Generazione Mass Shooting
Sotto questa definizione sono qualificate le
ragazze e i ragazzi che in questi anni hanno vissuto direttamente
o mediaticamente le sparatorie all'impazzata nelle scuole, dagli
asili all'università negli USA. Aspetti positivi ma anche
molto negativi nel movimento dei giovani contro le armi. Il
nostro corrispondente è sceso anche lui in piazza, tra
i 200.000 di New York. Mentre a Washington erano 800.000. Con
alterni pensieri e sensazioni. E ce ne riferisce. Con onestà...
Alle 10 del 14 marzo, a un mese esatto dai tragici eventi di
Parkland in Florida,1 gli studenti
americani hanno lasciato le lezioni e sono scesi in strada per
dire basta alle sparatorie nelle scuole. La protesta era diretta
contro la NRA2 ed i politici,
incapaci di fronteggiare l'emergenza delle stragi di studenti
che, con terribile frequenza, avvolgono il paese nel lutto.
A New York il Walkout ha suscitato grande emozione: la
partecipazione è stata forte, le scuole hanno incoraggiato
i ragazzi e molti professori hanno scelto di camminare al loro
fianco. Non è andata così in Texas, dove molte
direzioni scolastiche hanno impedito le manifestazioni minacciando
gravi sanzioni disciplinari. Sulle stragi a scuola l'America
è divisa.
Gli studenti hanno camminato verso le piazze decise e osservato
diciassette minuti di silenzio, uno per ciascun morto di Parkland.
Hanno poi dato voce alla loro rabbia chiedendo una soluzione
alla tragedia delle armi da fuoco che, ogni anno, negli USA,
colpiscono 40.000 persone, un terzo delle quali ne muore.3
Generazione Mass Shooting, ha scritto il New York Times.
Una definizione inquietante, che ha colpito nel segno.4
Davvero questi giovani americani sono la triste generazione
delle sparatorie a scuola. Ne fanno parte a pieno titolo anche
tutti quelli che non hanno mai avuto la sfortuna di ritrovarcisi
perchè, dai tempi del terrore a Columbine,5
milioni di studenti di tutte le età sono cresciuti nella
consapevolezza che la propria scuola avrebbe potuto un giorno
diventare teatro del dramma, assalita dal folle di turno. Sono
cresciuti sapendo che fra di loro si sarebbe potuto nascondere
il futuro assassino; che il killer avrebbe potuto essere il
compagno di banco, il figlio della preside o lo studente espulso
a causa delle sue esuberanze. Poiché nessuno è
in grado di prevederlo e, vista la diffusione di armi micidiali,
le scuole hanno fatto l'unica cosa possibile: si sono preparate
al peggio. Hanno adottato piani di emergenza e varato procedure,
approvato manuali e promosso periodiche esercitazioni. In caso
di individuo armato nel compound scolastico parte l'allarme,
la scuola va in lockdown, i professori serrano le aule,
gli studenti silenziano i cellulari e corrono a nascondersi
nei luoghi prefissati: negli sgabuzzini, sotto i banchi, negli
armadi. Fin da piccoli imparano a far finta di essere morti,
gettandosi a terra fra i corpi dei compagni. Qualche volta parte
un falso allarme e il piano scatta. I genitori ricevono l'sms
che annuncia il codice rosso e il loro cuore rallenta, fino
a quando un secondo sms annuncia la fine della crisi. Qualche
volta però l'allarme è autentico e il secondo
messaggio non arriva.
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New
York, 24 marzo 2017, “Marcia per le nostre vite” |
Un'inquietante ansia omicida
Precauzioni ed esercitazioni a Parkland non sono servite a
nulla, la tragedia si è consumata in poco più
di un minuto, le vittime erano già a terra prima ancora
che qualcuno riuscisse a far scattare l'allarme. Con un mitra
da guerra si fa presto a fare mattanza. L'assassino si è
liberato dell'arma e si è confuso nella folla dei ragazzi
in fuga. Lo hanno preso poche ore dopo, che aveva appena fatto
merenda al McDonald. Per identificare i morti, invece, ci sono
voluti due giorni.
