Resistenza antifascista/
L'anarchico pistoiese Silvano Fedi
“Silvano
Fedi, nato nel 1920, muore il 29 luglio 1944 nelle vicinanze
di Pistoia in un'imboscata tesagli dalle truppe tedesche, forse
su delazione di alcuni italiani, ma l'episodio non è
a tutt'oggi completamente chiarito”. Così scriveva
Italino Rossi, che aveva già trattato la vicenda di Silvano
Fedi nel libro La ripresa del Movimento Anarchico Italiano
e la propaganda orale dal 1943 al 1950; edito nel 1981 dalle
Edizioni RL a cura di Aurelio Chessa, aveva concluso la voce
biografica sul comandante partigiano, contenuta nel Dizionario
Biografico degli anarchici italiani (edito da BFS edizioni nel
2003). Della vicenda della Formazione Fedi si era occupata anche
la rivista “A” nell'aprile del 1973 nella monografia
“Gli anarchici contro il fascismo” ed anche Adriana
Dadà nel suo libro L'anarchismo in Italia: fra movimento
e partito, pubblicato nel 1984.
Preannunciato dal numero 241 del 2014, dal titolo “Agguato
a Montechiaro”, del Notiziario del Centro di Documentazione
di Pistoia, dove Ilic Aiardi e Roberto Aiardi avevano trattato
della vicenda nella quale Silvano Fedi e due compagni della
sua formazione, trovarono la morte, è uscito nel corso
dell'anno, scritto dagli stessi autori, un altro libro che contestualizza
storicamente e politicamente la figura del nostro compagno.
Storie di Resistenza a Pistoia. La vicenda del comandante
partigiano Silvano Fedi è un altro notevole ed esaustivo
contributo al chiarimento di quella vicenda, nel contesto della
Resistenza a Pistoia e nel territorio attorno a Pistoia. Il
libro è dedicato al nostro compagno Giuseppe Pinelli
e inizia con una densa introduzione e con la prefazione di Bruno
Fedi, fratello di Silvano, che suggerisco entrambe di leggere
con attenzione, per la profondità di prospettiva sul
passato e sul presente: che oggi raramente è dato di
avere.
Il libro che è un elevato contributo alla storia della
Resistenza in Italia, per ricchezza di contenuti, esame della
documentazione archivistica e raccolta delle testimonianze orali
degli anarchici della Formazione Fedi, degli anarchici di Pistoia
e della popolazione che soffrì la tragedia della guerra,
dei bombardamenti e della guerra civile. È, a mio parere,
pari all'altro grande libro che trattò, alcuni anni fa,
la storia di quel periodo: Una guerra civile, Saggio storico
sulla moralità nella Resistenza, scritto da Claudio
Pavone.
Da rammentare che il libro è stato edito dal CDP di Pistoia,
che da decine di anni si occupa della conservazione della memoria
antifascista coniugandola con quanto di progressismo si è
via via sviluppato dalla cesura epocale del '68 in avanti, e
che Aurelio Chessa, citato nel libro, per diversi anni, proprio
a Pistoia, curò e sviluppò l'Archivio Famiglia
Berneri, ora Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.
Dalle pagine del libro emerge una città profondamente
amante della libertà, che alla riconquista di questa
libertà ha visto sacrificarsi non solo la vita di Silvano
Fedi e di diversi anarchici, ma anche di militanti di altri
partiti, come si rileva dal libro. Infatti il libro è
anche storia dei diversi contributi che le diverse famiglie
politiche svilupparono in quegli anni. Eppure un libro così
orientato politicamente ed ideologicamente propone al lettore
fatti e, laddove alcuni fatti risultano essere controversi,
ne sono presentate e ragionate le diverse versioni ed interpretazioni,
che si sono succedute nel corso degli anni da allora. Viene
di molto fatta chiarezza sui rapporti di Licio Gelli con la
Resistenza e con Silvano Fedi, nonché sui retroscena
che accompagnarono il cambio da un regime ad un altro.
Rimane tuttora ancora non esaurientemente definita la vicenda
che portò all'agguato nel quale Silvano Fedi e due suoi
compagni persero la vita, ma rimane la bella figura del militante
anarchico.
