Susanna Roncallo ovvero del silenzio
intervista a Susanna Roncallo
“È il sole amici è il sole che disegna le lontananze che accarezza uomini e cose. È il sole amici è il sole che sfiora l'orizzonte e tenue ci rincuora e dolce ci rincuora. E ci sono sguardi ad ogni angolo ad osservare l'innocenza ed ogni albero è un minareto è il gioco del fato. E porto gli stracci con onore e c'ho sorrisi da regalare per viandanti d'oltremare per viandanti da salutare...”
Ho ripensato a questi versi di Pippo Pollina, tratti dal suo Marrakesh, dopo aver conosciuto e ascoltato Susanna Roncallo. Ho “ascoltato” le lontananze e il sole, ho “sentito” gli orizzonti e gli sguardi a ogni angolo. Ho “ammirato” l'innocenza e gli stracci, il sorriso e la dignità. Ho vissuto il dono dell'incontro e della viandanza.
Susanna e la sua chitarra, Susanna cantora (anche se non
usa la voce suona le storie e le genti e i luoghi che le hanno
generate), Susanna menestrello di strada e non di corte, giullare
del popolo che sbeffeggia il re. Susanna con la sua delicata
e potente espressività, Susanna transumante senza branco,
senza gregge, che vive immersa nel circostante e riverbera e
trasmette con la sua chitarra “cianin cianin”, piano
piano, un mondo dove riappropriarsi del silenzio (che spaventa
tanto da essere inteso come una forma di malattia sociale) e
di conseguenza dell'ascolto e del sentire (che non è
tendere orecchio).
G.F.
Gerry Ferrara - Susanna, parliamo dunque di te,
tenendo in bilico esperienze e pensiero del tuo percorso, partendo
proprio dal movimento (nomade e stanziale), dagli stati d'animo,
magari dalle parole che utilizzi nel tuo personale diario di
“viaggio lento, costante, vivo”.
Susanna Roncallo - Ascoltando le parole che hai scelto
per inaugurare questo dialogo, non posso che proiettarmi immediatamente
in un nuovo viaggio, ignoto. E, poiché il desiderio di
conoscenza è l'unico vero antidoto alla paura, che il
viaggio abbia inizio.
Bastano poche parole per raccontarmi. Movimento è
sicuramente una di queste, condizione necessaria alla vita.
Quella auspicata ha per me il ritmo del passo, quindi sì,
lenta, poiché la vita è densa e a un altro ritmo
non mi riesce di procedere, non senza perdermi. Per questo alleno
la costanza, per concedermi, pur non correndo, l'opportunità
di non restare indietro.
Hai scelto la chitarra e una tecnica particolare,
in gergo finger-picking, per raccontare storie. Hai scelto la
strada affinché le storie tornino ad abitare i luoghi,
ad essere ascoltate. Quale altra motivazione ti ha indotto a
intraprendere il tuo cammino on the road...
La tecnica non l'ho scelta, mi è stata donata da un uomo
di cui un mondo più accogliente sentirebbe parlare da
tempo: Fabio Veneziani. La chitarra posso dire sia stata una
scelta, ma casuale. L'ho conosciuta nelle mani di mio padre
mentre sul divano raccontava a me e ai muri quello che la grande
generazione dei cantautori che hanno vestito la sua giovinezza
ci ha lasciato. La musica e la strada penso siano state invece
scelte mirate, legate tra di loro, inizialmente mera esigenza
di sostentamento accompagnata dall'enorme ambizione di riuscire
“a campare” trovando in me le risorse per farlo.
Ma presto la strada si è rivelata. Dapprima “specchio”
e quindi occasione di crescita continua. La strada può
essere accogliente, talvolta cieca e brutale, perfino magia,
ma tutto dipende da quali ingredienti, quali motivazioni, quali
energie tu sia disposto a mettervi in gioco. Ascoltando la reazione
della strada, cresco. Infine, vivere la strada ti permette di
percepire gli altri, la matematica che muove il mondo, le sue
leggi di attrazione, ti permette di leggere quel filo sottile
che lega le cose, gli eventi, gli incontri e non ti permette
più di credere nel caso.
“La chitarra per Susanna è legno e poi
suono” leggo dalle tue pagine... ecco, prova a raccontare
questa immagine che al sottoscritto ha riportato alla mente
figure nitide della tradizione e della cultura popolare, dai
costruttori e suonatori di launeddas del Sarrabus sardo, a quelli
delle zampogne tra il Matese e il Pollino, fino a quelli della
chitarra battente delle Serre calabresi. Contadini poeti e cantastorie
che coltivavano il sapere “dialogando” con il circostante
e riuscivano a trasformare la materia (canne, legno, pelli,
appunto) in strumenti di trasmissione sonora che creavano relazione,
suggestione, pensiero...
