Marginalità ribelle
Una ciurma indistinta e piratesca
Amianto era un libro che avevamo letto in una sola notte,
soffrendo e ridendo, “bestemmiando e piangendo”.
Un soffio epico lo traversava, un movimento maestoso, una furia
di dire, un groppo alla gola. La vicenda di un saldatore super-specializzato
che per una vita aveva lavorato nell'industria siderurgica,
nelle piattaforme petrolifere, sempre sotto il fantasma protettivo
dell'amianto, finché una particola del metallo killer,
introdottasi chissà quanti anni prima nella sua complessione
da gigante, se l'era divorato riducendolo a un fantasma, al
relitto di una classe tradita, al grumo di sangue vomitato da
una società ingrata.
L'ispirazione
era autobiografica, perché lo scrittore Alberto Prunetti
è proprio il figlio del protagonista Renato. La vicenda
di Alberto dunque, la sua infanzia e adolescenza, la sua educazione
sentimentale operaia, si affacciava e faceva divertente contrappeso
alla tragedia del padre. Senza mezzi termini, un capolavoro
della nostra recente letteratura, premiato da un più
che meritato successo.
108 metri, uscito da pochi mesi è l'attesissima
continuazione, il secondo capitolo, premessa e conseguenza al
racconto di Amianto. Ivi si descrive come il giovane Alberto,
visto che nella natia provincia di Livorno non si batte chiodo,
né si profilano prospettive entusiasmanti sul territorio
nazionale, va a fare esperienza in Gran Bretagna.
La salute, il tempo, la vita dei genitori operai a qualcosa
doveva pur servire: a garantire un futuro differente, la vita
che verrà. C'era la consapevolezza che le fatiche e i
sacrifici che imponeva il lavoro della generazione operaia divenisse
per i figli una vita migliore, più semplice, meno travagliata
fra il ricatto e la rivendicazione. Un dilemma dilaniante si
apriva nell'eredità morale che i padri operai volevano
lasciare ai figli che erano potuti andare all'università:
il superamento e al contempo la memoria della loro condizione
di partenza.
L'irresistibile capitolo che narra i saluti all'aeroporto di
Pisa è - oltre che comico e commovente - fortemente simbolico.
Il figlio Alberto accompagnato dai genitori sta appunto per
partire per l'Inghilterra, per questo moderno “grand tour”
in salsa proletaria. Al momento di caricare il bagaglio sul
nastro trasportatore all'imbarco, la normale valigia coi capi
d'abbigliamento misteriosamente pesa il doppio, il triplo del
consentito. È il padre Renato che surrettiziamente ha
farcito il bagaglio di attrezzeria: “un pappagallo da
idraulico e un serra tubi da tre chili”. Le armi indispensabili
per volare fuori dal nido paterno, la consegna del testimone,
l'investitura a nuovo cavaliere di ventura del nomadismo occupazionale
(“i cavalieri erranti son trascinati a nord”). Ovviamente
dovranno restare fuori dall'aereo: « lo vedi, gli attrezzi
non li vole più nessuno... hanno paura di sudà!
Hanno! Gli fa schifo lavorà! Non lo mettevo mica in mano
al Principe Carlo, il martello, eh! Cacciavite e tenaglie erano
per il mi' figliolo, eh! ».
Così, arrivato in Inghilterra, Alberto cercherà
e troverà lavoro quasi esclusivamente nella ristorazione:
mense e trattorie di cucina italiana, risto-pizzerie di nessuna
attendibilità filologica, bettole standardizzate come
le rosticcerie cinesi in Italia. Questa la scenografia: le cucine,
i forni, le nubi di farina, i vasconi di sbobba delle mense.
Un ambiente che ci richiama le scene di osteria e i banchetti
dipinti da Bruegel, da Rabelais, da Zola nel “Ventre di
Parigi” o da Hrabal, e ovviamente da tutte le narrazioni
popolari ossessionate dal cibo “La fame dello Zanni”,
“El ridicul matrimoni”, “Cosa mangiò
la sposa la prima sera”. Nella nostra società opulenta
però il cibo non è più trionfo ma nausea
e stanchezza, si rispecchia nella fatica dei nuovi schiavi delle
cucine, che non hanno più nulla della sulfurea aura dei
cuochi, ma sono operai massa alienati che mescolano salse precotte.