Pieno di vita e di attività antifascista, accorto e spericolato
quel che era necessario in un periodo convulso, generoso e attento
alle necessità del momento, così da realizzare
un forno di panificazione con un panificatore dedicato, per
venire incontro alle terribili condizioni della popolazione
stremata dalla guerra e dal passaggio del fronte. Certamente
Silvano Fedi sarebbe stato un compagno fondamentale nella ripresa
del movimento anarchico del dopoguerra.
Enrico Calandri
Sardegna/
Quei piccoli paesi a rischio estinzione
Sono
31 i piccoli paesi dell'interno della Sardegna a rischio concretissimo
di totale estinzione in un futuro ormai sempre più prossimo.
Questi paesi sono infatti, attualmente, in fase di grave spopolamento,
assieme a centinaia di altri paesi di media e più ampia
popolazione, che sembrano reggere ancora, versando però
in uno stato di costante precarietà e di terribile isolamento.
Sono posti nelle aree interne dell'isola, lontani dai centri
delle coste che attraggono turismo e dalle grandi città;
e sono caratterizzati, ormai da tempo, da un continuo esodo,
per la crisi economica (conseguenza delle profonde trasformazioni
indotte dall'economia globalizzata) e perché, in generale,
sulle giovani generazioni operano modelli (indotti) di vita
che sono quelli produttivistici, individualistici e competitivi,
della società dei consumi, per inseguire i quali, cercano
opportunità e lavoro nelle grandi realtà metropolitane.
Di quest'attuale e grave fenomeno dello spopolamento, relativamente
alla Sardegna, un documentato studio analizza le cause e fa
un'esaustiva radiografia della situazione attuale: lo hanno
coordinato Francesco Cocco, Nicolò Frenu e Matteo Lecis
Cocco-Ortu, del collettivo interdisciplinare di progettazione
e ricerca urbanistica e architettonica Sardarch e lo ha pubblicato
l'editrice LetteraVentidue col titolo Spop. Istantanea dello
spopolamento in Sardegna (Siracusa 2018, pp.190, €
20,00). Il collettivo Sardarch si presenta, nelle prime pagine
del libro, con un Manifesto (redatto al Cabaret Voltaire di
Zurigo nel 2009) che inizia con un deciso “noi crediamo
nella ricerca tra ricerca e progetto al fine di stimolare una
nuova lettura del territorio e della città”. Questa
ricerca – si legge ancora tra le proposizioni del Manifesto
– avrà come fine l'intervento attivo e partecipato
sulle realtà territoriali al fine di ridisegnarle nel
rispetto dell'ambiente, della loro storia e delle loro tradizioni,
ed esalterà la bellezza, come fattore identitario dei
luoghi, e il valore etico e politico dell'architettura. E, animati
da tale spirito programmatico, sono i diversi interventi della
prima parte del libro che analizzano, interpretano e valutano
il presente della Sardegna interna e abbandonata, in vista,
però, della costruzione di un nuovo modello di futuro,
dove la progettazione tecnica ed economica, discussa e decisa
dal basso, diventerà uno “strumento capace di ridurre
squilibri sociali e di aumentare la qualità della vita”,
di “far nascere nuove urbanità, nuovi rapporti
tra urbs e civica”, e di “stabilire con il paesaggio-ambiente
un rapporto di uguaglianza e di cura reciproca”.
La parte centrale del libro è costituita da un ampio
e completo “atlante” che, in un nutrito corpus di
cartine, presenta una chiara e accurata mappatura “dell'organizzazione
geo-politica storica e attuale; dell'invecchiamento della popolazione
e della geografia dello spopolamento” dell'intera Sardegna;
e in delle schede dettagliate radiografa, “in una panoramica
generale, lo stato demografico, geo-politico e dei servizi”
di ognuno dei 31 paesi che, nel volgere breve dei prossimi decenni
(secondo le stime dell'Istat) potrebbero non esserci più.
