giustizia
L'ossessione per la colpa
di Elisa Mauri
La maggior parte dei discorsi sul carcere e sulle persone detenute sono funzionali alla propaganda securitaria. Dipingono celle signorili, tv a gogò, comoda nullafacenza. La realtà è un filino diversa. Il racconto di un'operatrice.
Nelle prime pagine di Sorvegliare
e punire Michel Foucault descrive, con dovizia di particolari,
lo smembramento di un condannato, tale Damiens, nella seconda
metà del Settecento. All'epoca la punizione era uno spettacolo
a cui prendeva parte tutta la cittadinanza: “quel rito
che concludeva il crimine viene sospettato di mantenere con
questo losche parentele: di eguagliarlo, se non sorpassarlo,
nell'essenza selvaggia, di abituare gli spettatori a una ferocia
da cui si voleva invece distoglierli, di mostrar loro la frequenza
dei crimini, di far rassomigliare il boia a un criminale e i
giudici ad assassini, di invertire all'ultimo momento i ruoli,
di fare del suppliziato un oggetto di pietà o di ammirazione.
[...] L'esecuzione pubblica viene percepita come un torbido
focolaio, dove la violenza si riaccende. La punizione tenderà
dunque a divenire la parte più nascosta del processo
penale.” Fu così che il XIX secolo divenne un'epoca
di innumerevoli progetti di riforme nell'ambito della giustizia
penale: “il castigo è passato da un'arte di sensazioni
insopportabili a una economia di diritti sospesi”: spariscono
i supplizi e subentra il carattere essenzialmente correttivo
della pena.
Come funziona oggi il nostro sistema di giustizia penale?
Nell'immaginario collettivo la giustizia è rappresentata
da una dea bendata che, con una mano, impugna una spada e, con
l'altra, regge una bilancia. Questo a garanzia che la legge
è uguale per tutti e che la pena sarà commisurata
alla gravità del reato commesso: una dettagliata fotografia
del nostro sistema giuridico, basato su un'idea di giustizia
retributiva. Il perno su cui si regge questa bilancia è
l'idea del corrispettivo: ad una specifica gravità di
reato corrisponde un quantum di sofferenza. Lo so, detto
così sembra che questa idea di giustizia evochi un po'
la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Ma
no, non siamo mica fermi lì, esiste infatti una sottile
sfumatura che differenzia il taglione dalla giustizia retributiva:
“non è più l'eguale con l'eguale, ma l'eguale
attraverso il valore corrispettivo che si attribuisca, molto
discrezionalmente, a una determinata risposta” –
spiega Luciano Eusebi nel suo saggio Fare giustizia: ritorsione
del male o fedeltà al bene? Non è che se uno
spaccia droga, gli tagliamo le mani con cui ha commesso il reato
– perché questo sarebbe taglione e perché,
come ci dice Foucault, i supplizi li abbiamo superati, ci siamo
raffinati. Infatti, semplicemente attribuiamo un valore a quel
reato e lo quantifichiamo, sostanzialmente, in tempo che viene
sottratto alla vita del reo e scontato in carcere.
La storia di Alice S.
Lo schema è piuttosto lineare, ma la realtà appare
sempre più complessa: cosa fare quando quel reo è
una donna, Alice S., ed è madre di due figli: Divine,
di diciotto mesi, e Faith, di sei?
È lecito separare una madre dai suoi figli? E far crescere
i suoi figli all'interno di un istituto penitenziario?
Non lo so.
Quello che è certo è che Alice, Divine e Faith
da qualche mese vivevano all'interno della casa circondariale
di Roma Rebibbia grazie a quell'equazione che vede il reato
e non la persona che lo ha commesso, che risponde al male con
altro male, che isola il reo dietro le sbarre con la giustificazione
morale della tutela della sicurezza sociale.
Attorno a questa tragedia è stato scritto di tutto; i
giornali si dividono: chi suggerisce – più o meno
velatamente – che sia colpa della madre, detenuta e quindi
scellerata, sicuramente con qualche disturbo mentale –
si specifica che la donna ora è piantonata nel reparto
psichiatrico dell'ospedale Pertini, forse sottoposta a Trattamento
Sanitario Obbligatorio – perché nessuna persona
normale potrebbe commettere un atto del genere, e chi ritiene
che la colpa sia dell'Istituzione, nelle persone della direttrice
del carcere, della sua vice e del vicecomandante del reparto
di polizia penitenziaria – tutti sospesi. Le ultime notizie
ci informano che la versione più probabile sia quella
della tara individuale della signora, la quale sarebbe stata
prontamente segnalata per ricevere accertamenti psichiatrici
poiché erano stati notati “alcuni comportamenti
sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei
piccoli”. Quindi ora i riflettori si spostano sul personale
medico della CC di Rebibbia, il quale potrebbe essere sostituito:
una tragedia, che è anche un reato, si è consumata
e un colpevole deve essere consegnato all'opinione pubblica:
mi sembra di tornare a Foucault.