Il cuore del romanzo, i suoi protagonisti - oltre l'io narrante
- sono appunto una ciurma indistinta e piratesca senza alcuna
predisposizione e orgoglio professionale “oltre al vostro
umile narratore, a scodellare pastoni in cucina c'erano un hooligans
e un ricettatore, coadiuvati alla bisogna da un ladro di automobili
che venne arrestato ancora col grembiule ai fianchi. Poi c'era
Gerald, il mio preferito (...) un attore radiofonico quasi settantenne
che idolatrava Shakespeare: dopo un trauma celebrale aveva iniziato
a lavorare in cucina”.
Nulla a che vedere con la generazione precedente della “working-class”
etica, degli operai di Piombino, i fonditori dal sapere ineguagliabile,
capaci di produrre quei pezzi unici da 108 metri del titolo,
orgoglio e fondamento della rete ferroviaria italiana.
L'andamento scoppiettante di “108 metri” è
quello del romanzo picaresco e si snoda attraverso gli aneddoti,
le tensioni, i passaggi lirici, le riflessioni etiche, i decaloghi
comportamentali, le improvvise irruzioni della memoria. Il romanzo
è divertentissimo, a tratti schiettamente comico, ma
avviandosi al finale addensa la tragedia, il senso di morte
delle braccia ormai inutili degli altiforni avviati alla dismissione,
che Alberto vedrà al suo rientro in Italia, col padre
lasciato in piena forma e ritrovato malato e apatico sul divano
di casa.
La magistrale gestione di questo poema magmatico è dovuta
alla penna di Prunetti, che ormai domina con perfetta consapevolezza
una narrazione che deve altrettanto alla letteratura quanto
all'oralità delle ballate, delle improvvisazioni in ottava
rima, delle barzellette contate in osteria o al Circolo ARCI.
Ancora una volta, bestemmiando e piangendo, chiudiamo un libro
che ci sollecita alla memoria senza consolazioni nostalgiche,
che ci narra il tracollo di un intero sistema di speranze sociali,
lasciandoci tramortiti ma non domi. Dietro il riso avvertiamo
il pianto, dietro la rabbia, forse, una speranza di futura umanità.
Leggera, lingera, galera
Il romanzo di Prunetti ci richiama anche a un “work in
progress”, incarnazione di un tema della narrazione orale,
dei romanzi picareschi che torna a ossessionarci da un po' di
tempo: quello del nomadismo occupazionale e marginalità
urbana, le storie della “Lingera”.
“Liggera”, “leggera” e più di
sovente “lingera” è il termine che - con
molte variazioni di sfumature - definisce nel Nord e nel Centro
Italia un mondo dai contorni imprecisi che si situa fra la “mala”
vera e propria, la criminalità più o meno organizzata,
e i lavoratori ben inquadrati. A volte sottoproletari a volte
“furbi”, a volte piccoli truffatori, venditori girovaghi,
giocatori delle tre carte... più sovente un mondo rimasto
in sospensione fra la campagna e la città, fuggito alla
schiavitù della terra ma mai perfettamente inurbatosi.
Musicisti e contastorie sono più che naturalmente affini
a questo mondo, e probabilmente fra loro nacquero moltissime
delle ballate che noi consideriamo il repertorio più
stimolante della canzone popolare.
È un mondo ancora largamente da scoprire, e molto meno
lontano dal nostro vivere precario di quanto non possiamo oggi
pensare, perché se la “lingera” ama auto-narrarsi
come godereccia ed endemicamente dedita alla pigrizia (ricordate
la splendida canzone toscana, resa popolare da Caterina Bueno,
dove per ogni giorno della settimana la “Lingera”
trova un ottima scusa per non lavorare: “al lunedì
la legge non permette che la leggera la vada a lavorar...”
ecc.?), in realtà questo è solo il sogno di gloria
di un'esperienza esistenziale durissima e tallonata dalla miseria.
La voce delle poesie di Villon, dell'”Opera da tre soldi”,
dei libri di Danilo Montaldi, del repertorio dei canti di Miniera.
Il termine stesso “Lingera” non è da attribuirsi
- come molti erroneamente hanno pensato - alla leggerezza del
bagaglio, all'inaffidabilità, bensì sembrerebbe
più credibilmente derivare dal francese “lingerie”:
gli stracci degli straccioni, le pezze dei pezzenti. L'assonanza
più credibile è quella con i “lazzari”
napoletani, la lingera è lacera.