Quindi, dopo l'accurata analisi della realtà presente,
il volume dà ampio spazio a quanto s'è fatto e
si sta facendo nei centri interni dell'Isola, per uscire dall'isolamento
e impedire il declino di un territorio carico di storia e di
cultura: testimonianze e 'casi studi' documentano la formazione
di Consulte giovanili, attive e propositive nelle politiche
locali; il riutilizzo delle case chiuse vendute al prezzo simbolico
di un euro; l'apertura dei musei diffusi; l'insediamento di
accademie artistiche e culinarie di gran livello; la pianificazione
partecipata ed ecosostenibile del recupero dei centri storici;
le performance artistiche: come quelle di Gianluca Vassallo
che nel 2016 “nel corso di dieci giorni ha attraversato
dieci paesi tra quelli definiti in via di estinzione, in funzione
della più vasta superficie pro-capite, ridefinita dall'artista
come la circonferenza della solitudine” e ha raccolto
testimonianze fotografiche e video che hanno dato vita a una
mostra che ha ben raccontato “la strada, i paesi, le persone,
gli sguardi e le parole degli abitanti visibili in una città
invisibile che riassume tutte le altre”.
In un'intervista al musicista Paolo Fresu si propone, a modello
di sapiente e sostenibile uso turistico del territorio, il noto
festival jazz da lui ideato e che si svolge, ormai da anni,
a Berchidda. E un intervento prende ad esempio quanto realizzato
a Riace in Calabria, comune virtuoso nell'integrazione degli
immigrati, per indicare un'altra possibile via per il ripopolamento
dei borghi abbondati: considerare i migranti una risorsa e non
un peso, in specie nelle comunità precarie e sottoabitate.
Il volume pone così l'attenzione su un fenomeno, lo spopolamento
dei centri interni e rurali, che non riguarda solo la Sardegna,
ma l'intera nazione: offrendo strumenti di indagine e interessanti
stimoli operativi, perché “l'indebolimento demografico
può essere visto come l'inizio di nuove strategie di
relazione e residenza”.
Silvestro Livolsi
Rivoluzione russa/
La lenta disillusione di Emma Goldman
Opportuna e di grande utilità l'idea di rendere disponibili
(Emma Goldman, Un sogno infranto - Russia 1917, Zero
in Condotta, Milano 2017, pp. 114, € 10,00) alcuni articoli
di Emma Goldman scritti tra il 1917 e il 1936, necessariamente
disomogenei e a tratti frammentari, interamente focalizzati
prima sull'abbattimento dell'autocrazia zarista e poi sulla
conquista del potere da parte del partito comunista.
Va ricordato, per chi non sia già dedito alla storia
del movimento anarchico, che Emma Goldman, di famiglia ebrea
russa, era emigrata giovanissima dalla potenza imperiale euroasiatica,
giungendo negli Usa nel 1885. Era qui che aveva aderito al movimento
anarchico, entrando in contatto diretto con le condizioni dei
lavoratori e delle lavoratrici statunitensi, in larga parte
immigrati come lei. La repressione delle attività sindacali
era di natura evidentemente diversa rispetto a quanto aveva
lasciato in Russia, dove il despotismo era brutale e la contrapposizione
tra rivoluzionari e tiranni di violenza immediata, e tuttavia
la democrazia americana non mancò mai di mostrare il
suo volto feroce, come nel caso degli assassinî di Chicago
del 1886-87, prima per mano della polizia e poi del potere giudiziario.
Fu questo un evento cardine nella vita della Goldman che divenne
oratrice, propagandista ed organizzatrice temutissima dal governo
statunitense e costantemente perseguitata a causa delle sue
idee. Alla caduta dello zarismo Emma Goldman era alle prese
con la campagna anti-interventista nella Grande guerra per la
quale sarà arrestata nel giugno 1917, assieme ad Alexander
Berkman, e condannata a due anni di prigione per istigazione
alla renitenza alla leva. La sua posizione era quindi particolarmente
svantaggiata al fine di una corretta valutazione degli eventi
in corso, così che l'entusiasmo per le travolgenti conquiste
del popolo russo, unita alla lunghissima lontananza dalla terra
d'origine, indusse la Goldman a schierarsi dalla parte del governo
bolscevico con determinazione poco critica. Giusta la scelta
quindi di riportare in apertura del volume due articoli apologetici
datati dicembre 1917 e gennaio 1918, dove si possono trovare
frasi bizzarre, se scritte da un'anarchica, come: “È
evidente che sotto la rabbia nei confronti dei bolscevichi,
condivisa dalle forze oscure di tutto il mondo, si nasconda
un senso di rispetto, in virtù del fatto che Lenin e
Trotsky chiedono non meno di... tutto! Tutto per le persone
e niente per loro stessi.”
