architettura
Freespace
di Franco Bunčuga
Freespace: parola che volendo potremmo
tradurre dall'inglese come spazio libero, spazio gratuito, spazio
esente, spazio franco, spazio disponibile, spazio sciolto. Ma
anche per assonanza volendo: spazio inutilizzato, spazio liberato,
spazio vuoto, spazio vacante, spazio pubblico, spazio disponibile.
E molto altro. Dal nostro inviato alla 16 a Biennale
di Architettura, aperta a Venezia fino al 25 novembre.
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Visitatori sovrastati dal caotico bric-a-brac dell'installazione Lieux Infinis nel padiglione francese |
Si sa, la lingua degli inglesi
è più sintetica e ha meno aggettivi e bizantinismi
di noi, forse per questo nel mondo anglo-sassone a volte si
confondono ambiti diversi o semplicemente si fa difficoltà
a comprendere la complessità dei problemi. Coscienti
di questo handicap, credo, le curatrici per declinare nei significati
più ampi e esaurienti lo spunto iniziale attorno al quale
ruota la loro intuizione iniziale, il concetto di FREESPACE
che informa la Biennale di Architettura veneziana in corso,
chiedono aiuto ad altre lingue, aprendo un mondo. O forse
il vaso di Pandora.
“Per noi l'architettura è la traduzione di necessità
– nel significato più ampio della parola –
in spazio significativo. Nel tentativo di tradurre FREESPACE
in uno dei tanti splendidi linguaggi del mondo, speriamo che
possa dischiudere il dono che l'invenzione architettonica ha
la potenzialità di elargire con ogni progetto.”
Così le curatrici. Per loro lo spazio libero, il FREESPACE,
fondamentalmente è quell'elemento che definisce l'architettura
per il semplice fatto di esserne respinto, area di risulta che
dialoga con la categoria del dono nelle sue connotazioni
di pubblico o privato e solo per accidente coinvolge
episodicamente la categoria che più mi interessa, quella
del diritto nella sua fondamentale connotazione collettiva.
Tra le possibili declinazioni di FREESPACE infatti credo sia
interessante investigare in particolare la sua valenza di spazio
della libertà o meglio delle libertà possibili.
Questa idea di dono, a una prima lettura, presuppone che chi
dà e chi riceve siano in posizione gerarchica e che non
vi sia necessariamente uno scambio che ponga i soggetti del
territorio su un piano orizzontale.
Lo spazio libero si crea, si prende, si conquista non si riceve
in dono. Lo spazio veramente libero deve avere in sé
l'energia attiva di uno spazio liberato.
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La tenda di corde alle Corderie |
Compitini fatti bene
Le curatrici dell'edizione di quest'anno, Yvonne Farrel e Shelley
McNamara sono conosciute anche come le Grafton dal nome
del loro studio Grafton Architects, situato nella omonima
centralissima via di Dublino e in virtù della loro consolidata
pratica di lavoro comune.
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Nel centro di Los Angeles, Star Apartments di Micheal Maltzan Architecture è un progetto realizzato di edilizia sociale: 102 appartamenti per ex senzatetto che possono creare all'interno il loro freespace, una forma di auto-costruzione |
Le Grafton per dare unità all'esposizione di quest'anno
il 7 giugno dell'anno scorso hanno divulgato FREESPACE, un manifesto
programmatico che indicava le finalità dell'esposizione
e contemporaneamente voleva fornire alcune linee guida ai partecipanti:
“Ci è servito come misura e guida per trovare
una coesione nella complessità di una mostra di enormi
dimensioni”. E la coesione e l'aderenza al tema iniziale
in questa edizione sicuramente non sono mancate, così
come l'attenta analisi ai singoli progetti selezionati dalle
curatrici nella loro sezione tematica.
