migrazioni
Le nuove frontiere
di Davide Biffi
Si ergono muri, si modificano le frontiere e soprattutto se ne creano di nuove, dentro e fuori dagli stati. In Italia, per esempio, oltre agli hotspot, anche le questure sono nuove frontiere interne. Mentre altre sono in funzione in Turchia, in Libia, ecc... Si dice che lo si fa anche contro il terrorismo, peccato che nessun terrorista sia mai stato fermato a una frontiera.
Si è già parlato
diverse volte delle frontiere negli ultimi numeri di questa
rivista. A marzo anche con una bella
copertina.
Sappiamo che spesso qualcuno - molti, troppi - perde la vita
nel tentativo di oltrepassarla.
Uccidono meno le frontiere terrestri di quelle marittime e fanno
meno notizia delle ampie distese di acqua che separano l'Europa
dall'Africa e dal Medio Oriente. Acque che spesso si prendono,
senza restituirli, corpi di donne, uomini e bambini che avevano
provato ad attraversarla, quella barriera.
Anche le frontiere terrestri uccidono. Quella ligure, nella
zona di Ventimiglia, uccide persone che tentano di raggiungere
la Francia attraversando l'autostrada a piedi, oppure le gallerie
ferroviarie o, ancora, inerpicandosi per i sentieri delle Alpi
Liguri o ancora più su. Di quella a est, che separa il
Friuli dalla Slovenia e dall'Austria si parla molto meno, quasi
per niente. Anche lì però passano numerose vite
di migranti in cerca di un futuro diverso e anche lì
qualcuno si ferma, per sempre.
Le frontiere producono effetti reali sulle vite delle persone.
Se non esistessero vivremmo in un mondo diverso. Migliore, peggiore?
Chi lo sa... di sicuro diverso.
C'è chi paventa l'invasione, se un giorno dovessimo aprire
tutte le porte: come quando togli il tappo e l'acqua scorre
senza sosta. O, immagine fortemente evocativa che accarezza
il razzismo e la xenofobia più intima, come quando apri
le gabbie e tutte le bestie scappano fuori, eccitate e disordinate.
Perché questa è la paura: le orde barbariche,
bestiali, che arrivano senza alcun freno.
C'è chi immagina che si possa vivere serenamente in un
mondo senza frontiere: io sono tra quelli e ne sono fermamente
convinto.
csakisti/Depositphotos.com
Una ridefinizione delle frontiere
Quotidianamente osservo inerme i danni e gli sconvolgimenti
causati dall'esistenza delle frontiere su chi per sfortuna sua
ci finisce intrappolato. Si parla oggi di frontierizzazione
per indicare un processo di ridefinizione delle frontiere, che
passa attraverso un loro ricollocamento e rimodellamento. Frontiere
che cambiano simbolicamente e realmente. Aumentano e proliferano:
si ridefiniscono nei classici luoghi fisici di confine all'interno
dell'Europa e vengono ricollocate nei luoghi di transito oltre
l'Ue (processo di esternalizzazione); vengono creati luoghi
all'interno degli stati europei, come gli hotspot, che funzionano
come anticamera d'Europa, spazio extraterritoriale non normato
che ha di fatto la funzione di decidere chi far entrare realmente
nel territorio dello Stato e dell'Unione.
Andiamo con ordine.
Uno dei vanti dell'Europa è quello di aver abolito le
frontiere e tutti possiamo misurarlo con mano. Viaggiamo senza
pensieri in tutto lo spazio Schengen (e oltre) grazie all'abolizione
di controlli alla frontiera e visti. La nostra libertà
di movimento è senza dubbio aumentata. D'altra parte
sappiamo che non è per tutti così e per molti
è naturale che un egiziano, un cinese, un gambiano debbano
avere un permesso per stare in Europa. Sappiamo dunque che per
qualcuno (direi, a spanne, tre quarti di mondo) i confini tra
stati esistono ancora, eccome.
Se ci capita di passare dalla frontiera di Ventimiglia notiamo
che, ancora, i posti di blocco ci sono. E se a noi bianchi caucasici
i poliziotti si limitano a darci una fugace occhiatina con un
cortese “bonjour allez-y” di rito, a una persona
dai lineamenti meno caucasici spetta un trattamento differente.
La stessa cosa vale per chi viaggia sui treni che attraversano
i confini. Qualche chilometro prima delle frontiere terrestri
vediamo salire poliziotti che passeggiano per i corridoi del
treno; alla frontiera saliranno i loro colleghi d'oltre confine
che faranno i loro stesso lavoro con passeggeri non evidentemente
“europei”.
