Di donne e libertà
Non sappiamo più dove andarci a cercare i modelli, questa
è la verità. Ammesso che ve ne sia bisogno. Personalmente
non ho bisogno di scegliere un riferimento paradigmatico, e
al contrario la possibilità di dispormi a imitare qualcuno
mi inquieta, perché mette in discussione la mia capacità
di essere un individuo. E la mia tendenza a ritrarmi alla possibilità
di essere un modello io stessa è in parte una delega
alla responsabilità che il mio mestiere impone. Che io
lo voglia o no, quando entro in aula e mi dispongo a iniziare
la lezione, i miei studenti mi guardano, consapevolmente o inconsapevolmente
preparandosi a formulare un giudizio, una valutazione di massima
o quanto meno una reazione emotiva al mio modo di presentarmi
e a quello che dico.
Dunque,
che io lo voglia o no, alla fine della lezione usciranno da
quello spazio ristretto con la mente abitata non solo dai contenuti
che ho tentato di disporre sul tavolo, soldatini ordinati ben
decisi a non partecipare a nessuna guerra, ma anche dal mio
modo di lasciarli liberi di scegliere, perché la scelta
è il segno unico e ineliminabile di una maturità
libera.
Non posso negare questo processo, non posso interromperlo, ma
posso tenerne conto. Posso sapere cioè che il linguaggio
– il mio e quello degli studenti – non è
fatto solo di parole – quelle che scelgo cercando faticosamente
l'abito più adatto per ogni concetto – ma anche
dei gesti che scelgo di fare, compreso il rispetto che dimostro
per il fatto che loro sono lì, e usano il loro tempo
(un tempo che peraltro han pagato, nell'istituzione italiana
profumatamente) per ascoltarmi e per capire se possono fare
qualcosa di quello che dico. La mia pratica di significazione
è fatta di tutto questo, non solo di quello che dico.
Sono all'antica, e penso che le affermazioni di principio non
possano essere scorporate dalla pratica quotidiana di chi le
pronuncia. Non si è liberi solo a parole. Lo si è
nei fatti, o non si è nulla.
Qualche settimana fa, sono stata invitata a un incontro su letterature
e nuovi femminismi. Con ogni probabilità, anzi quasi
per certo, ero la più vecchia in sala. Mi sono anche
chiesta perché avessero invitato proprio me, che nel
campo non sono personalità di spicco. La libreria era
strapiena soprattutto di ragazze giovani, quelle che a detta
di molte persone della mia età si sono dimenticate quanta
fatica è costato ottenere certi diritti. E la collega
che era stata invitata con me credo fosse circa di vent'anni
più giovane. Bene. È stato un incontro particolare
e interessante, fatto di storia e di presente. Inconsapevolmente,
all'inizio, credo di aver assunto l'aria dell'anziana, sebbene
io presti sempre molta attenzione a non dar nulla per scontato.
E il pubblico mi ha stupita.
Le ragazze che lo componevano, e per la verità anche
i ragazzi, hanno dimostrato un interesse inatteso e più
ancora una volontà di capire della quale mi ero dimenticata,
chiusa come stavo diventando in un'idea di “giovani donne
di oggi” che ho poi scoperto completamente teorica. Mi
sono ritrovata non solo a imparare qualcosa di più sull'essere
donna in questa comunità che sta rapidamente regredendo
all'età della pietra, ma anche ad ascoltare, con dentro
qualcosa che somiglia alla speranza, ragazze che non intendono
arrendersi e che hanno certezze ma anche dubbi, e che davvero
si chiedono che cosa si può fare.
“Si può fare ogni cosa” ho risposto. “Basta
volerlo, e non volerlo da soli”.
Così questo è il punto. La resilienza, la consapevolezza
e il confronto.
Questo è il punto. L'impossibilità della resa.
Questo è il punto. La persistenza della memoria come
timone dell'azione.
Questo è il punto: che siamo nati liberi, ma restarlo
dipende da quel che facciamo.
Nicoletta Vallorani
|