Cito: “Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare
il legno ci vuole l'albero...” Questo esercizio di consapevolezza
di come le cose siano fatte, di cosa siano fatte, quale ciclo
le abbia create, basterebbe banalmente a costruire un esistenza
più giusta e con meno schiavi. Un esercizio di logica,
necessario a conferire, o meno, valore alle cose. Per questo,
prima di ogni altra cosa, la chitarra per me è legno.
Dalla filastrocca apprendo come il legno fu albero e così
mi domando se quell'albero sia contento di essere stato abbattuto
per ritrovarsi tra le mie braccia. Oltre a questo e prima di
essere suono, la chitarra è per l'appunto sapere, cura,
amore della materia oltre la materia. Non ho ancora conosciuto
un liutaio che non porti con se alte qualità umane.
La natura, fonte inesauribile di colori
In qualche modo la strada, nonostante i rumori che
la attraversano, permette di avere un ascolto e uno scambio
vero con l'astante. Poiché chi si ferma ad ascoltare,
ha scelto di farlo, senza filtri, senza barriere e senza tempo.
Scegliendo il tempo, e chi ne è protagonista in quel
momento, come opportunità. Sancito, tra l'altro, dalla
presenza del “cappello” che abbatte tutti i meccanismi
anticulturali e ristabilisce il diritto agli spazi sociali e
artistici che hanno generato da sempre storie e movimenti “colto-popolari”
(concedimi l'associazione) che hanno lasciato segni profondi
non solo nella storia della musica.
È la scelta a determinare un ruolo. In strada non sono
io a dichiararmi musicista ma è chi si ferma ad ascoltarmi
eventualmente a farlo. Scelta libera, e per questo onesta. Non
c'è un biglietto, non c'è un orario, non ci sono
regole. Ciò che avviene in strada non è qualcosa
di programmato e per questo è un'opportunità infinita
di cogliere ciò che sconfina il nostro piccolo mondo
personale. Opportunità che ha il sapore della sorpresa.
E certamente apre il dibattito sulla fruizione degli spazi,
delle piazze, delle strade, come luoghi da vivere e non attraverso
i quali transitare. Un'esigenza che io personalmente sento fortissima
e a modo mio rivendico. Una maniera di intendere i luoghi che
spesso non viene apprezzata dai “pigri di conoscenza”
o dai “troppo stanchi” per concedersi una deviazione...
tonnare di passanti. E infine ostacolata dall'esigenza
di regolamentazione di chi è troppo piccolo per accorgersi
che sicurezza e convivenza sono fatte di persone che si prendono
la responsabilità di quello che vedono, secondo propria
coscienza. E le energie andrebbero indirizzate nel costruire
le persone, non muri.
Come nascono le tue storie e in che modo provi ad
alchemizzarle con stati d'animo e linguaggi sonori in continua
evoluzione? Svelaci i paesaggi e gli elementi umani che, in
una efficace “narrazione per immagini sonore”, custodisci
e trasmetti nel tuo progetto “Cianin Cianin”.
Ogni canzone nasce da una necessità, come ogni cosa.
Queste necessità possono essere molteplici: gioco, racconto,
dialogo, sfogo emotivo. Spesso per muovermi in un terreno privo
di vincoli di conoscenza mi ritrovo ad accordare la chitarra
in modi differenti. E su questi tessuti ignoti, un po' per caso,
un po' per ricerca, nascono le canzoni.
Kalimera è un ringraziamento per un incontro che
proprio la strada mi ha regalato. Incontro buffo con un mimo,
il quale, nonostante il suo ruolo così splendidamente
dipinto nel suo volto e nei sui gesti, ha voluto sussurrarmi
il suo nome, Spyros. E così, per ricambiare il suo speciale
buongiorno, è nata una canzone il cui titolo suona famigliare
alla sua terra.
Il canto dei papaveri è il tentativo giocoso di
raccontare il dialogo tra fiori e api. Quando l'umanità
non lascia scorci di bellezza, ritrovo nella natura una fonte
inesauribile di colori. E così scopro come le api non
vedano il rosso ma come all'interno dei petali del papavero
ci siano dei filamenti ultravioletti che le attirano. Visibili
a loro, invisibili a noi. Canto silenzioso per generare vita.
“Solitudine quindi incontro”, scrivi
tra le righe... se il silenzio impaccia, inquieta, la solitudine
viene solitamente letta come angoscia, asocialità...
per te, credo, voglia dire, semplicemente e irrinunciabilmente,
stare fuori dal branco per cogliersi ogni volta felicemente
impreparati a viversi l'attimo...
Succede talvolta di ascoltare delle parole e di archiviarle
con la presunzione di aver colto un tassello della comprensione
del cosmo. Ero bambina quando mio zio commentò una mia
attitudine: <Chi non sa star bene da solo, non sta bene neanche
in compagnia>. Gli ho creduto e ancora ne sono convinta.
A proposito di solitudini fertili e in “volo”,
parlaci del progetto La solitudine dell'ape
che, grazie a liberi pensatori, teatranti e al viandante Paolo
Enrico Archetti Maestri, è diventato un brano degli Yo
Yo Mundi e uno spettacolo teatrale...