Ultimamente le carceri sono diventate popolari in fatto di cronaca
nera: diversi suicidi, casi di autolesionismo e, purtroppo,
infanticidi. Davanti a codeste tragedie l'opinione pubblica
non può che indignarsi, ovviamente ed è necessario
indignarsi ulteriormente quando si legge di vite innocenti spezzate
all'interno di un carcere.
Nessuno vuole comprendere
Il vero problema è che nessuno tenta di capire perché
un detenuto si toglie la vita o decide di toglierla ai suoi
figli costretti anch'essi dietro le sbarre. Ciò che desidera
l'opinione pubblica è sapere di chi sia la colpa: chi
è il colpevole? Chi va punito? Il meccanismo è
sempre lo stesso: la donna aveva commesso un reato quindi doveva
essere punita. Adesso sono morti due bambini e qualcuno deve
essere punito.
La sete di giustizia retributiva non si placa mai.
Il fenomeno viene parcellizzato, smembrato: o è colpa
delle tare mentali dell'individuo o è colpa dell'ambiente
totalizzante e disumano.
Ma chi sia questa donna, Alice, quale sia la sua storia dentro
e fuori dal carcere non lo sappiamo.
Sì, qualcosa su quali siano gli effetti dell'istituzionalizzazione sulla personalità di un individuo lo sappiamo, ma non sappiamo come sia quel carcere nello specifico: perché non è vero che un carcere vale l'altro. Basta parlare con un detenuto per sapere che esistono carceri più umani, più attenti e istituti duri e disumani. È la realtà.
Se la concentrazione di fatti di cronaca nera che vedono protagonisti
i detenuti venisse letta in maniera intelligente, l'unica conclusione
possibile sarebbe che è necessaria una riforma dell'ordinamento
penitenziario e non solo. Ma come disse Luciano Eusebi: le
riforme si fanno se c'è una sensibilità condivisa
nella nostra società. E allora qual è la corresponsabilità
sociale relativa a questi decessi intramurari?
Mentre scrivo e penso a come si possa creare concretamente questa
sensibilità condivisa, mi arriva un messaggio e io inizio
a capire perché questa non esista e perché invece
persista quell'istinto sadico che sostanzia la sete di giustizia
retributiva.
Mia zia, leghista di tradizione, mi inoltra una nota vocale
su whatsapp. Io mi aspettavo fosse uno di quei messaggi stupidi,
dove qualcuno registra una barzelletta o racconta qualcosa di
sciocco ma divertente. Non amo questo tipo di messaggi, ma decido
ugualmente di ascoltare la nota vocale per essere sicura che
fosse una di queste idiozie che posso evitare di sentire. Invece
no, il messaggio non contiene una barzelletta né un racconto
sciocco ma divertente: è l'estratto di un proclama di
Salvini.
Non poteva arrivarmi messaggio peggiore, ma proprio mentre lo
penso, la registrazione prosegue e mi rendo conto che non esiste,
effettivamente, un limite al peggio: è un estratto di
un proclama di Salvini sul carcere.
La nota vocale inizia così: “ieri sono andato al
carcere di Monza e ne sono anche uscito. Però, quasi
tutti i politici vanno in carcere a verificare che i carcerati
stiano bene. Io sono andato in carcere a verificare che i lavoratori
della polizia penitenziaria stiano bene perché è
quello che mi interessa un po' di più.”
La sete di vendetta
A me sarebbe bastato questo estratto per prendere le distanze
da tutto: da questo discorso, senza senso, da una persona che
evidentemente parla solo per far leva su quella che Aldo Bonomi
chiama la “società del rancore”. Perché
bastano queste poche frasi per capire che: 1. l'interesse degli
altri politici verso i detenuti è infondato: stanno guardando
dalla parte sbagliata; 2. menomale che c'è lui
che ha ben chiaro dove guardare; 3. nel carcere esiste chi ha
più diritto di ricevere attenzione: gli agenti, quelli
che controllano, quelli che mantengono l'ordine, i giusti, gli
uomini retti; 4. emerge già in maniera subdola l'idea
che se hai commesso un reato ti meriti di soffrire, meriti di
espiare la tua colpa e quindi chissenefrega di come stai in
carcere. Quasi come se dovessi esser grato di essere ancora
vivo, nonostante la colpa di cui ti sei macchiato.