Di fatto, quindi, le frontiere tra gli stati esistono ancora.
Francia, Austria, Svizzera, Slovenia: a questi valichi un nero
non passerà di sicuro inosservato. Certo, si racconterà
che è anche per via del terrorismo che i controlli sono
stati ripristinati... ma quanti terroristi sono stati fermati
in questi anni ai valichi di frontiera?
Il funzionamento di queste frontiere si riconfigura quindi su
base etnica e nazionale: alcuni possono passare tranquilli altri
vengono fermati e eventualmente respinti. Semplice e chiaro.
Come altrettanto semplice è la domanda che sorge spontanea:
perché io passo e tu no? Dovremmo trovare la forza di
porre queste semplici domande all'opinione pubblica e decostruire
la retorica anti immigrati e pro difesa delle frontiere: non
viviamo forse in un mondo di liberi e uguali? (ogni riferimento
a partiti e movimenti è ahimè casuale!)
Come un intruso
Proseguiamo nel viaggio all'interno dei confini nazionali.
Anche qui esistono zone di confinamento e veri e propri confini
interni. Qui dobbiamo fare anche uno sforzo teorico per comprendere
il significato di queste parole che ci apparirà subito
evidente e chiaro.
Una persona che giunge in Italia senza documenti (o con un documento
provvisorio che poi scade) è considerato irregolare,
cioè clandestino. Di fatto un fantasma, che non dovrebbe
esistere sul territorio nazionale. Dovrebbe essere al di fuori
dei confini dello stato. Ma fisicamente non lo è, perché
è qui e qui vive, lo è però simbolicamente,
non avendo alcun accesso ai diritti di cittadinanza e a gran
parte dei diritti considerati universali (di fatto un irregolare
ha diritto solamente alle cure mediche presso gli ospedali in
caso di urgenza). Diciamo allora che un irregolare è
come un intruso, uno che ha varcato forzatamente il confine
e vive una condizione di confinamento simbolico ed esistenziale
reale perché la sua vita è sempre in balia dei
controlli di polizia e dell'impossibilità di rivendicare
diritti di cittadinanza, non essendo un cittadino ma solamente
un corpo.
Per coloro che invece non riescono a sottrarsi ai controlli
all'ingresso (pensiamo a chi arriva via mare) da un paio d'anni
esistono gli hotspot (a Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle
e Trapani). Sono luoghi di trattenimento dove le forze dell'ordine
provvedono all'identificazione dei migranti qui trattenuti al
fine di verificare chi può fare domanda di protezione
internazionale e chi invece debba essere rimpatriato nel proprio
paese di origine. Funzionano di fatto come un'anticamera all'ingresso
in Italia e Europa. Anticamera che per molti significa respingimento
e rimpatrio, con buona pace dell'universalità del diritto
di fare domanda di protezione internazionale che dovrebbe essere
concessa a tutti e valutata secondo l'iter di legge (cioè
da un'apposita commissione) e non dagli agenti presenti negli
hotspot.
“L'approccio hotspot” indica non tanto una struttura
o un luogo, quanto una modalità, un approccio (nei documenti
Ue si parla di «hotspot approach»): la Commissione
Europea raccomanda cioè di identificare rapidamente,
fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali delle persone
che sbarcano. Secondo una ricerca di Amnesty International,
gli hotspot sono utilizzati anche per separare i richiedenti
asilo dai migranti economici: una procedura illegale, perché
gli stranieri hanno comunque diritto a presentare domanda di
asilo.
Gli hotspot funzionano di fatto come Ellis Island nel ‘900:
quarantena e selezione all'ingresso. L'hotspot simbolicamente
quindi è un confine tra l'Italia e il resto del mondo,
una sorta di zona extraterritoriale.
Per quanti riescono a fare una richiesta di protezione internazionale
esiste invece la possibilità di finire nel sistema di
accoglienza (di cui già scrissi nel n. 422) e esservi
qui ospitato (o in certi casi confinato) in attesa della definizione
della propria condizione amministrativa. Confinamento che può
durare fino a tre anni, cioè il tempo necessario per
ottenere una risposta alla propria domanda di protezione.
radekprocyk/Depositphotos.com
La questura di Milano, per esempio
Si parla di hotspottizzazione e diffusione del modello hotspot anche per alcune procedure che da qualche tempo adottano le Questure italiane. Dal 2015 in poi anche le Questure si sono riconfigurate e adottano spesso prassi che le hanno fatte diventare progressivamente equiparabili a zone di frontiera. Per coloro che sono in Italia e ancora non hanno potuto formalizzare una richiesta di protezione internazionale, la questura è il luogo presso cui recarsi e fare questa richiesta. L'ingresso alla Questura e l'accesso alla domanda di protezione internazionale non è però facile e scontato.