Generazione Mass Shooting descrive con drammatica precisione
una tragedia nazionale che colpisce anche quando non accade
nulla, perché il pericolo incombe. Chi scrive ha figli
che, ogni mattina, per entrare a scuola, devono passare al vaglio
di poliziotti armati e di un metal detector. Noi umani ci abituiamo
a tutto, anche a questo: in questo paese la scuola non è
un posto sicuro dove lasciare i nostri figli prima di andare
verso le incombenze quotidiane. In giro c'è follia, un'inquietante
ansia omicida.
Dopo ogni strage il copione è lo stesso: i politici offrono
condoglianze e preghiere ma non prendono iniziative, mentre
i vertici dell'NRA si attivano per difendere i profitti dei
loro associati e ripetono come un mantra il loro slogan: “l'unico
modo per fermare un malintenzionato armato è una persona
buona, armata”. Si sostiene che non è il caso di
assumere decisioni affrettate, sull'onda dell'emozione: non
è mai il momento giusto per parlare del problema delle
armi; si gettano semmai nell'arena idee indecenti, come quella,
ormai famosa, di Trump, di dare la pistola agli insegnanti trasformandoli
in improvvisati sceriffi. Per questo nei miei incubi ad occhi
aperti provo a immaginare il signor Gordon, mite professore
d'inglese, spiegare Withman mentre dalla fondina al fianco gli
pesa la colt 45. Vedo Rosario, la simpatica bidella messicana,
pattugliare i corridoi col fucile a tracolla. Applicando certe
idee alle persone in carne ed ossa ci si rende facilmente conto
della loro assurdità.
I politici però sono pronti a difendere la loro inettitudine
e la colpevole complicità con l'industria delle armi.
Una deputata della Florida ha attaccato ferocemente gli studenti
che chiedono riforme, accusandoli di non avere né la
maturità per capire, né il mandato per decidere.
Ha ricordato che sono invece i parlamentari eletti, adulti e
maturi, a sapere cosa è giusto fare per il bene comune.
Lei ha scelto di non fare nulla. Così anche il senatore
Marco Rubio, noto falco guerrafondaio, che ha affermato l'inutilità
di approvare leggi restrittive, perché chi volesse sparare
troverebbe comunque modo di procurarsi le armi illegalmente.
“Proprio ciò di cui abbiamo bisogno”, ha
ironizzato il comico Trevor Noah: “un legislatore che
ritiene inutile fare le leggi. Peccato non la pensi così
quando si tratta di vietare l'aborto”.
Le sparatorie nelle scuole qui non sono certo una cosa nuova.
La novità è che gli studenti sopravvissuti alla
carneficina questa volta non ci stanno a fare solo la parte
delle vittime. Si sono rifiutati di piangere semplicemente i
loro morti ed hanno puntato il dito accusatore contro lobbisti
e politici, capaci solo di offrire preghiere e cordoglio. Su
questo tema non era mai accaduto prima d'ora con questa forza.
Esistono tanti gruppi contrari alla diffusione delle armi, costituiti
in genere dai parenti delle vittime, ma sono sempre stati marginali.
L'ultima volta che avevo partecipato, a New York, ad una manifestazione
organizzata dalla più nota fra queste associazioni, ci
siamo ritrovati in una ventina fra la folla, nemmeno troppo
incuriosita, di Times Square.
In passato i reduci delle stragi nelle scuole, traumatizzati,
hanno finito per chiudersi in se stessi. Alcuni hanno combattuto
gli incubi con i farmaci o con la droga. Oggi guardano con sorpresa
ed ammirazione ai ragazzi di Parkland che, invece, hanno urlato:
“Enough is enough”6
e sono scesi in strada, riuscendo a mobilitare tanta gente.
Qualcuno già li ha paragonati agli studenti che costituirono
l'ossatura del grande movimento di protesta contro la guerra
in Vietnam. Una valutazione incauta, prematura. Tuttavia questi
ragazzi aprono il cuore alla speranza e mettono in allarme gli
affaristi della lucrosa industria della morte diffusa.