Con tali ottimistiche convinzioni, a guerra ormai finita, Berkman
e Goldman uscirono di galera, ma un involontario sostegno alla
loro futura consapevolezza arrivò dalla decisione delle
istituzioni nordamericane di rispedire un po' di sovversivi
nel paese della rivoluzione alla quale inneggiavano. A Emma
Goldman tra l'altro venne ritirata la cittadinanza, al fine
di giustificare una deportazione altrimenti giuridicamente impossibile,
e fu quindi imbarcata su una nave che all'inizio del 1920 la
riportò nei suoi luoghi d'origine. Quella che chiamerà
la sua “disillusione” prese corpo lentamente, osservando
di persona e verificando le affermazioni degli uomini del partito
al potere e quelle degli anarchici con i quali si confrontava,
verificando le condizioni dei lavoratori e cercando di comprendere
le conquiste rivoluzionarie e le difficoltà del processo
di cambiamento.
Nell'arco di poco più di un anno le sue certezze vengono
completamente demolite, ricevendo il colpo di grazia nel marzo
del 1921. “La realtà che trovai in Russia era grottesca,
totalmente differente rispetto al grande ideale che mi ero costruita.
Ci sono voluti quindici mesi prima che riuscissi a trovare dei
punti di riferimento per orientarmi. Ogni giorno, ogni settimana,
ogni mese, il prezioso edificio che mi ero costruita si sgretolava
sempre di più. Ho combattuto disperatamente contro le
mie disillusioni. Per lungo tempo ho lottato contro quella voce
silenziosa che dentro di me ripeteva insistentemente di affrontare
i terribili fatti cui assistevo. Ma io non volevo, né
potevo arrendermi. Poi è arrivata Kronštadt. È
stato lo strappo finale che mi ha portato alla terribile realizzazione
che la rivoluzione russa non esisteva più. Ho visto con
i miei occhi il terrificante Stato bolscevico schiacciare ogni
sforzo rivoluzionario costruttivo, sopprimendo, corrompendo
e disintegrando qualsiasi cosa.” Purtroppo il volume costituisce
solo un assaggio della corposa opera di Emma Goldman per la
quale non sembra ancora prevista una pubblicazione organica
– la celebre autobiografia in quattro volumi, Living
my life, attende da tempo una ristampa: tre furono stampati
negli anni '70 dalla Salamandra (ma sono da tempo introvabili),
il quarto successivamente da Zero in Condotta (ma è anch'esso
esaurito) – testimonianza straordinaria della storia dei
movimenti rivoluzionari tra l'800 e il '900, indispensabile
in tempi di facili mitologie e smemoratezza generalizzata.
Giuseppe Aiello
Tortura/
Nell'era della Resistenza
La storia inizia già dall'illustrazione di copertina,
che è essa stessa un documento storico di rilievo riguardo
“l'immaginario collettivo” dopo la Liberazione.
Si tratta di un disegno del 1945, eseguito da Gaetano De Martino
ex detenuto a San Vittore, raffigurante torturatori in azione,
ben riconoscibili nei loro ruoli lugubri e nell'identità
(un soldato tedesco con le mostrine delle SS e un fascista italiano).
È una raffigurazione efficace del tema specifico, sorta
di “quadretto”, che però può allargarsi
e superare le stesse delimitazioni spazio temporali imposte
dal titolo.
Questo
nuovo lavoro di Mimmo Franzinelli (Tortura. Storie dell'occupazione
nazista e della guerra civile (1943-45), Mondadori, Milano
2018, pp. 285, € 22,00) per la struttura narrativa chiara
e accessibile, per il consueto stile d'indagine volto alla focalizzazione
di tematiche specifiche e rilevanti, è assimilabile a
tutte le sue precedenti opere di successo. Stavolta però
la lettura, e d'altra parte c'era da aspettarselo, è
davvero poco amena e suscita patemi.