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Uno degli schemi delle città appenniniche di Arcipelago Italia |
Una delle cose che mi ha colpito iniziando il percorso dalle
Corderie è che a corredo di ogni progetto è stata
approntata una efficace didascalia divisa in due parti e bilingue
(italiano/inglese): nella prima parte una descrizione a cura
dei singoli progettisti, nella seconda un commento delle curatrici,
uno strumento veramente utile per orientarsi nei progetti e
comprendere il percorso elaborato dalle curatrici. Una bella
novità. Siamo stati abituati a edizioni, anche nella
scorsa a cura di Alejandro Aravena, in cui la mano del curatore
era di difficile percezione: niente grandi documenti programmatici
né dettagli esplicativi, solo grandi idee guida e forte
presenza mediatica della star di turno.
Questa impostazione con una spiccata connotazione didattica
a qualcuno è piaciuta (finalmente un ritorno alla professione
e un'attenzione ai singoli progetti) ma a gran parte dei critici
è sembrato un limite che finisce con il livellare i progetti
e incasellarli in una mostra eccessivamente pedagogica e descrittiva,
un po' noiosa, nella quale le due Grafton finiscono per fare
bene i loro compitini come due brave maestrine.
In alcuni casi le scelte espositive appaiono più che
ovvie: “Secondo noi l'edificio stesso può essere
considerato partecipante attivo di questa mostra”,
recita il cartello all'ingresso delle Corderie, l'antico edificio
in cui si producevano le funi per le navi della flotta veneziana,
dove inizia il percorso espositivo curatoriale.
Geniale! Perché le altre volte no?
Comunque per non confonderci e per illustrare il concetto in
modo efficace le Grafton hanno posto all'ingresso una bella
tendina di ruvide gomene attraverso le quali si deve passare
per iniziare la visita. E nel buio dell'atrio una proiezione
di immagini storiche dell'edificio in questione.
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Il recupero in maniera moderna ed eco-sostenibile delle tipologie circolari di case collettive nella campagna cinese |
Le curatrici hanno allestito una mostra non invadente, come
mi aspettavo, minuta, attenta all'architettura costruita, al
locale, al terzo mondo, che si articola in un interessante catalogo
di progetti spesso professionalmente illustrati da plastici
ed elaborati grafici.
La focalizzazione sugli spazi vuoti è in realtà
un buon escamotage per introdurre il discorso sull'uso sociale
dell'architettura ma poche volte questo obbiettivo viene raggiunto.
Spesso i progetti si riducono all'esposizione della loro parte
formale. Tranne eccezioni, naturalmente. E come spesso succede
alla Biennale, proprio a causa della sua formula particolare,
gli spunti più interessanti li troviamo nei vari Padiglioni
Nazionali piuttosto che nel nucleo compatto affidato ai vari
curatori.
L'esposizione di quest'anno non ha un impatto così forte
come quella precedente affidata ad Alejandro Aravena (che peraltro
è presente alle Corderie nel settore delle Grafton con
un bellissimo e minimalista lavoro sugli spazi liberi) che mediaticamente
era tutt'altro personaggio. Quando mesi fa ho assistito alla
presentazione stampa virtuale delle curatrici (realizzata via
skype nei saloni veneziani della Biennale a causa di un'emergenza
meteo in Irlanda che aveva bloccato tutto il traffico terrestre
e aereo locale e internazionale) ho capito che questa edizione
sarebbe stata ben diversa da quella precedente allestita dal
bel architetto col ciuffo.
L'edizione del 2016, che io ritengo una delle migliori degli
ultimi anni, è stata molto criticata in pubblico e in
privato da gran parte degli architetti e dai critici che conosco.
“Ma hai visto che vanesio quello lì con quel
ciuffo? Chi si crede di essere?”,“Fa tanto l'architetto
alternativo, dice di lavorare per una committenza sociale e
per i poveri e poi per gli altri progetti ha a che fare con
i fondi speculativi internazionali più rapaci!”,
“Sì, libertario quello! Realizza edifici per le
favelas solo per farsi nome e far carriera”.
