “deposito”, che si inietta una volta al
mese) e per smuoverlo da una panchina di Torino gli fecero la
strozzina e lo misero prono, si disse che era morto per “sindrome
da delirio eccitato”. Una sorta di diagnosi fantasma (o
di copertura) con cui risolvere incidenti in cui sono coinvolte
le forze dell'ordine, per capirci. L'hanno tirata in ballo per
la morte di Riccardo Magherini e per molti altri.
Quando Natasha McKenna, detenuta in Virginia con l'accusa di
aver aggredito un poliziotto, nonché affetta da schizofrenia
pare dall'età di 12 anni, di soli 58 kg e madre di una
ragazza, si oppose a una dozzina di vice-sceriffi armati che
dovevano trasferirla in un'altra prigione adatta a detenuti
con disturbi psichici, e l'ammanettarono mani e piedi, e di
fronte alle sue resistenze, la colpirono con quattro scosse
elettriche di Taser, e dopo l'ultima scarica elettrica non respirava
più e tre giorni dopo morì, anche per lei si attribuì
la morte a “un delirio eccitato”, nel suo caso però,
“associato alla restrizione fisica con l'utilizzo di dispostivi
conduttori di elettricità e il contributo della schizofrenia
e del disturbo bipolare”. Insomma, “incidenti”.
Jack Cover, scienziato aerospaziale, inventa il Taser negli
anni '70. Avrebbe dovuto essere usata dalle forze di sicurezza
in situazioni di emergenza, come i dirottamenti aerei, essendo
un'alternativa non mortale alle pistole. Taser è acronimo
di Thomas A. Swift's Electronic Rifle (in italiano sarebbe:
fucile elettronico di Tomas A. Swift). È una saga d'avventura,
dove un personaggio, Tom Swift, inventa un'arma che chiama fucile
elettrico che usa per uccidere cannibali pigmei e animali selvatici
africani. Insomma l'arma ideale per gli inferiori, per gli anormali.
Le Taser all'inizio vengono classificate come armi da fuoco,
perché nella versione originale utilizzano polvere da
sparo per sganciare dardi elettrificati. Nel 1993 la polvere
da sparo viene sostituita con azoto compresso, e ciò
rende la pistola conforme alle normative sulle armi da fuoco.
Le Taser hanno due modalità: “dardo” e “drive
stun”. Il primo spara due dardi elettrificati, con forza
tale da penetrare i vestiti e rilasciare una scarica elettrica
di 50.000 volt. La corrente scorre nel corpo della vittima finché
l'agente tiene premuto il grilletto, con effetto neurolettico
(ovvero di paralisi del sistema nervoso) potremmo dire, giacché
impedisce qualsiasi movimento e causa spasmi muscolari. In modalità
“drive stun”, invece, la pistola viene premuta direttamente
contro il corpo.
Nel 2007, il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura
manifesta preoccupazione per l'utilizzo di queste armi, in grado
di causare dolore estremo fino al decesso. Gli esperti tuttavia
sostengono che a causare il decesso non siano gli effetti del
Taser ma la “sindrome da delirio eccitato”, appunto.
La sindrome fantasma che viene evocata quando c'è l'incidente.
Sindrome non riconosciuta né dall'Associazione Medica
Americana, né dall'Associazione Americana di Psichiatria,
né dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Tuttavia citata come causa del decesso in 75 dei 330 casi collegati
al Taser tra il 2001 e il 2008. Essendo (anche io) tutto sommato
un esperto, ritengo questa sindrome una delle tante invenzioni
semantiche che gli psichiatri parolieri adoperano per giustificare
la brutalità della polizia. Douglas Zipes, esperto di
elettrofisiologia e dell'influenza degli impulsi elettrici sul
cuore, ha analizzato il rapporto tra Taser e morti improvvise.
I Taser, afferma, possono provocare l'arresto cardiaco, e tirare
in ballo la sindrome da delirio eccitato in caso di decesso
riconducibile a questa pistola è solo un modo per scagionare
Taser International da azioni legali.
Bene. Per fortuna siamo in Italia, direte voi. Dove per un verso
non abbiamo pistole da acquistare così facilmente come
negli USA, per un altro verso siamo il paese che ha eliminato
i manicomi e ha ridotto ai minimi termini i nostalgici dell'elettroshock.
Quindi dovremmo stare tranquilli.