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New York, 24 marzo 2017, “Marcia per le nostre vite” Una giovane studentessa mostra il cartello con la scritta: “Ora basta!” |
Cose sensate, ma insufficienti
La lotta di questi studenti è certamente giusta e gli
obiettivi sacrosanti, ma ancora troppo modesti. Il movimento
non sembra mettere in discussione il diritto costituzionale,
risalente al XVIII secolo, di possedere armi. Si chiedono limitazioni
nella vendita, controlli più severi sugli acquirenti,
abolizione del mercato privato delle armi da guerra. Tutte cose
sensate, ma insufficienti. Credo che questo movimento potrà
radicarsi solo se riuscirà ad approfondire l'analisi
e a scuotere le coscienze arrivando a mettere in discussione
gli stessi miti fondativi della nazione.
Limitandosi a chiedere piccole riforme ed a minacciare ritorsioni
alle prime elezioni utili, il movimento mostra una sua superficialità
e si condanna ad una vita breve e poco incisiva. Messi sotto
pressione i politici potranno anche approvare qualche nuova
legge, ma poi si continueranno a stilare gli elenchi di morti
e feriti.
Occorre andare alla radice: nel fondo del cuore, contro tutte
le analisi e i consigli degli esperti, la maggioranza degli
americani resta convinta della necessità di armarsi.
Essi credono che la loro libertà sia salvaguardata solo
a condizione di poterla difendere sparando e considerano i loro
fucili, conservati carichi negli armadi di casa, una garanzia,
non solo per la loro vita ma anche per la democrazia stessa:
immaginano che un tiranno non possa arrivare al comando di un
popolo di cittadini armati. Le armi sono il simbolo dell'individualismo
americano, in una nazione dove ognuno deve anzitutto pensare
a se stesso e alla propria famiglia e diffidare degli altri.
Le armi definiscono gli americani più e meglio di altri
simboli ed anche i più religiosi non mettono in dubbio
il diritto di uccidere per difendere la proprietà: ogni
giardino qui è una frontiera, ogni casa Fort Alamo.
Non a caso alcuni studenti, nei loro interventi, ribadiscono
che non vogliono: “disarmare l'America”, ma solo
fare in modo che le armi non finiscano in mano a persone pericolose,
immaginando ingenuamente di poter davvero definire chi siano
i buoni e chi i cattivi.
Per tutti questi motivi il 24 marzo, la giornata di protesta
nazionale estesa a tutto il paese in appoggio agli studenti
di Parkland, sono sceso in strada con una certa titubanza. Mi
sono avviato verso la “Marcia per le nostre vite”7
pieno di dubbi. Quella mattina su New York ha fatto capolino,
dopo molti mesi, un sole tiepido, quasi primaverile. Sembrava
voler salutare la folla rumorosa che, fin dalle prime ore del
mattino, si era assiepata lungo il percorso del corteo.
Quel giorno a Washington hanno manifestato ottocentomila persone,
arrivate da tutto il paese. Qui nella West Side di New York
eravamo quasi duecentomila, in marcia fino agli Strawberry Fields,
nei pressi del luogo dove John Lennon fu assassinato a colpi
di pistola.
Poco a poco la mia esitazione è svanita nel calore della
folla: il corteo è diventato una festa per gente comune
determinata, arrabbiata ma anche contenta di ritrovarsi assieme
per una causa giusta.
Come sempre mi ha sorpreso la spontaneità. Niente gruppi
organizzati, partiti o sigle sindacali, solo persone. Gente
arrivata col proprio cartello fatto in casa, il proprio slogan
improvvisato, in una confusione di intenti e di vedute che non
hanno fatto fatica ad amalgamarsi e sfilare assieme.
Per qualche ora ho avuto la bella sensazione che davvero stesse
nascendo un nuovo movimento popolare, fatto di gente unita dalla
comune indignazione. Alla manifestazione si sono ritrovati i
fieri oppositori di Trump, che non perdono occasione per addossargli
ogni responsabilità ed accusarlo di incompetenza, ma
anche gli ex militari pronti a ribadire che non ha senso vendere
armi da guerra ai civili. C'erano i professori che rifiutano
anche solo l'idea di andare a scuola armati, i genitori preoccupati
e tanti ragazzi arrabbiati. Non mi hanno convinto fino in fondo,
perché hanno lasciato che il paese si armasse fino ai
denti e ora piangono i morti, ma non hanno idee chiare. Però
vederli sfilare tutti assieme, con entusiasmo e determinazione,
mi ha fatto crescere dentro un po' di speranza.
