Rivista Anarchica Online


femminismo

Il mio corpo non è mio

di Carlotta Pedrazzini

Ci sono cose su di loro e sui loro corpi che le donne non possono dire pubblicamente. E con il silenzio la dominazione patriarcale si è sempre rafforzata.

Ritenere il pensiero per sua essenza libero è un errore, e questo perché, fino a quando la parola, che è uno strumento indispensabile per il pensiero, non sarà libera, gli sforzi messi in campo dall'intelletto per pensare verranno frustrati, proprio come accadrebbe a un calzolaio che provasse a fare un paio di scarpe senza i suoi strumenti.
Voltairine de Cleyre

Il corpo delle donne è un luogo pubblico, e così è anche il mio. Per quanto possa sembrare assurdo, il mio corpo non mi appartiene.
Non è solo mio, appartiene allo stato, a dio, alla famiglia. Appartiene alla comunità, alla nazione, a entità collettive e superiori a me. Per questo non posso disporne come credo: ci sono delle leggi, delle norme di condotta morale e religiosa, delle regole che sanciscono cosa posso farne e in che modo, cosa mi è vietato.
Il mio corpo è, all'occorrenza, normato, attraversato, toccato, additato, calpestato, giudicato, valutato, violato, ignorato, strumentalizzato.
Il mio corpo è anche un campo di battaglia. Su di esso si combattono molte guerre: repressive e securitarie, economiche, per la grandezza della nazione, contro le migrazioni, per la continuazione della razza, di religione e di dominazione culturale, di colonizzazione e di conquista.
Il mio corpo è solo un tassello in un mosaico di antiche e consolidate gerarchie patriarcali che intendono auto-conservarsi. Il mio corpo sta alla base di una piramide di potere e la sorregge.
La mia pelle, i miei organi e le loro funzioni, i bisogni del mio corpo non sono solo miei, hanno un valore collettivo, sociale, culturale, politico. E se non fossi una cattiva donna, una traditrice della nazione, un'egoista, lo capirei. Capirei che essere madre è un'esperienza che riguarda la comunità, la razza, la patria e non soltanto me. Capirei che il matrimonio tradizionale è il giusto nucleo di una società normata in cui vale la pena vivere, dove i legami famigliari di sangue sono l'unico collante. Capirei dunque il motivo per cui il mio corpo non può essere soltanto mio.

Quando le donne possono parlare?

È buffo. Il mio corpo è un luogo pubblico, ma ci sono cose che lo riguardano di cui non posso parlare pubblicamente. Non facilmente, almeno. E non senza conseguenze.
Ci sono argomenti che riguardano il mio corpo che posso affrontare solo in una determinata maniera, una maniera giusta.

Il sesso, ad esempio. Il mio corpo è costantemente sessualizzato, ma non posso parlare liberamente di sesso, né posso informarmi apertamente sull'argomento, né esistono programmi di educazione sessuale che siano pubblici e gratuiti.
Mi è consentito parlare di sesso solo in relazione alla riproduzione. Non mi è concesso, invece, parlare pubblicamente di piacere sessuale, di preferenze, di sperimentazione, di omosessualità, di transizione. Perché del sesso io, una donna, sarò sempre oggetto e mai soggetto. Perché è vero, i corpi delle donne sono iper-sessualizzati, ma il sesso resta pur sempre un peccato. E mostrare troppa curiosità nei confronti della questione è una cosa da puttane.

Non mi è nemmeno completamente consentito parlare di riproduzione. Posso affrontare l'argomento, certo, ma solo se sono coinvolta in una relazione eterosessuale, meglio se inquadrata nell'istituzione matrimoniale. Se invece intendo discutere di monogenitorialità o di omogenitorialità, allora è bene che io taccia. Perché la società non vuole riconoscere quelle possibilità visto che la religione non le ha previste.
Inoltre io, una donna, posso parlare di riproduzione solo se intendo portare a termine le mie gravidanze, perché è questo che ci si aspetta da me. Altrimenti sono un'assassina, una sicaria che risolve i problemi uccidendo, vivrò per sempre sommersa dal senso di colpa. E questa vergogna farei meglio a non confessarla a nessuno.

Parlare di maternità, invece, mi è concesso. Ma unicamente se la riconosco come auspicato orizzonte della mia vita, la sola caratteristica che mi rende ciò che sono e che dà senso alla mia esistenza. Se così non è, se non voglio avere figli/e, significa che ho tradito quell'istinto ancestrale che è dentro di me, con il quale sono nata.
Sì, posso parlare di maternità, ma esclusivamente in maniera positiva. Non posso dirmi scontenta, nutrire dei dubbi, non posso dire che soffro o che faccio fatica. Non mi è concesso dire che non era quello che mi aspettavo, che se tornassi indietro non lo rifarei.
Non posso esternare questi sentimenti perché non otterrei un appoggio, perché altre donne come me non hanno trovato le parole e il coraggio per esprimerli, e se parlassi sarei sola. Sarei una cattiva madre che non ama i propri figli/e. Snaturata, contro natura.

L'importanza delle parole

È importante capire quello che ci è permesso o vietato dire, ciò a cui ci è concesso pensare, gli argomenti che possiamo affrontare pubblicamente. Ci dà la possibilità di comprendere dove siamo arrivate. Quanta strada abbiamo davanti?
Quella patriarcale è la dominazione più longeva della storia, e nei millenni si è alimentata e rafforzata con il silenzio delle donne. È così che ha continuato a crescere. Si è consolidata, sedimentata ed è arrivata fino a noi.
Nell'arco della storia, in molte hanno accettato passivamente, senza parlare, la loro situazione di subalternità, perpetrandola così per secoli. Fortunatamente ci sono stati anche periodi di rottura, in cui le donne hanno preso parola e si sono confrontate tra loro. Hanno condiviso le proprie storie e dato un nome a quello che capitava loro, a quello che volevano o non volevano più. Poi hanno agito.
Ancora oggi la dinamica del silenzio esiste ed è attiva. Molte donne non dicono, non raccontano, stanno zitte, perché ci sono cose di cui è meglio non parlare. Perché ci sono uomini che non vogliono che parlino.
Ma affinché ci siano delle azioni, devono prima esserci delle parole. Se non abbiamo le parole per descrivere determinati fatti, concetti, pensieri, idee, bisogni, non solo non ci è possibile esprimerli, ma neppure comprenderli veramente.
Per questo è fondamentale che le donne inizino a parlare, a mettere parole là dove ci sono i silenzi. Che comincino a dire la loro ad alta voce, anche quando non è permesso o socialmente accettato.
Se il patriarcato si nutre di silenzio, allora parliamo. Iniziando dalle nostre relazioni, dalla vita quotidiana. Parliamo di più e di tutto. Parliamo più forte.

Carlotta Pedrazzini