Eccolo, si mostra finalmente il germe della sete di vendetta,
coperto dal giustificazionismo morale dell'idea di giustizia.
La società del rancore ha eletto il suo degno
rappresentante, si è data un volto.
La registrazione prosegue e arriva un altro punto forte di questo
proclama alla folla, che esagitata applaude: gli agenti lamenterebbero
– ma è più probabile che Salvini metta in
bocca a loro concetti per attrarre consensi – che su un
piano, con le celle aperte, con 70 delinquenti “che girano
dalla mattina alla sera” – di cui la metà
immigrati – ci sia solo un agente a controllarli.
A questo punto sento il dovere di fare un po' di chiarezza:
è vero, in alcune sezioni le celle sono aperte –
questo è un privilegio che va guadagnato e anche mantenuto
all'interno dell'istituzione totale – ma i blindi in fondo
ai corridoi delle sezioni sono chiusi. Ergo, i detenuti sono
liberi “di girare dalla mattina alla sera” lungo
un fottuto corridoio largo pochi metri. Inoltre, sapete perché
è sufficiente un solo agente per sezione? Perché
ogni spostamento è controllato e vincolato all'interno
del carcere: per uscire dalla sezione, da quel corridoio in
cui sei libero di girare, devi pregare che qualcuno ti apra,
che ti consenta di poterti spostare.
Gli sguardi dei detenuti
Io ho in mente gli sguardi dei detenuti, appoggiati alle sbarre dei blindi, che aspettano di uscire. E vi garantisco che non ci si abitua mai a quegli sguardi... no, non ci si abitua a vedere quelle braccia che pendono dalle sbarre, quei volti incastrati nelle fessure che ti osservano mentre ti muovi, libera di camminare, con uno sguardo vacuo e rassegnato. Ti resta addosso una sensazione di disperazione che è impossibile scrollare via. C'è anche chi ti guarda rabbioso, come una tigre in gabbia. E io quella rabbia non riesco a giudicarla, riesco però a comprenderla perché la proverei anch'io in quella situazione.
Ma Salvini, che non li ha mai incontrati questi sguardi, continua
imperterrito e ritiene che la cosa ancora più sconvolgente
sia che l'agente è disarmato. Quindi, ricapitolando,
i giusti non sono solo in minoranza numerica ma pure senza armi,
senza possibilità di difendersi – e/o di farsi
valere, ovviamente.
A me viene naturale pensare a quanto sia facile, a volte davvero
troppo facile, abusare del proprio potere all'interno di un
contesto così fortemente deprivato e controllante come
è quello del carcere.
Facciamo un esempio molto pratico, e mi rendo conto anche molto sottile, ma non sui detenuti perché non vorrei fornire qualche alibi ai rancorosi: anche noi operatori quando dobbiamo spostarci all'interno del carcere dobbiamo in un certo senso “chiedere il permesso” perché i blindi mica si aprono da soli. A volte ci sono agenti attenti e solleciti, che non ti fanno perdere tempo e che non fanno pesare la loro funzione di controllo – alcuni sono anche molto gentili, ti offrono sempre un sorriso e qualche scambio di battute per alleggerire la situazione. Altre volte, qualcuno si sta fumando una sigaretta, sta parlando con il collega e non ha voglia di interrompere le sue attività per fare un click sul mouse per aprirti il blindo. Quindi tu sei lì, dietro le sbarre e aspetti. Chissà cosa vede nel mio sguardo chi mi osserva dalle telecamere. Forse un po' della rabbia di cui parlavo prima.
Certo, potremmo anche fare riferimento a casi di abuso di potere
che hanno a che fare con la violenza. Alcuni sono anche arrivati
alla cronaca, ma molti – lo sappiamo – vengono taciuti
perché è meglio se stai zitto visto che in quel
carcere tu ci vuoi sopravvivere.
Oppure potremmo parlare dell'arbitrarietà con cui, a volte, viene utilizzato lo strumento dell'isolamento: dove inizia la funzione protettiva di questo strumento e dove comincia quella punitiva? E il trasferimento? Magari in un carcere più duro, lontano dalla tua famiglia che quindi non potrà più venirti a trovare a colloquio perché non ha i mezzi per raggiungerti o non ne ha la forza fisica perché magari i tuoi genitori sono anziani e non riescono ad affrontare un viaggio di diverse ore.
Chi frequenta il carcere sa che per poterci stare dentro è
necessario mantenere una serie di infiniti e piccoli equilibri.