La solitudine dell'ape è stato un grande lavoro
collettivo nel quale ho avuto l'onore di intrecciarmi. Nasce
dalla necessità di raccontare la moria delle api, uno
dei tanti effetti disastrosi che l'uso sistemico di pesticidi
nell'agricoltura “moderna” sta generando. Lo scrittore
A. Hellmann, l'attore A. Pierdicca, e F. Canibus, freschi dall'esperienza
de Il fiume rubato, narrazione civile sull'ACNA di Cengio,
sotto la regia di A. Tancredi e il sostegno di F. Panella e
UNAAPI, hanno messo in scena questo testo ricamato dalle musiche
degli Yo Yo Mundi.
Ma il desiderio era quello di portare questa storia oltre i
teatri, raggiungendo le case degli apicoltori in lotta per contribuire
a creare una rete di consapevolezza su temi che riguardano tutti,
nella speranza di poter ancora costruire un mondo che non sia
avvelenato. Così mi è stato proposto di caricare
la chitarra sulle spalle e, in compagnia di Andrea, portare
questa storia in cambio di ospitalità e di un'offerta
a “cappello” nei più disparati luoghi.
Ho accettato, e, come tutti i viaggi, la sfida è stata
grande, ma l'occasione ancor di più.
Se noi potessimo assaggiare sulla nostra pelle...
Esperienza molto interessante la tua, anzi la vostra,
con il gruppo Vito e le Orchestrine,
che ha dato vita al progetto antropo-sociale Transumanza
tour.
Come nasce e come avete deciso di raccontare e suonare il
viaggio, con quali linguaggi e quali strumenti?
“Trans-umanza” è una parola che tocca da vicino l'essenza di Vito, figlio di pastori siculo-sardi. Con lui e Arianna condivido da anni un progetto musicale dal nome Vito e le Orchestrine che ci ha portato a fare diverse esperienze collaterali alla musica. Transumanza Tour è una di queste. Da un'idea di V. Gnesini siamo partiti per un viaggio all'interno di svariate aziende agricole per raccontare in un documentario la scelta di chi è tornato alla terra e di chi, tramite l'esperienza del wwoofing (World Wide Opportunities On Organic Farms), ha iniziato il suo percorso di avvicinamento a una modalità di vita in contatto con ciò che più c'è di reale, la natura, i suoi cicli, la sua potenza e il suo delicato equilibrio.
Questo documentario è composto dalle voci delle persone che ci hanno accolto. Il tutto è condito dal nostro palesarci impreparato davanti alle telecamere unito al nostro più congeniale ruolo di semplici cantastorie, un po' per caso ma con costante e rinnovata passione e divertimento: una voce, una chitarra e un violino con la voglia di raccontarsi e raccontare.
Da Genova a Cagliari, sulle rotte di Faber, ti abbiamo
ascoltato mentre alle tue spalle scorrevano immagini dal documentario
“migrante” di Stefania Muresu Sulla
stessa barca. Una sorta di partitura estemporanea, di cui
per altro non sapevi nulla, per le tue storie sonore, declinato
da un perenne e ineluttabile, complice dialogo. In fondo, ognuno
di noi, da percorsi, vissuti, disagi e confini (mi riferisco
soprattutto a quelli concettuali) è migrante...
Naturalmente l'attitudine di essere viaggio, valicando la propria comfort-zone alla ricerca di sé, non prevede necessariamente la percorrenza di uno spazio. Tuttavia, questa condizione è una scelta e sarebbe inappropriato associarla a quella di chi, non per scelta, ritrova guardando il mare il sapore della morte.
Forse, se tutti noi avessimo l'opportunità di assaggiare sulla nostra pelle cosa significhi sentirsi stranieri in terra straniera, forse, avremo gli strumenti per immaginarci una società civile.
Abuso ancora delle trame cucite nelle tele del tuo
navigare... dovessi pensare ad un “Racconto, di poche
parole” per A-Rivista, cosa scriveresti...
Per A-Rivista in poche parole parlerò di Silenzi, come nella mia prossima raccolta di note e tempo. E ringrazio, e molto, per questo scambio. Grazie.
Silenzio
non è che un'idea,
idea di assenza,
mentre la realtà vibra
sempre
e non conosce il vuoto.
Così Silenzio è piuttosto ciò che non percepiamo, diverso da luogo a luogo.
Silenzio talvolta è il volo di un insetto,
talvolta il motore di un frigorifero
o ancora l'infrangersi dell'aria sul vagone di un treno.
Ma Silenzio è anche l'energia di chi ascolta,
l'arte di chi attende.
Silenzioso è il viaggio delle emozioni
che attraversano il tempo.
Silenzio è trovarsi soli
e accorgersi di se.
Silenzi dunque,
da vivere e da cui attingere le parole
necessarie
a costruire
il proprio
mondo.
Susanna
www.susannaroncallo.wixsite.com/susannaroncallo
Gerry Ferrara
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