Andare al cinema e coltivare fiori sotto assedio
Sopravvivere
a Sarajevo è un bel libro di Bébert Edizioni
(Bologna 2017, pp. 150, € 15,00), la traduzione italiana
dell'opera The Art of Survival, una parte di un ampio
progetto culturale del gruppo di artisti bosniaci FAMA Collection,
teso a costruire una vastissima raccolta di fonti, testimonianze
e documentazioni sull'assedio subito da Sarajevo tra il 1992
e il 1996, durante la guerra in ex-Jugoslavia.
FAMA ha dato vita a un vero e proprio museo multimediale, a
diverse mostre e pubblicazioni, tra cui l'ormai leggendaria
guida Sarajevo: Survival Guide, redatta e pubblicata
in pieno assedio, nel 1994. Sopravvivere a Sarajevo fa
seguito proprio a quella pubblicazione: in questo prezioso testo
le voci delle presone raccontano in modo semplice e disarmante
le loro strategie per continuare a mangiare, dormire, vivere,
scegliendo la cultura come arma di resistenza. Un libro unico,
pieno di storie di vita, una dichiarazione della funzione fondamentale
delle mille forme di resistenza possibile.
Ciò che emerge in maniera dirompente dalla lettura di
Sopravvivere a Sarajevo è come la cultura sia
fondamentale quanto il pane e l'acqua, come uno spettacolo di
teatro, un concerto, un incontro per parlare di cinema siano
state ancore fondamentali per la sopravvivenza psicologica di
persone annientate in una trappola fisica e mentale.
Le voci di questo testo ci raccontano la forza dell'azione umana,
mostrandoci come nei conflitti l'unica possibilità di
sopravvivenza sia la costruzione di una comunità che
trae linfa vitale dalla creatività e dalla resistenza
culturale.
Sopravvivere a Sarajevo costituisce un archivio del futuro,
un monito al tempo presente sulla pericolosità dei nazionalismi,
una questione oggi più che mai al centro degli equilibri
europei: portare avanti la memoria di quelle carneficine è
solo uno dei tanti modi per combatterli e prevenirne la degenerazione.
Per questo ho deciso di fare delle domande ai curatori italiani
dell'opera, ovvero gli editori Matteo e Mariagrazia.
L'intervista
Cosa significa sopravvivere a Sarajevo?
Matteo - Significa provare a restare vivi dopo quasi
4 anni di assedio. Immagina una città di 600 mila abitanti
circondata da montagne sulle quali sono presenti 35 pezzi di
artiglieria per chilometro quadrato (l'Armata Rossa alle porte
di Berlino ne contava 25), puntati su una città senz'acqua,
senza luce e senza il gas necessario per affrontare i gelidi
inverni della regione, con temperature fino a -20°.
Sopravvivere a Sarajevo ha significato restare vivi agli spari
dei cecchini e dei mortai, alle granate e alle stragi del mercato.
Quello che emerge dal libro non è né disperazione,
né tristezza, né rassegnazione, bensì una
tensione positiva verso la vita. Tutta l'attività giornaliera
degli abitanti, dal riciclo/riconversione (uno tra i tanti esempi
riportati nel libro è quello di vecchie lavatrici utilizzate
per ricavarne stufe o cucce per animali domestici), all'approvvigionamento
idrico e alimentare (ad esempio gli orti sui davanzali, sui
terrazzi, sui tetti), ad andare al cinema o a teatro, era una
forma quotidiana di resistenza alla guerra che conteneva in
sé una propulsione vitale che scavalcava e oltrepassava
la loro quotidianità.
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Il costruttore di Enes Sivac |
Raccontateci qualcosa sugli artisti che hanno preso
parte al progetto?
Mariagrazia - Il vero punto di vista dirompente che propone
il libro è che emerge una necessità artistica
diffusa. Il restare costretti sapendo che la propria esistenza
potrebbe terminare da un momento all'altro provoca negli abitanti
della città assediata la necessità di esprimersi,
di lasciare un segno, una testimonianza della propria esistenza.
Contemporaneamente la necessità di sopravvivere psicologicamente
alla chiusura della città, all'esperienza della barbarie
quotidiana, al bisogno di far trascorrere le ore, fa nascere
un bisogno artistico che trova espressione in pittura, scrittura,
poesia, rappresentazione teatrale, musica. Una donna usa come
strategia la conta del riso: “Setacciavo il riso a mano
per ore. Mi aiutò a non diventare matta come un cavallo”
(p. 130).
Anni dopo l'artista di fama internazionale Marina Abramovi creerà
una performance, Counting the rice, che porterà
in giro per i più grandi centri d'arte del mondo, consistente
proprio nel passare ore a separare chicchi di riso, uno dei
metodi, per la Abramovi, “per sviluppare la resistenza,
la concentrazione, per mettere alla prova i propri limiti fisici
e mentali”.