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New York, 24 marzo 2017, “Marcia per le nostre vite” “Come mai ci sono più regole per la mia vagina che per le pistole?” |
“Spero di sopravvivere alla scuola”
Finite le manifestazioni la vita continua, con i metal detector, le guardie al cancello della scuola, le esercitazioni, l'insicurezza. Se anche d'improvviso l'America decidesse di togliere armi e munizioni dagli scaffali dei supermercati, ci vorrebbero forse decenni per sortirne un effetto: in giro per il paese ci sono milioni di pistole, fucili, mitra, bazooka. Recentemente un uomo del Colorado, intervistato da non so quale network, ha mostrato con orgoglio, nella casa in campagna, la sua potenza di fuoco da battaglione, comprensiva di un piccolo blindato con tanto di cannoncino. Per arginare questa follia ci vorrebbe un atto di volontà collettiva che vada oltre leggi e leggine. Ciascuno dovrebbe spontaneamente rinunciare ai propri armamenti, distruggere tutto e cominciare a pensare i rapporti umani in modo totalmente diverso. Invece il dibattito assume toni surreali. In un confronto televisivo la mamma di un insegnante, morto da eroe a Parkland, nel tentativo di proteggere i suoi studenti dall'assassino, ha chiesto perché il diritto di suo figlio alla vita e alla felicità, sancito dalla dichiarazione di indipendenza, sia nei fatti meno importante, meno garantito del diritto alle armi, incastonato alcuni anni dopo nella Costituzione. “Proprio per difendere il diritto alla vita di quelli come tuo figlio”, ha risposto la sua interlocutrice, “vogliamo in tutte le scuole sicurezza armata”. Argomento grottesco, irrazionale, sputato come veleno in faccia al dolore di una madre. Eppure largamente condiviso. Le lacrime di ragazzi e ragazze di Parkland, versate davanti a tutto il paese, hanno commosso tanti. Il loro dramma ha scosso molte coscienze. Ma si ha la sensazione che sia stato solo un momento, che ancora per molto l'America eviterà di riflettere su tutto questo, accontentandosi di veglie di preghiera e discorsi di circostanza. Quando la generazione Mass Shooting è scesa nelle piazze, per qualche ora è stata primavera, ma poi è tornato il freddo e i ragazzi sono rientrati nelle classi. Mi resta negli occhi l'immagine di un ragazzino che sfilava con un cartello al collo. Sul cartoncino bianco aveva scritto in blu: “Spero di sopravvivere alla scuola”. In altre circostanze quelle parole sarebbero apparse ironiche, invece erano solo drammatiche.
Santo Barezini
- Il 14 febbraio 2018 un ex studente, nemmeno ventenne, armato di fucile semiautomatico AR15, ha sparato nella scuola superiore di Parkland, provocando 17 morti e 17 feriti.
- National Rifle Association, la potentissima lobby delle armi leggere.
- everytownresearch.org/gun-violence-by-the-numbers/
- A. Burch, P. Mazzei e J. Healy: A “Mass Shooting Generation” Cries out for Change, New York Times, 16/02/ 2018.
- Il 20 aprile 1999 due studenti inscenarono una vera e propria azione di guerra nella scuola superiore di Columbine, in Colorado, uccidendo 12 studenti e un insegnante e ferendo altre 25 persone prima di suicidarsi.
- Ora basta!
- The March for Our Lives.
Non dimentichiamo la diseguaglianza sociale né gli assassinii di Stato
“Focalizzando l'attenzione sul controllo delle armi non ci si rende conto che i veri fattori alla base della violenza omicida diffusa nella società americana sono l'enorme disuguaglianza sociale e l'assassinio di stato promosso in tutto il mondo attraverso l'esercito”. (da un volantino diffuso dall'International Youth and Students for Social Equality)
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