Trattasi, in verità, di un vero e proprio “viaggio
nell'orrore, per conoscere i meccanismi oscuri dell'animo umano
e, forse, per individuarne qualche antidoto” (p. 252).
Di certo il saggio, con particolare riferimento all'argomento
trattato, oltre a mettere in risalto l'ormai consolidato e ben
conosciuto impegno civile dell'autore, fine raccontatore e storico
molto prolifico del fascismo, della Repubblica Sociale Italiana
e della seconda guerra mondiale, evoca – nei suoi passaggi
cruciali come nelle pieghe minuziose della trama – forti
turbamenti e induce a tristi riflessioni. Prescindendo dal fatto
che le cesure temporali siano delimitate al biennio 1943-1945,
snodo che peraltro ricorre nella maggior parte degli studi di
Franzinelli, è quasi d'obbligo “dilatare”
ben oltre; del resto alcuni spunti per procedere in tal senso
li troviamo chiaramente enunciati nelle poche intense pagine
del libro dedicate alle “Conclusioni”. Questo perché
“Per l'Italia, quello della tortura è un nervo
scoperto, un problema sostanzialmente rimosso” (p. 251).
Si va così dalle similitudini e “continuità”
riscontrabili nell'immediato secondo dopoguerra rispetto all'epoca
precedente – basti pensare alle modalità di repressione
e trattamento dei detenuti o dei sottoposti a fermo di polizia
– per giungere agli anni Sessanta (con i carabinieri che
torturano e seviziano i separatisti sudtirolesi); fino al terrificante
G8 di Genova, e poi ai casi di Stefano Cucchi, Riccardo Magherini,
Giuseppe Uva e molti altri. E come non ricordare allora che,
proprio in Italia, il reato di tortura è stato introdotto
in una forma così blanda da non punire neppure –
appunto – casi come quelli di Diaz e Bolzaneto?
C'è allora un nesso parecchio evidente tra potere costituito
e supplizio organizzato, tra quest'ultimo e l'esercizio della
violenza “legittima” da parte dello Stato. In chiave
attuale sarebbe sufficiente la compulsa sommaria dei rapporti
annuali di Amnesty International, oppure basterebbe un approccio
global history per tracciare una sorta di “storia
mondiale della tortura”, plurisecolare, esattamente parallela
a quella delle istituzioni statuali, ecclesiastiche, ecc. Fin
dalle epoche più remote la mano dell'aguzzino, al servizio
di Dio, della Legge, della Nazione, della Classe o di altre
superiori entità o interessi, ha reiterato atti di crudeltà
verso le persone non conformi e non allineate.
Da sempre tecniche più o meno raffinate di tortura sono
state patrimonio dei protocolli di comportamento delle forze
di polizia, militari, servizi segreti, strutture paramilitari
o gruppi di guerriglia; ciò al fine di comminare sofferenze
fisiche e psichiche ad avversari e oppositori, o in genere per
strappare confessioni. Tali prassi, che in qualche caso sono
state storicamente legittimate dai codici, sono rimaste il più
delle volte nel limbo dell'informalità e della discrezionalità
gestionale di ogni forma di potere. E poi i torturatori –
come bene ci spiega Franzinelli – agiscono sempre in segreto
e possibilmente senza lasciar tracce. Per una crudele e strana
regola del contrappasso talvolta anche le stesse vittime tendono
a rimuovere i loro ricordi: “A che pro esporre tutta una
sequela di sevizie che disonorano l'umanità?” sono
le parole di un reduce dai Lager e da San Vittore (p. 7). Così
la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”
del 1948, pur nobile nei suoi intenti, non ha cambiato di una
virgola i termini della questione.