Artisti veri e propri poi non sono mancati, la cantante lirica
Gertruda Muniti ha tenuto più di cento concerti al freddo
e in condizioni inimmaginabili per dare conforto alla popolazione
sotto assedio; l'artista Enes Sivac ha creato diverse installazioni
e manichini, tra cui L'uomo volante, realizzati con fil
di ferro e altro materiale recuperato tra le macerie ed esposte
tra una strada e l'altra, in sospeso, rischiando moltissimo
perché i crocevia e gli attraversamenti erano i luoghi
più esposti agli spari dei cecchini, con il solo fine
di rendere il più visibili possibile le sue opere dalle
finestre delle case dalle quali la gente non poteva uscire.
La prima opera, Ciclisti, venne sospesa in aria il 24
giugno 1992 davanti all'ex palazzo del Governo bombardato e
distrutto. Nel 1994 il manichino L'uomo che volava sul fiume
venne ricoperto di carta e appeso su dei cavi tirati tra una
riva e l'altra del fiume Miljacka, in pieno centro città.
Nell'agosto di quell'anno, durante un festival, venne fatto
bruciare: l'anima in fil di ferro del manichino rimase lì,
appesa, fino alla fine della guerra.
Che cos'è un museo multimediale?
Mariagrazia - Negli anni dell'assedio e in seguito il
collettivo FAMA si è impegnato a raccogliere più
testimonianze possibili di quegli anni, testimonianze legate
alla vita quotidiana, alle estreme conseguenze pagate a caro
prezzo dalla popolazione civile. E lo ha fatto con ogni mezzo:
audio, foto, video, con installazioni, con opere d'arte, giornali,
volantini.
Tutto questo materiale è stato raccolto e messo a disposizione
in un portale (fama.org) nel quale hanno trovato spazio anche
mappe, percorsi artistici e approfondimenti politici, tutti
utili a spiegare quello che i giornalisti ritenevano inspiegabile,
le cause e le conseguenze di una guerra sanguinaria.
Nel testo che importanza ricoprono le fonti orali?
Matteo - Sono la spina dorsale del libro. Le testimonianze
anonime presenti nel volume sono organizzate in tre sezioni
(creatività, attività quotidiane, equilibrio)
corredate da foto e illustrazioni.
L'assenza di nomi e cognomi garantisce l'impossibilità
di catalogazione in base al gruppo etnico e religioso. Questo
aspetto certifica semplicemente di essere stati cittadini della
Sarajevo assediata, condizione che pone in secondo piano ogni
tipo di appartenenza.
Il volume ci consente quindi di metterci in ascolto, di assorbire
le voci in presa diretta, di vedere la vita durante l'assedio.
Le testimonianze ci raccontano anche di come la solidarietà
di vicinato e l'informalità abbiamo giocato un ruolo
decisivo per la sopravvivenza.
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Un ragazzo trasporta taniche d'acqua durante l'assedio |
Dominio e arte della resistenza, come si sono mossi
in quegli anni difficili?
Mariagrazia - Di pari passo. Più le condizioni
di dominio e costrizione aumentavano più la necessità
di sopravvivere psicologicamente creava le condizioni per sperimentare
ogni tipo di strategia. L'arte della resistenza è diventata
resilienza, la capacità dei metalli di piegarsi senza
spezzarsi, come della mente di resistere senza cedere del tutto
a condizioni disumane. Ma questa capacità sarebbe stata
inesistente se non legata a un profondo senso di comunità.
Tutte le pratiche di resistenza, fisica e culturale, sono state
messe in atto e amplificate in un orizzonte di condivisione.
Ogni performance artistica, ogni gioco inventato per tenere
lontani i bambini dalla strada, ogni stratagemma per cucinare
erbe e tostare riso e ghiande per fare il caffè, trasportare
acqua, avere del fuoco, sono stati pensati e realizzati per
essere condivisi con i vicini, con gli amici, con tutte e tutti
gli abitanti di Sarajevo.
La malattia del nazionalismo ha le colpe principali
di quel conflitto?
Matteo - A mio avviso sì, credo che la propaganda
nazionalista abbia avuto un ruolo fondamentale. Volendo fare
un parallelismo, pensiamo a quanti migranti arrivano in Italia
e qual è l'immagine costruita sui media... sono
riusciti a far percepire il pericolo anche a persone che ritenevamo
insospettabili. Il meccanismo che entra in gioco è più
semplice di quello che pensiamo.
L'intento dell'assedio comunque fu quello di distruggere l'idea
di Fratellanza e Unità dei popoli così cara a
Tito, che infatti iniziò a sgretolarsi subito dopo la
sua morte. Durante le presentazioni del libro è capitato
di avere tra il pubblico persone scappate dalla guerra, le narrazioni
che fanno della società prima del conflitto sono di un'autentica
indifferenza verso la provenienza etnica o religiosa, anzi,
questo emerge come un aspetto positivo, in quanto possibilità
di stare assieme, un momento di condivisione piacevole delle
differenze.
Andrea Staid
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