Perché gli altri architetti internazionali che hanno
curato le edizioni precedenti erano forse pericolosi rivoluzionari
o santi anacoreti?
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L'Argentina con “Vertigine Orizzontale”, installazione degli architetti Javier Mendiondo, Pablo Anzilutti, Francisco Garrido e Federico Cairoli riproduce artificialmente lo spazio infinito delle sue pampas |
Numerose interessanti varianti di spazio libero
Le tipologie di edifici parzialmente auto-costruiti dagli abitanti
progettati del suo gruppo Elemental per le favelas sudamericane
rimangono comunque un modello per chi lavora alla riqualificazione
del tessuto urbano degradato. Tipologie che inoltre Aravena
ha gratuitamente messo on line unitamente a tutti i disegni
esecutivi di progetto. Tutto Open Source, nelle intenzioni un
vero creatore di Free Spaces.
Le Grafton certo non hanno l'aspetto da archistar né
fortunatamente inseguono quel modello ormai divenuto logoro
e a volte quasi ridicolo. I tempi sono cambiati. In meglio sicuramente,
i temi sociali, l'urbanistica, l'autocostruzione e la partecipazione,
nostri temi tradizionali stanno tornando attuali negli ultimi
anni. Certo il loro aspetto un po' scialbo e le loro mise
da vecchie zie molto anglosassoni non le espone a critiche estetiche
o ad invidie come è stato per il macho Aravena.
Progettiste attente al concreto, al dettaglio e ai materiali,
le curatrici si dimostrano attente alla piccola dimensione così
come alle relazioni organiche con il tessuto urbanistico, alla
comunità accogliente e orizzontale ed esprimono al meglio
la loro lettura femminile di una disciplina troppo spesso
lasciata all'esigenza maschile di segni forti sul territorio,
monumenti, fortezze o altissimi fallici grattacieli che siano.
Non a caso uno dei padiglioni più interessanti a mio
parere è il padiglione irlandese che fornisce uno splendido
esempio di progettazione comunitaria, fornendo un esempio dell'humus
disciplinare da cui parte la loro esperienza. Yvonne Farrel
e Shelley McNamara, entrambe docenti universitarie si sono spesso
dedicate oltre alla pratica dell'insegnamento alla progettazione
di strutture scolastiche, universitarie e edifici pubblici e
questa impronta nell'allestimento si percepisce. In Italia sono
conosciute per la progettazione della nuova sede della Bocconi
a Milano, per aver rappresentato l'Irlanda nella edizione del
2002 della Biennale e per aver meritato nell'edizione del 2012
il Leone d'Argento per il lavoro Architettura come nuova
geografia (tema molto sensibile anche nell'urbanistica libertaria).
Molti padiglioni nazionali ed ospiti di questa edizione hanno
ben volentieri accettato di dialogare con il manifesto FREESPACE
e propongono numerose interessanti varianti del concetto di
spazio libero: oltra al padiglione citato mi hanno colpito il
padiglione cinese che con Building the future countryside
presenta un progetto di rigenerazione urbana dei piccoli centri
agricoli in chiave ecologica e con il recupero di forme e tipologie
tradizionali, la riflessione tecnologica sul rapporto tra uomo
e natura del Padiglione Nordico e la riflessione di taglio politico/sociologico
del progetto Lieux Infinis, construire des batiments ou des
lieux? (Luoghi infiniti, costruire edifici o luoghi?) del
padiglione francese. Veramente coinvolgente il progetto Work,
Body, Leisure del padiglione olandese nel quale, tra le
altre installazioni, si può assistere alle bed-interviews
di Beatriz Colomina e dei suoi ospiti, tutti rigorosamente in
bianchi pigiama. Per l'occasione la performer instaura dialoghi
provocatori col pubblico sdraiata su un letto in una stanza
che riproduce fedelmente la famosa Room 902 dell'Amsterdam Hilton
Hotel dove nel '69 John Lennon e Yoko Ono fecero i loro storici
bed-in per la pace a favore dei giornalisti di tutto il mondo.