Invece no. Perché finalmente, titola uno dei più
progressisti tra i nostri quotidiani, abbiamo un “nuovo
strumento per combattere la malavita”. A Milano, Brindisi,
Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia la polizia e i carabinieri
potranno usare la pistola Taser al posto del (violento, primitivo,
rozzo, scomodo) manganello.
L'ipotesi di utilizzare il Taser era stata valutata già
nel 2014 quando, con Angelino Alfano ministro dell'Interno,
era stato approvato un emendamento dentro al decreto legge sulla
sicurezza negli stadi per avviarne la sperimentazione. Solo
negli ultimi mesi, però, si è arrivati a una soluzione
condivisa con i sindacati del settore, che ritengono che la
pistola elettrica possa ridurre gli interventi corpo a corpo.
Se la sperimentazione andrà bene, tra poco, temo, potrebbe
far parte anche della dotazione di noialtri psico-poliziotti
(gli psichiatri, voglio dire). Perché il Taser, pensateci,
è l'arma di congiunzione tra i farmaci neurolettici (determina
neurolepsia, ovvero paralisi del sistema nervoso), dunque contenzione
chimica; le fasce, visto che elettrificando un corpo non c'è
più bisogno di legarlo, dunque contenzione meccanica;
e l'elettroshock, dato lo stordimento e l'amnesia se non proprio
perdita di coscienza che determina, dunque contenzione elettrica.
Ecco. Mi toccherà, dopo aver lottato contro il manicomio
concentrazionario, quello chimico e quello elettrico, iniziare
adesso a predicare e praticare la riluttanza alle psico-pistole.
Piero Cipriano
Salvia/
Breve storia di un paese cancellato (dai Savoia)
Non è segnato in nessuna cartina d'Italia, ma esiste.
Parliamo di un paese fantasma, privato del suo toponimo, cancellato
impunemente dalla storia e dalla geografia italiana.
È una storia lunga, che inizia il 19 febbraio 1849, nel
regno di Napoli, e arriva fino ai nostri giorni. Quel giorno,
in un paese che oggi non esiste, a Salvia, ai confini tra la
Basilicata e la Campania, da una misera famiglia di poveri contadini,
nasce Giovanni Passannante, che - «smanioso di apprendere»
- leggerà libri e giornali, farà il cuoco, diventerà
repubblicano e anarchico e vagheggerà una Repubblica
Universale, per garantire a tutti condizioni migliori di
vita e di lavoro: una pensione per i vecchi e per i disabili,
un assegno per le donne incinte, il diritto allo studio...
Quella nascita, trent'anni dopo - nel regno d'Italia, regnanti
i Savoia - segnerà i destini del paese. La mattina del
17 novembre 1878, a Napoli il giovane cuoco lucano ventinovenne
vende la giacca per quindici soldi e con otto soldi acquista
un coltello. Poco dopo le due, alla stazione, arriva il nuovo
re, Umberto I. Tanti napoletani lo aspettano e lo applaudono.
Il cuoco lucano lo saluta al grido di «Viva Orsini! Viva
la Repubblica Universale!» e con una coltellata che colpisce
la gamba del presidente del consiglio Benedetto Cairoli. La
regina sentenzia: «L'incanto della Casa di Savoja è
rotto! Comincia un'era nuova».
Oltre a punire l'attentatore, bisogna - incredibilmente - punire,
anche se nessun codice penale lo prevede, il paese natale...
Il sindaco di Salvia, Giovanni Parrella, è chiamato
a Napoli per scusarsi col re. È un piccolo possidente,
ma non ha un vestito adatto per l'incontro, né i soldi
per comprarlo. Colto alla sprovvista, convoca d'urgenza il consiglio
comunale che, senza discussione, lo autorizza a prelevare dalla
cassa del comune i fondi necessari per il viaggio e per affittare
una giubba nera per l'incontro con il re. Al sud, anche i signori
sono poveri. Di fronte al re balbetta terrorizzato: «Io
rappresento la disgraziata Salvia… ». Il re quasi
lo rincuora e lo rassicura: «Gli assassini non hanno patria».
Si illude di aver messo a posto le cose, ma così non
è.