Protagonisti e contesti son ben vagliati e analizzati dall'autore
nei primi sei corposi capitoli: I laboratori del furore nazista;
Torturati (e torturatori); Nella Repubblica della violenza;
Le squadre della morte; Le polizie speciali. Di particolare
interesse i focus relativi agli ultimi due capitoli: Sevizie
contro le donne (nel quale si individua la tipologia sessista
delle violenze insieme alla figura del maschio torturatore);
La Resistenza macchiata (ossia i casi, rimossi, della
“criminalità partigiana”). A quest'ultimo
proposito è interessante riportare le conclusioni dell'autore
(leggibili anche nel risvolto di copertina): “Seppure
in versione isolata, anche i partigiani ricorsero alla tortura.
E questa è la pagina più nera della Resistenza,
il suo lascito peggiore. Eppure non è possibile un'equiparazione.
Oltre alla rilevante diversità quantitativa, le torture
inflitte dai fascisti rivestirono carattere istituzionale, mentre
quelle perpetrate dai partigiani violarono le norme diramate
dai CLN...”.
Studi come questo, che trattano in modo nuovo e con categorie
e visuali particolari gli snodi cruciali del Novecento, ci fanno
capire come sempre di più le fonti debbano essere interpretate
– per dirla con Giovanni De Luna – “alla luce
dei sensi, della sensibilità, delle emozioni dello storico
stesso”.
Giorgio Sacchetti
Arte/
Che onori la vita
Sei condannato ad essere te stesso. (...) La calligrafia. Il modo di camminare. Il motivo decorativo delle porcellane che scegli. Sei sempre tu che ti tradisci. Ogni cosa che fai rivela la tua mano. Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario.
(C. Palahniuk)
Questa frase è riportata dall'autrice nell'introduzione
al libro di cui sto per parlare. Una frase che in poche parole
racchiude l'essenza di tutto quello che si continuerà
a leggere. Sono cinque ritratti di donne accomunate dal fatto
di essere artiste, di usare strumenti mutuati dalle cosiddette
arti minori (ricamo, uncinetto, intreccio...) e, soprattutto,
di avere fatto del percorso di conoscenza di se stesse un racconto
artistico, o opera d'arte, se più ci piace dire. Da questo
il titolo: IO SONO – Arte, curato da Emanuela Scuccato
per le Edizoni del Gattaccio (Milano).
Emanuela ha incontrato queste donne andando a casa loro, facendosi
empaticamente raccontare le loro storie, la vita a partire dall'infanzia,
con tutti gli accadimenti che rendono una persona quel che si
trova ad essere, nel bene e nel male. Non siamo di fronte a
una giornalista che, intervistando l'artista, incomincia a parlare
per concetti astratti di non si sa bene cosa. In queste pagine
ci vengono raccontati i perché, le diverse ragioni che
hanno condotto un piccolo gruppo di donne ad usare certi strumenti
espressivi per creare e crearsi.
Si tratta di persone che stanno lontane dal mercato modaiolo
della vanità camuffata d'arte, più che altro figure,
come si legge, che anelano a un'arte liberatoria, un'arte
che le riconnetta alla loro autenticità e, per far
questo, partono da dove sono e da quel che hanno, il loro corpo
ad esempio, con le vesti e i monili che lo ricoprono e che diventano
oggetti parlanti, per denunciare con ironica leggerezza le contraffazioni
che il corpo subisce, per cercarne una nobiltà segreta.
Sono
donne che usano strumenti che appartengono alla tradizione del
lavoro manuale “femminile” come telai, aghi, fili,
uncinetti – perché magari li conoscono bene già
dall'infanzia – ma ne stravolgono l'uso, lo amplificano,
lo portano lontano dall'abitudine: con il filo lavoro/ cerco
pazientemente/di riunire i fili/che ci uniscono/alla natura,
scrive ricamando Pietrina Atzori.
Sono personalità molto diverse per le quali il lavoro
creativo diventa somma di ciò che si è compreso
in lunghi percorsi di ricerca. Si possono trovare affinità
o simpatia più per l'una che per l'altra, si possono
tentare giudizi estetici - se ci aggrada e ne sentiamo il bisogno
- ma il libro che le interviste formano, calato nel contesto
dell'arte contemporanea, è quasi una pietra preziosa,
proprio per il tono che usa e l'autenticità che cerca
di comunicare. Si legge con piacere e vien voglia di arrivare
fino in fondo, suscita curiosità e si vanno a cercare
– oggi che internet permette la vetrina per tutte/i –
le immagini del lavoro di queste donne, per capire meglio e
anche per ammirare.
