Libertà social
Ho un confuso ricordo di un film di qualche anno fa, Risvegli
(P. Marshall, 1990), nel quale si delineava una sperimentazione
medica sul Parkinson basata essenzialmente – e sto semplificando
– sulla convinzione che quello che noi recepiamo come
uno stato catatonico sia in realtà il risultato di un
movimento talmente rapido da non essere percepibile se non come
il suo contrario. Mi torna in mente oggi, e forse non del tutto
a caso, in un momento di “saturazione della comunicazione”
della quale fatichiamo non poco a renderci conto. La tempesta
comunicativa di FB, ormai abitato prevalentemente da over 50s,
tanto quanto l'esibizione di identità vere e immaginarie
su Instagram, la fulminea efficacia di Twitter hanno come esito,
appunto, un eccesso di comunicazione che finisce per risultare
in una totale assenza della stessa.
C'è
poi, a me pare, un dato preoccupante: l'innalzamento della fascia
d'età alimenta lo slittamento degli obiettivi. Sempre
più “adulti professionalmente impegnati”
utilizzano i social per scopi professionali, piegando la piazza
a finalità al meglio poco eleganti, al peggio pericolose.
Vi è un uso “pubblico” e “promozionale”,
che forse è quello più ricorrente: l'adulto che
vuole farsi conoscere professionalmente, promuovere un evento,
vendere un suo libro, condividere un suo successo si esibisce
come non farebbe probabilmente mai di persona. Non ricorda,
cioè, che la vetrina nella quale si espone è pubblica,
abitata da una folla di persone, che sono individui singoli,
dotati di singoli filtri e di modelli interpretativi tra i più
vari. È vero che i social favoriscono un “effetto
gregge” abbastanza inevitabile – spesso sapientemente
sfruttato da leader politici in Italia e all'estero –
e tuttavia resta anche vero che, di fronte a un pubblico così
ampio e così poco percepibile, scivolare su una buccia
di banana è semplicissimo, e non sempre c'è qualcuno
che ti raccoglierà.
Vi è un uso “privato” o “intimistico”
dei social, che può diventare ancora più imbarazzante
nel momento in cui si supera, senza accorgersene, il confine
sottile tra l'umanissimo desiderio di supporto da parte degli
amici e una infantilissima consumazione di separazioni, conflitti,
fratture private coram populo (e in alcuni casi il “populo”
non gradisce affatto essere coinvolto). La tracimazione nel
ridicolo è inevitabile.
Intendiamoci: sono una utente FB, sebbene non proprio compulsiva.
Mi piace condividere i momenti belli soprattutto, ma anche le
buone letture e gli ottimi film. Mi rendo conto anch'io, tuttavia,
che in tempi recenti ho registrato la tendenza crescente a considerare
equipollenti le fonti social delle notizie e quelle giornalistiche
di norma (almeno alcune di esse) più documentate. Saltando
l'ostacolo a piè pari, e senza una piena consapevolezza
di farlo, mi sono ritrovata a trarre conclusioni prima di guadagnare
le documentazioni del caso. Questo è già grave
in sé. Lo diventa doppiamente se queste conclusioni affrettate
vengono – come possono – subito condivise, generando
nel pubblico l'impressione “numerica” che quanto
viene detto da molti sia, per definizione, vero.
C'è una consolazione che all'inizio mi è apparsa
come una forma di luddismo di ritorno e che adesso mi sembra
invece una dimostrazione di sanità mentale. Sempre più
giovani amici, tra i 20 e i 30 anni, buttano via lo smartphone
e tornano a un cellulare primordiale, non connesso al web e
utilizzato, per l'appunto, come telefono. I social non spariscono,
ma vengono usati con moderazione e per il loro scopo reale:
essere strumenti pratici di miglioramento della vita, non tecnologie
invadenti che azzerano i tempi morti, quelli necessari al pensiero
responsabile, e dunque indispensabili all'agire libero.
Una giovane amica mi ha parlato di una app per controllare i
tempi di esposizione al web. Stavo quasi per chiederle di passarmela.
E poi mi son detta che la sola app possibile sono io: il mio
cervello, la mia consapevolezza, la mia libertà. Tutte
app impossibili da generare attraverso la tecnologia.
Nicoletta Vallorani
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