I rappresentanti della corona gli dicono che - per ottenere
il perdono per aver dato i natali all'assassino Giovanni
Passannante - il comune deve cambiare il nome al paese. Può
un paese essere considerato colpevole del delitto - che
delitto non è, perché è un fatto naturale
e casuale - di aver dato i natali ad una persona? Per la monarchia
è così e non si discute. Non un nome qualsiasi,
ma gli impongono: Savoia di Lucania. Il sindaco ascolta terrorizzato
accettando l'ordine senza discutere: ha fatto suo il motto «Comandate,
padrone!», ha capito che i monarchici sono mille volte
più pericolosi del suo povero concittadino... che pure
è stato definito assassino.
Punendo Salvia il re e la corte rendono «complice»
di Passannante un'intera collettività. Il maggiore Eugenio
Romano - che nella notte dell'attentato si era recato a Salvia
e aveva perquisito la misera casa della madre, Maria Fiore -
era stato chiaro. Nella relazione scrive chiaramente: Passannante
«apprese altrove quei principi che lo indussero ad attentare
alla vita del Principe». Non se ne tenne conto: viene
lanciata un'aspra damnatio memoriae per il paese lucano,
come se Passannante avesse maturato l'idea dell'attentato proprio
al paese. E anche se l'avesse maturata lì che senso ha
punire Salvia?
A rigor di logica, né il paese né gli abitanti
sono materialmente «complici» dell'attentatore e
né possono essere ritenuti tali, anche per una semplice
ragione: Passannante non abita da anni nel suo piccolo paese,
costretto - per ragioni di lavoro - ad emigrare a Salerno e
a Napoli e l'attentato lo concepisce a Napoli, una città
che dista più di cento chilometri. Allora perchè
punire Salvia cancellandola dalla geografia del bel
regno d'Italia? Quando si consumò il regicidio di Gaetano
Bresci, i Savoia non chiesero di cancellare il nome di Prato!
Eppure Bresci a Monza, il 29 luglio 1900, riuscì laddove
Passannante aveva fallito...
Rientrato a Salvia, terrorizzato, ubbidiente, il sindaco convoca
il consiglio comunale d'urgenza e il 22 novembre 1878 –
lo stesso giorno del rientro! – delibera, come gli è
stato imposto, la mutazione del toponimo Salvia in quello
servile e insignificante di Savoia di Lucania. La richiesta
è ribadita il 13 maggio 1879 e Umberto I, il 3 luglio
1879, autorizza il comune di Salvia «ad assumere la denominazione
di Savoia di Lucania», cancellando brutalmente
dalla geografia italiana il nome del piccolo e innocente comune
lucano. La notizia diventa ufficiale con la pubblicazione del
regio decreto n. 4.990 del 3 luglio 1879 nella prima pagina
della «Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia», numero
193 del 19 agosto 1879.
Dopo 19 anni, il toponimo Savoia torna ad indicare un lembo
di territorio italiano, in rispetto della Savoia - terra natale
della casa reale - e di Nizza, cedute nel 1860 alla Francia
per ragioni politiche.
Viene violata una storia più che millenaria, impunemente
cancellato e distrutto un paese, le sue tradizioni e la sua
memoria. Nella nuova Italia non è cambiato nulla:
mezzo secolo prima la dinastia borbonica ordinò la distruzione
di Bosco, un paese del Cilento, arso al suolo per aver accolto
nel 1828 con simpatia un gruppo di insorti. Togliere un nome
millenario oltre a distruggere e cancellare la storia, la sua
memoria collettiva, le radici, significa soprattutto ferire
l'identità.
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Savoia di Lucania (Potenza), conosciuta in precedenza come Salvia |
La comunità, gli abitanti del paese non hanno mai accettato
questa terribile e inedita profanazione della loro identità.
Anche se il paese è denominato dal potere Savoia di
Lucania, loro hanno continuato a definirsi e a classificarsi
salviani, ovvero abitanti di Salvia, abitanti di un paese
inesistente, di un paese reale reso un paese-fantasma dalla
monarchia.
Il famoso meridionalista Giustino Fortunato, in una lettera
del 15 febbraio 1913, citandolo, esclama: «Io non so rassegnarmi
che un così bel nome sia andato capricciosamente cancellato!».
È un delitto atroce cancellare l'identità del
paese. Nell'Italia repubblicana del 1948 il consigliere comunale,
Raffaele Cancro, propone di annullare le «disonorevoli»
deliberazioni del 1878 e del 1879, dettate dalla paura e dal
terrore, di riconoscere il gesto di un uomo che aveva pagato
con la vita le proprie idee e di rinominare il paese Passannantea.