Fondendo le molte canzoni, impressioni e racconti di un'esperienza
presente in tutta la lirica popolare europea, nei racconti russi,
nelle storie di pirati, io e Rocco Marchi stiamo formalizzando
in questo periodo uno spettacolo che si chiamerà: Leggera,
Galera, Miniera, Lingera, Voliera, Bufera: storie di marginalità
ribelle e mai domata.
Il “ritorno” di Otello Profazio
“Ritorno” lo mettiamo rigorosamente fra virgolette, perché indefesso da oltre sessant'anni Otello Profazio - cantore calabrese, ma impareggiabile interprete anche delle ballate siciliane, in particolare nel sodalizio col gigantesco poeta popolare Ignazio Buttitta - non ha mai nemmeno pensato di abbandonare anche un solo centimetro della breccia che orgogliosamente occupa.
Va però detto che da qualche anno, per le amorevoli e rigorosissime cure dell'editore SquiLibri, Profazio sta beneficiando di una ricollocazione culturale tanto necessaria quanto giusta. Intanto il grosso volume biografico/antologico omonimo, poi “Il poeta e il cantastorie” e “L'Italia cantata dal sud”, che proponevano con apparati critici adeguati il meglio del meglio del suo percorso. In seguito “Voltarelli canta Profazio”, lo stupendo tributo dell'ex-leader della band punk-folk “Parto delle nuvole pesanti” - guai a chiamarlo passaggio di testimone, perché nelle presentazioni fatte assieme un agguerrito Otello ci ha dimostrato di ri-strappare piratescamente di mano questo benedetto “testimone” al tanto più giovane interprete compaesano - che è valso rispettivamente la Targa del Club Tenco e l'invito di entrambi nella più prestigiosa rassegna della canzone d'autore.
A coronare e rilanciare questo percorso oggi arriva un nuovo CD di Otello con ben 18 brani inediti, freschi di registrazione e un bel libretto con due interventi appassionati ma non celebrativi dello storico della filosofia Domenico Ferraro e dell'etnomusicologo Nicola Scaldaferri.
Tutto questo materiale a nostra disposizione comporta un ripensamento e una sistematizzazione di Otello Profazio nella triade dei più controversi - ma forse più genuini - cantori popolari del secondo dopoguerra, assieme a Domenico Modugno e Matteo Salvatore. Di certo meno universale del primo e per sua fortuna meno tragico e anche meno lirico del secondo, Otello è un serissimo professionista nato immerso negli umori e nel linguaggio popolare, nella schiettezza del dialetto - in realtà una sorta di koiné calabro-sicula-pugliese, comprensibile quasi ovunque dal suo pubblico numeroso anche fra gli emigranti sparsi per il Mondo - però maturatosi in una consapevolezza che non è distanza critica. Raramente gli sono state perdonate - da una critica trinariciuta e surcigliosa - le innegabili cadute di stile: « io sono il maestro delle cadute di stile » come ha maliziosamente ribattuto proprio a Domenico Ferraro, che nella sua doppia veste di esegeta ed editore lo metteva in guardia dal non incorrere nei medesimi rischi del passato. Fatto sta che se in Italia non si è mai innescato quel controverso ma produttivo rapporto che nella cultura anglofona metteva in relazione Muddy Waters con i Rolling Stones, Woody Guthrie con Bob Dylan o, nel Sud America, Compay Segundo con Silvio Rodriguez, è anche perché un presidio culturale e politico ha forse preservato più intatti certi repertori ma ne ha anche limitato la diffusione a un ambito accademico o militante.
Questo nuovo disco di Profazio è generoso, concepito come una sorta di recital in studio, dove a brani più complessi come “La storia. Ballata consolatoria del popolo rosso” (una bella rievocazione del sodalizio Buttitta-Profazio) si alternano frammenti lirici, aneddoti e facezie o anche “Donna Vincenza”, una singolare risposta calabrese alla “Bocca di Rosa” di Fabrizio De André (nel libretto è anche presente una bella e rara foto d'epoca del nostro Fabrizio assieme a un Otello che si sgola).
Sembrano ritrovarsi qui tanti fili della trama tessuta nella lunghissima carriera da questo cantore popolare, che senza mai imporcela da uno scranno ci ha fatto trovare tra una battuta salace e un motto di spirito a buon mercato tante bellissime melodie e un po' di poesia quotidiana.
Alessio Lega
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