L'istituzione totale porta dentro di sé una grande ombra
– ce lo dice la letteratura – ma viverla quell'ombra
è tutt'altra cosa. E i detenuti lo sanno molto bene.
“Ma nessuno si è mai arricchito”
Salvini però non vuole esagerare, non vuole essere del
tutto anticostituzionale e allora dice che nella società
che si immagina lui – aiuto! – certo il carcere
ha una funzione rieducativa – nel senso che li ammazzeresti
di botte i detenuti? – però non esiste che un detenuto
svolga un lavoro intramurario e si porti a casa €1000 quando
un agente di polizia penitenziaria, l'uomo retto e giusto, ne
prende €1200.
Anche qui, vorrei fare un appunto: il lavoro dentro il carcere
è un privilegio, come lo definisce Goffman, e visti i
numeri dei detenuti in carcere, in quanti riusciranno ad accedervi?
Inoltre, nella mia piccola esperienza, ho più spesso
incontrato persone povere, molto povere in carcere. Sicuramente
non ho mai trovato nessuno che si sia arricchito lavorando al
suo interno, ma per esserne maggiormente certa mi sono confrontata
con un caro amico, che il carcere lo conosce anche meglio di
me. Quando gli ho riferito le parole di Salvini si è
incazzato e lui solitamente è uno che non si scompone.
Mi racconta che ci sono diverse mansioni che si possono svolgere
all'interno del carcere e che mediamente un detenuto può
guadagnare all'incirca €300/400. Poi ci sono lavori in
carico a società o cooperative esterne al carcere e con
questi si può arrivare a guadagnare un po' di più,
quindi €700/800 al mese.
Comunque, a Salvini non interessa la correttezza dell'informazione
e prosegue dicendo che il detenuto deve restituire una parte
del proprio stipendio allo stato italiano – viva la patria
sempre! – che spende un sacco di soldi per mantenerlo.
“Il lavoro è remunerato. Dalla remunerazione è prelevata una quota per il rimborso delle spese di mantenimento” – così si legge nell'art. 213 c.p.
Nell'Ordinamento penitenziario commentato. Vol. 2 si
legge inoltre che sarebbe risultato “inammissibile che
il condannato vivesse a spese dello Stato, ossia a spese della
massa dei cittadini onesti che lavora e fornisce i mezzi necessari
a far fronte a tutte le necessità dell'attività
statale.” Questa impostazione sfocia nell'art. 145 c.p.
che “sancisce la corresponsione al detenuto di una remunerazione
per il lavoro prestato, e nel contempo pone a carico del condannato
le spese processuali e quelle di mantenimento, individuando
proprio nella remunerazione la fonte e il mezzo con cui fa fronte
alle diverse obbligazioni.” Inoltre, l'art. 188 c.p. dispone
l'obbligo per il condannato di rimborsare le spese per il suo
mantenimento negli “stabilimenti di pena”.
Da questi articoli possiamo trarre un paio di deduzioni: primo,
i detenuti contribuiscono contabilmente al loro mantenimento
intramurario dai primi del '900 come stabilito dalla legge;
secondo, Salvini parla senza conoscere, senza informarsi perché
ciò che gli interessa è strumentalizzare, distorcere
certe realtà per far leva sulla pancia della massa, per
indignarla e renderla ancor più rancorosa: armatevi di
forconi e date la caccia al prossimo nemico.
Siccome a Salvini sembrano interessare le risorse economiche
del Paese, suggerirei di controllare come vengono spesi i soldi
per il mantenimento dei detenuti, perché so di carceri
in cui ai detenuti manca la carta igienica da mesi o dove non
ricevono nemmeno il kit d'accoglienza e che passano settimane
con addosso gli indumenti con cui sono stati arrestati perché
non hanno nulla. Ricordo un ragazzo che è rimasto in
mutande per giorni, in pieno inverno. I vestiti glieli hanno
prestati i suoi “concellini” – il carcere
non è abitato da mostri ma da esseri umani capaci di
straordinari gesti di solidarietà – finché
il prete non gliene ha portati altri. Quasi dimenticavo: a Salvini
non interessano le condizioni dei detenuti perché loro
meritano di soffrire.
Allora mi focalizzo solo sui soldi, sul far quadrare il bilancio,
o almeno ci provo: visto l'esborso economico ingente e visto
il tasso di recidiva che fornisce un dato poco rassicurante,
forse sarebbe il caso di investire meno sul carcere e più
sulle misure alternative a questo e sulla giustizia riparativa.
Una valida alternativa esiste.
Elisa Mauri
|