Coraggioso l'esperimento UNCEDED del Canada che per la
prima volta presenta le opere di 18 architetti e designer indigeni
della Turtle Island che elaborano gli effetti del colonialismo
europeo e la forza di resilienza delle culture autoctone.
Ottima anche la scelta del Padiglione Italia curata da Mario
Cucinella di investigare i piccoli paesi della dorsale appenninica
in vista di un recupero organico e funzionale con il progetto
Arcipelago Italia.
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La riproduzione della Room 902 dell'Hotel Hilton di Amsterdam nel padiglione olandese |
Il vero FREESPACE
Credo comunque che il padiglione più coerente con il
manifesto FREESPACE, e aggiungo conseguenza della scarsa flessibilità
della lingua inglese di cui sopra, sia alla fine quello Britannico.
Il progetto Island infatti è contemporaneamente
scioccante e perfettamente coerente con lo humor inglese.
Si divide in due parti, Il padiglione abbandonato lo
spazio interno assolutamente e coerentemente free, cioè
completamente vuoto con le pareti bianche – non perfettamente,
si vedono chiaramente i segni delle occupazioni precedenti –,
nel quale non c'è alcuna mostra, solo un luogo libero
nel quale organizzare incontri o dibattiti in modo anche informale.
E La piattaforma una struttura esterna in tubi innocenti,
che ricorda le passerelle veneziane per l'acqua alta che conduce
a una specie di altana veneziana montata sul tetto del padiglione
da cui si gode una vista stupenda sulla laguna. E come tradizione
ogni giorno alle sedici, tempo permettendo, sulla piattaforma
sarà servito il tè.
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Un'altra stanza dell'installazione del padiglione olandese |
FREESPACE di riflessione
Alla fine del percorso espositivo mi sembra manchi qualcosa e una domanda sorge spontanea: può esserci FREESPACE in una società che libera – FREE – non lo è affatto? In cui lo SPACE è frutto di speculazione e il metro cubo colonizza il metro quadro senza lasciare centimetri liberi se non per il consumo o per il controllo? Lo spazio libero è gentile concessione del mecenate di turno, del caso, del disinteresse della speculazione o deve essere uno spazio conquistato, difeso e modellato dalla collettività? E ancora, una comunità, organizzata nelle sue istituzioni, è in grado oggi di progettare nel tempo la forma e l'uso del territorio? In poche parole esiste ancora la disciplina dell'urbanistica dopo la celebrazione dell'ubriacatura speculativa del Post Moderno che ha decretato la fine dell'urbanistica e il solo sopravvivere dei singoli oggetti architettonici? In tutto FREESPACE non si tocca il punto: chi deve essere il soggetto del cambiamento del territorio abitato? C'è distinzione tra urbanistica e architettura? Sul tema si glissa, nella parte curatoriale la risposta frammentaria è affidata a tanti piccoli progettini che non dialogano col contesto.
Ogni caratteristica del nostro ambiente celebra la morte dell'urbanistica: una disciplina liquidata in una società liquida. Una disciplina lenta (ragiona sui decenni) in un panorama di continui cambiamenti magmatici delle forme della società e dei suoi esoscheletri cementizi.
Forse lo spazio che caratterizza in maniera più adeguata l'attuale modello urbano è quello che Rem Kohoolas definisce Junk Space, uno spazio spazzatura in continuo divenire affidato alla speculazione e non gestibile dalle autorità territoriali perché non delimitato da confini riconoscibili. Uno spazio in cui il costruito si diffonde senza piano o progettazione urbanistica possibile, un grande cancro a scala planetaria. Anch'esso una possibile – anche se peggiorativa - traduzione di FREESPACE.
Franco Bunčuga
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