Un'arte che abbia per fine la consapevolezza, la guarigione,
la libertà dell'individuo, in definitiva un'arte che
onori la vita, che posto può avere in una società
come la nostra? Nell'attuale sistema dell'arte c'è
posto, ad esempio, per un'arte così come la intende Monica
Gorza con questa domanda? Secondo la curatrice sì...
purchè resti marginale.
Allora io mi chiedo: oggi si è centrali rispetto a che
cosa? E cosa significa essere marginali? Non è forse
lo spazio migliore in cui stare - il margine, il bordo, la periferia,
il confine - dove, anche se privati della luce dei riflettori,
si trovano piccole luci buone a illuminare le tracce che l'arte
lascia lungo il percorso della vita?
Mi è capitato altre volte di occuparmi di argomenti affini
a questo - di arte e creatività - recensendo libri, apparentemente
molto diversi tra loro, per le pagine di questa rivista.
Lo scorso mese di maggio (“A”
425 - Contro le mostre) con la denuncia dello sfruttamento
economico che le grandi opere d'arte subiscono ridotte a eventi
commerciali.
Nell'ottobre dell'anno passato (“A”419
- Arte ir-ritata) presentando un'interessante ricerca
che riflette sulla creatività come risorsa, nei luoghi
di costrizione/detenzione, ma non solo.
Ancora un po' più indietro, nel mese di giugno (“A”
417 - Arte genuina e clandestina) ho cercato di mostrare
il rapporto tra arte e agricoltura; entrambe produttrici di
beni essenziali per la nostra vita, nonché di bellezza,
ed entrambe vittime del medesimo destino che sta modificando
alla radice la loro fisionomia.
Ho ricostruito questo percorso non per vanità della recensora,
ma per irrobustire il filo in comune che attraversa questi libri
e i pensieri che li hanno accompagnati, filo che unisce l'arte
dell'occidente a quella d'oriente, africana e di ogni parte
della terra, arrivando alla creatività di ognuno di noi.
Un filo che collega gli autentici percorsi dell'avventura umana
tracciati dall'arte mostrando – in epoca di ansia da “connessione”
– il bisogno di ricostruire il frantumato legame con noi
stessi e con il resto che vive.
Scrivevo ad esempio, che le forme dell'arte sono usurpate tanto
quanto è cambiato il nostro rapporto con il cibo e la
terra che lo produce e penso davvero che si possa ragionare
in questo modo parlando d'arte, di un'arte che onori la vita,
come viene detto in IO SONO – Arte.
Silvia Papi
http://artenatura.altervista.org
https://silviapapi.jimdo.com
Genova,
1° luglio/Quale ruolo per la stampa libertaria?
se ne parla con le redazioni di A, Cenerentola,
Malamente, Umanità Nova
presso lo “Spazio Libero Utopia”, Via Ronchi, 59 Genova Multedo
Ore 16.00: “Qual è
lo stato dell'informazione oggi? e quale ruolo ha o può
avere la stampa libertaria oggi?”
Ne parleremo con 4 pubblicazioni libertarie: A, Cenerentola, Malamente, Umanità Nova. “I media istituzionali sono inefficaci per diffondere le idee non conformi al sistema, ieri come oggi. Riviste, manifesti, giornali, periodici alternativi ai media ufficiali sono stati e sono necessari per descrivere le manifestazioni di massa, sviluppare teorie e pratiche antagoniste, denunciare i crimini delle istituzioni statali e religiose; questi sono gli scopi che la stampa libertaria deve e dovrebbe sviluppare” (da Anarchopedia).
Ore 20.00: pizzata di autofinanziamento
E-mail:
rotta334@inventati.org
https://www.facebook.com/events/2054105461285459/
https://utopiagenova.noblogs.org/post/2018/05/14/domenica-1-luglio-ore-16-la-stampa-libertaria-oggi/ |
|