Questo è quanto succede anche presso la Questura di Milano, per esempio. L'applicazione dell'approccio hotspot su larga scala risponde alla volontà politica di separare e espellere i migranti economici, smascherando così i presunti “falsi richiedenti asilo”.
La richiesta di protezione internazionale a Milano viene solitamente fatta presso la sede centrale della Questura, in via Montebello, in pieno centro. Dalle prime ore del mattino è abitudine vedere decine di persone straniere ordinatamente in fila, incolonnati tra le transenne, in attesa di entrare negli uffici della Questura. Alla porta di ingresso al piano terra si trova una guardiola con due agenti di polizia i quali verificano il motivo dell'accesso e espletano i controlli di rito.
Per sottoporre la domanda di protezione internazionale basterebbe presentarsi alla guardiola e dichiarare l'intenzione di fare questa richiesta; per tutte le altre pratiche è necessario avere con sè la prenotazione dell'appuntamento che viene fissato attraverso una piattaforma informatica.
Non è scontato l'accesso agli uffici della Questura e già questo passaggio definisce una prima frontiera da attraversare. L'accesso ai locali della Questura è governato dalla discrezionalità degli agenti alla guardiola. Non esiste un regolamento che definisca le modalità d'accesso e parlando con diversi migranti si registrano pratiche eterogenee di respingimento all'ingresso della Questura da parte degli agenti di guardia.
In questo modo la questura diventa una vera e propria frontiera, un luogo entro il quale e oltre il quale possono succedere molte cose, perlopiù irregolari, perlopiù impossibili da provare: una sorta di limbo dove si sospendono a tratti e a intermittenza, leggi e regolamenti.
Limitando il focus al diritto d'asilo, all'interno di quello spazio è reinterpretato tante volte quante sono gli addetti e i funzionari che hanno il dovere di applicarlo. Andare in Questura a richiedere asilo può aprire scenari infiniti; è percorrere un crinale.
Chi non riesce ad accedere alla Questura è di fatto respinto dalla possibilità di regolarizzare la propria presenza in Italia e mantenuto quindi nell'illegalità e separato dal resto della cittadinanza. Sia simbolicamente che realmente. In questo senso la Questura funziona come un valico di confine.
La funzione tappo
Nella ridefinizione dei confini e delle frontiere rientra anche il cosiddetto processo di “esternalizzazione” dei confini che riguarda gli accordi con i Paesi extra Ue. Il tentativo dell'Ue e degli stati nazionali è quello di fermare a monte i migranti, sia facendo accordi bilaterali con i paesi terzi che istituendo hotspot e campi di confinamento e di richiesta asilo per migranti nei paesi di transito verso l'Europa (Libia, Niger, Turchia solo per citare i principali). In questo modo l'Unione Europea cerca di spostare fuori dai propri confini terrestri la frontiera, con lo scopo appunto di fermare prima dell'ingresso in Europa i migranti. L'idea sarebbe quella di identificare fuori dal territorio dell'Unione Europea i migranti che potrebbero fare richiesta di protezione internazionale; una sorta di preselezione. Ovviamente la cosa desta molti dubbi sia da un profilo giuridico che meramente pratico e per ora non se n'è ancora fatto nulla.
Per ora la funzione tappo è garantita dai campi in Libia e in Turchia, finanziati con miliardi di euro dagli accordi stretti con Italia e Unione Europea: in questi campi però non è possibile fare domanda d'asilo e tutti ormai conoscono le reali condizioni di vita che offrono questi luoghi.
Queste molteplici forme, di riconfigurazione e utilizzo delle frontiere interne ed esterne non rappresentano la schizofrenia del sistema bensì la sua lucida programmazione e volontà di gestione dei flussi migratori; sono azioni e fenomeni in continuità tra loro che devono essere considerati a livello sistemico e non isolatamente.
Dimostrano come l'idea che sottenda chi governa i flussi migratori sia solamente una: quella di ridurre al minimo le possibilità di ingresso degli stranieri in Europa, alla faccia dei diritti umani universali (per i quali l'Occidente si vanta di andare in giro a fare guerre per il mondo), della libertà e dell'uguaglianza.
Davide Biffi
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