La proposta non è accolta. E ancora oggi porta quel nome.
Per quel gesto, Passannante è destinatario di una persecuzione
che oltrepassa la morte. Quando il 14 febbraio 1910 muore viene
decapitato e il cadavere sepolto nel cimitero di Montelupo Fiorentino.
Il cranio e il cervello sono esposti al Museo Altavista di Roma.
Testimoniano la crudeltà e la ferocia dei Savoia. Solo
il 10 maggio 2007 il cervello e il cranio vengono seppelliti
nel cimitero di Savoia di Lucania. Seppellire i resti di Passannante
significa seppellire la storia di un ribelle e di un'atrocità
monarchica, è un oltraggio alla memoria e una perpetua
persecuzione, in quanto è seppellito nel paese che ancora
oggi porta il nome della dinastia che voleva abbattere, tanto
che, in una lettera dal carcere del 29 marzo 1879, scritta con
le catene ai piedi, ribadisce coraggiosamente e coerentemente
essere sua «nemica».
L'Italia repubblicana - che ha perdonato più volte i
Savoia, concedendo recentemente la sepoltura dell'ultimo sovrano
dei Savoia - continua a colpire la memoria di un paese innocente
della Basilicata. Per Salvia, centoquarant'anni dopo non c'è
nessun perdono: ancora oggi è «colpevole»
di aver dato i natali a Giovanni Passannante, l'attentatore
di Umberto I. E il paese continua a pagare colpe che non ha,
perché non è una colpa nascere.
Per l'Italia repubblicana restituire e ripristinare l'antico
e straordinario toponimo di Salvia ha un grande valore politico
e culturale. È un dovere necessario e, pur se tardivo,
atto riparatore per l'ingiustizia patita, senza colpe, perché
- a cominciare da questo episodio sconosciuto - non può
tollerare le prepotenze monarchiche e deve liberarsi dall'imposizione
illogica e insensata dei Savoia di cambiare il nome di un paese.
Giuseppe Galzerano
Val Susa/
C'è un archivio No Tav
È
stato presentato a Venaus (in Val Susa) “Tracce No Tav.
Centro di Documentazione Emilio Tornior”. Il progetto,
promosso dal Controsservatorio Valsusa si propone di realizzare
un centro di documentazione per “raccogliere e conservare
tracce lasciate negli anni dai No Tav nel loro viaggio controcorrente.
Per conservare le voci di chi ha lasciato un segno, per ascoltare
nuove voci e lasciare nuove tracce. Per cogliere il senso profondo
di un cammino di ostinata resistenza in difesa del territorio,
per offrire uno strumento di navigazione a chi è ancora
in viaggio e non intende fermarsi”.
Il Centro, nelle intenzioni dei proponenti, sarà una
sorta di “presidio” dedicato a conservare la memoria
storica di una collettività che nella lotta al Tav ha
saputo leggere la sua storia che riporta alla Resistenza, alle
battaglie pacifiste, a quelle per il lavoro e a precedenti lotte
per la difesa dell'ambiente. È la stessa collettività
che a partire dalla lotta al Tav ha visto nascere nuove resistenze,
che pratica nuovi stili di vita coerenti con la scelta di difendere
un territorio minacciato, che promuove iniziative che puntano
allo sviluppo di economie locali. Una collettività, quella
del popolo No Tav, che in questi anni ha mostrato grande capacità
di accoglienza: quella stessa che si manifesta oggi anche nei
confronti dei migranti che rischiano la vita cercando un varco
che soltanto a loro viene negato. Questo l'orizzonte a cui guarda
il progetto Tracce No Tav.
Il Centro di documentazione avrà una sede a Venaus e
si interfaccerà in modo molto stretto con un archivio
online liberamente accessibile a chiunque. Al momento sono aperte
tre sezioni dell'archivio e il database già oggi contiene
circa 10.000 record.
Oltre che uno strumento in grado di facilitare ricerche, l'archivio
online darà soprattutto voce al racconto dei protagonisti
di una lotta ancora in corso. La sezione che riporta gli eventi
significativi e i materiali che li descrivono nei dettagli,
ripercorrendo le tappe della resistenza notav, è aperta
da poco, ma in prospettiva diventerà la parte più
rilevante dell'archivio.
Ezio Bertok
www.traccenotav.org
centrodoc@controsservatoriovalsusa.org
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